Protervo intollerante con la malafede dei relativisti, senza disponibilità al dialogo proficuo, che teme il ridicolo per via della propria allure intellettuale e preferisce autocompiacersi sottilmente e sterilmente

CERCASI

(una risposta a Shangri-La, a proposito del famigerato articolo sul Riformista)

Cara Shangri-La:
1. Io non faccio semplicemente rimbalzare (nell’articolo) l’accusa di fondamentalismo su chi ha fede. Dico tutt’altro: dico che l’accusa di fondamentalismo se la merita non chi nutre una fede forte e chiara, ma chi pretende di imporla.
2. Va benissimo che una fede imposta sia una contraddizione in termini. Però per favore: dai un nome a pratiche (un tempo praticate) come chiedere a un ebreo di convertirsi altrimenti: arrostirlo.
2b Non dico affatto, non ci penso nemmeno, che la Chiesa faccia questo o voglia farlo, dico solo che se fede imposta non ti piace, devi trovare un nome per gli arrosti, per i conversos, ecc. ecc..
2c Concedimi non molta, ma almeno un po’ di intelligenza: fondamentalismo (religioso) è voler imporre ciò che consegue da una certa fede (ma van fatte distinzioni che sotto faccio, 4d). Non si capiva? Mi pare di sì, visti gli esempi che adduci.
3. Io concedo a un cattolico di votare come vuole. Figuriamoci. Concedo pure a un tedesco di votare come vuole, ma non chiamo liberalismo il nazismo (Di nuovo, faccio esempi esorbitanti avendo certezza che tu veda bene ciò di cui l’esempio è esempio: io non paragono mica i cattolici ai nazisti, povera la mia mamma, dico solo che dal diritto dei cattolici – o di chiunque altro – a votare come credono non consegue che le leggi approvate democraticamente a maggioranza siano per ciò stesso laiche, liberali e rispettose dei diritti individuali. La legge 40 lede secondo me certi diritti, in particolare della donna. E’ stata votata a maggioranza: devo per questo, per essere coerente come tu dici, pensare che non li lede?)
4. La malafede dei relativisti. Prima di accusare qualcuno di malafede, ce ne vorrebbe un po’, non credi?
4b. Dal fatto che io trovi l’espressione ‘dittatura del relativismo’ inappropriata ai nostri tempi (per non dire scorretta) secondo quale logica o quale grattatina consegue che io sia un relativista?
4c. Dal fatto che io trovi l’espressione ‘dittatura del relativismo’ inappropriata ai nostri tempi (per non dire scorretta), consegue che io consideri il cattolico un fondamentalista? E poi di chi parli? Del cattolico come tale? Ma dove l’hai letto? Perché mi fai così poco intelligente?
4d. Io son capace di qualche distinzione. Oltre al fondamentalismo c’è il paternalismo, c’è il conservatorismo, c’è il tradizionalismo, c’è l’autoritarismo, c’è il papismo, c’è il clericalismo, c’è la semplice ingerenza, c’è, c’è, c’è. Un’altra volta ne parliamo. Fra poco compiliamo il 740 e ne riparliamo: va bene?
4e Qual è l’espressione proterva del mio articolo, di grazia?
5. Articoli come il mio contribuiscono alla vittoria della destra scassatissima? Questa non l’ho capita. Vabbè che tutto si tiene, però.
6. Io nella noosfera non mi ci addentro. Io non parlo così (e neanche Sini, che fuggevolmente citi, per dire).
7. Può darsi, anzi son sicuro che nel dialogo con la Chiesa non si possano trascurare salvezza e perdizione. Però non è che posso fare tutto in un articolo. o pensi che per discutere di legge 40 dobbiamo parlare di salvezza e perdizione?
8. Menate sillogistiche (e altre piacevolezze). Ma non sarebbe il caso di discutere nel merito, invece di sparare così a casaccio? Vuoi che il prossimo articolo su Ratzinger lo scriva con una premessa del genere:
Premesso che il Papa è persona coltissima e di grande dottrina, con un curriculum impressionante, studi teologici di prima grandezza e un’età ragguardevole, e premesso che è il PAPA, e chi sono io per, pure, dagli abissi di ignoranza nei quali mi trovo, mi pare di poter umilissimamente dire che.
Posso farlo (stile Benigni e Troisi a Savonarola, che dici?), però sai, io mi sono laureato su Kant (son giovane, comunque: puoi sbertucciarmi), su Kant che diceva: “questa è l’epoca della critica”, con quel che segue (te lo risparmio), Kant che difendeva almeno il diritto di penna. Non che nessuno me lo conculchi, per carità, però non andrei troppo fiera di una cosa che suona troppo: chi sei tu, giovincello, per criticare cotanto uomo (cotanto)?
8b Ma poi scusa: com’è che l’ironia dà così fastidio? E’ dissacrante? Appunto. (Io sono uno di quelli che tra il sacro e il santo preferisce il santo).
8c Irony, contingency, solidarity
9. Visto che senza troppo grattare la vernice del tuo articolo mi trovo dipinto da protervo intollerante con la malafede dei relativisti, senza disponibilità al dialogo proficuo, che teme il ridicolo per via della propria allure intellettuale e preferisce autocompiacersi sterilmente e sottilmente (però: tanti complimenti tutti in fila neanche luminamenti!), ti chiedo: ma non ci sarà un po’ di intollerante protervia autocompiacente con annessa malafede causa allure intellettuale e indisponibilità al dialogo nel supporre che un laico consideri la propria verità “qualsiasi fra le altre”? Ma che ne sai tu del modo in cui io vivo (in/per) la verità? Cosa ti fa supporre che chi ritenga che tutte le verità hanno diritto di cittadinanza abbia per sé una verità di serie B, una verità qualsiasi, senza le vertigini della salvezza e della perdizione, e per la quale non varrebbe la pena morire? Cosa ti fa supporre che il fatto che io ritenga di non dover imporre la mia verità, e che sarebbe meglio che nessuno ci provasse, renda la mia verità meno verità, meno esistenzialmente verità la mia verità?
9b Ma soprattutto, sei sicura che la verità è mia, o di un cattolico?
9c Ho un carissimo amico salesiano, che vive la sua fede nel più bello dei modi,  esponendosi al senso del ridicolo, come tu dici. Mi avrà contagiato.
10. Lascio per quest’ultimo punto l’unica questione specifica che riguardi il mio articolo da te trattato (peraltro riconoscendo, bontà tua, che ho montato i freni). Ho l’impressione che tu abbia saltato un rigo, questo: Se si trattasse soltanto di un errore logico, o di un insospettabile amore del nuovo papa per il paradosso, basterebbe, come dicono i logici, calcolare. Ma nelle parole del cardinale Ratzinger pronunciate poche ore prima dell’elezione, c’è qualcosa di più”. L’hai letto? C’è evidentemente anche una retorica e dell’ironia nel metterla nei termini di un errore logico (più d’uno): lo so bene e l’ho detto: e la frase che cito dovrebbe dimostrare anche a te che ne ho perfetta consapevolezza. Il punto è che però c’è (è il mio giudizio: se vuoi opinabile, ma il mio giudizio: o avere un giudizio è protervia autocompiacente eccetera eccetera?) c’è della retorica anche e soprattutto nell’espressione “dittatura del relativismo”, che altrimenti non avrebbe attirato tanti commenti. E il coltissimo e intelligentissimo Eligendo lo sapeva e lo sa bene. E a me hanno insegnato che a retorica si risponde con retorica: alla retorica con la quale si vuol far passare per dittatura quel che dittatura non è, si risponde con altra e sperabilmente migliore e un pochino più veritiera retorica.
P. S. Se posso trovare un posto nel tuo cuore: il tuo è un gran bel blog, e visto che li citi: Sini è forse il più grande, Severino è un fior di pensatore pure lui, e io da costoro imparo, non da altri (cioè sì: dal mio maestro, Vitiello). Ciò non toglie che possa essere con costoro in dissenso radicale su questo o quel punto. Loro hanno oltre settant’anni, ma credo che nessuno di loro mi farebbe pesare la veneranda età.

19 risposte a “

  1. Ma tu, a mandarli a cagare e basta, niente, eh?

  2. utente anonimo

    Laureandoti su Kant, non so se ti è occorso di incappare in affermazioni sulla religione, la quale non è cosa che ripugni una visione logica, razionale, delle cose (se non erro).
    In nome del relativismo etico si mette in discussione la verità in atto chiamando in causa la sua relatività e poi, senza poter dimostrare una verità di fatto contraria (perché il relativismo non lo consente), si pensa di poter legiferare (per esempio) come se tale dimostrazione fosse in realtà avvenuta (vedi il caso dell’aborto, in cui nessuno ha mai dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio che l’embrione e il feto non debbano avere dei diritti, mentre la legge è stata formulata come se tale dimostrazione fosse avvenuta affinché non collidesse con la legislazione sull’omicidio). Ci si nasconde allora, compiendo un salto logico piuttosto ardito, dietro la libertà di coscienza (assunto: se non c’è una verità, lasciamo decidere alle singole coscienze). Peccato però che, seguendo la prassi relativistica, quella stessa libertà di coscienza possa essere messa in discussione a sua volta (magari perché inessenziale, dal momento che è la società che la riconosce su taluni aspetti – il “paternalismo impersonale” delle nostre tecnodemocrazie – mentre la nega su altri – prendiamo ad esempio la facoltà di non lavorare per vivere – ed in modo piuttosto evidente). Visto quindi che la libertà di coscienza non è un diritto acquisito ma una benevola concessione sociale, su quale basi viene concessa caso per caso? Ed ecco che il relativismo precipita nel buco nero che ha creato e deve assistere alla necessaria resurrezione dei dogmi.
    Si tratta di problemi teorici molto complessi che non possono assolutamente essere liquidati con battute apodittiche.
    Aborto, divorzio, eutanasia e quant’altro non sono quindi diritti civili che si affermano quasi autofondandosi in nome della libertà di coscienza, come sommariamente e pedestremente vengono spesso descritti, ma concessioni sociali fondate su altrettanti a-priori dogmatici.
    Il gran pasticcio che ne viene fuori da certi confronti tra il pensiero laicista e cattolico, mostra soltanto una spaventosa approssimazione e una volontà di semplicistica polemica anticlericale priva di respiro e di autentico spirito critico (kantianamente inteso).

    Il problema dell’imposizione di una religione di stato non è in discussione in uno stato non confessionale. Quindi, perché se ne continua a parlare? C’è chi ha ancora paura di Innocenzo III?
    Inviterei pertanto a sospendere ogni polemica sui roghi e quant’altro, dal momento che la Chiesa sì è oggi dissociata, altrimenti non vedo perché non parlare delle devastazioni post-illuministiche, le quali paiono essere ancora annoverate sui testi storici.
    In Voltaire la polemica aveva una certa ragionevolezza poiché calata in un dato momento storico, tuttavia, oggi, mutuare le sue visioni mi pare piuttosto peregrino e risibile.
    Tuttavia faccio notare che uno stato laico, quando non è un’astrazione giusfilosofica ma un’entità politica reale, esprime nel suo ordinamento valori e principi che ben difficilmente possono essere considerati asettici. In altre parole, uno stato realmente laico non esiste, esistono, più propriamente, “stati etici relativi”.
    Lo stato laico è, in realtà, solo uno strumento ideologico della propaganda anticlericale di stampo liberale del XIX secolo. Dal punto di vista storico non è mai esistito né mai esisterà. E non si tratta di una pretesa cattolica ma relativistica: se il relativismo, infatti, non nega se stesso in una forma di verità convenzionale (e quindi di dogma) è destinato a ingorgarsi nel circolo vizioso così come il suo antenato più illustre, lo scetticismo.

    In tutti i contesti, la Chiesa Cattolica (o qualsiasi altra organizzazione religiosa) esprime un’influenza sulle scelte della società che è direttamente proporzionale alla sua forza numerica ma non è in grado di determinare nulla al di là di questa stessa forza (come dimostra il recente voto del parlamento spagnolo sulle unioni gay). La polemica sulle presunte “intromissioni” della Chiesa nella sfera pubblica sono, pertanto, decisamente gratuite e destituite di ogni fondamento.

    Il relativismo è dittatura del pensiero, quando attraverso questo, si crede di rimuovere un ostacolo alla libertà di coscienza, scomodando persino il diritto e snaturandolo. Ma avete idea di quanti impedimenti al nostro equilibrio e alla nostra volontà incontriamo nel corso della vita? Eppure nessuno ci autorizza a rimuoverli.
    Ora, su quale fondamento logico si stabilisce che la sola libertà a non dover essere tutelata è quella di un individuo a formarsi, per esempio? Assolutamente nessuno. La realtà è che neppure la teologia è in grado di illuminarci in proposito: a prescindere dall’infusione dell’anima, alla quale non tutti credono e con pieno diritto, da un embrione si svilupperà certamente un uomo e stabilire un limite al di qua del quale è possibile negargli questo diritto fondamentale non ha alcun senso, è una convenzione gratuita. Quindi il problema dell’omicidio dell’embrione (un’aporia definitiva in un sistema che, strutturalmente, condanna poi l’omicidio), che gli abortisti più avveduti tanto temono (e giustamente), rimane lì, granitico e insormontabile. Un problema dinanzi al quale la ragione umana dovrebbe piegarsi e sul quale il diritto, in nome della prudenza e della moderazione, dovrebbe applicare il principio classico: in dubio pro reo (che in questo caso è l’embrione). Come un giudice – in uno stato di diritto – non condanna nessuno sulla base di elementi puramente indiziari, così l’ordinamento positivo non dovrebbe ammettere né l’aborto né l’uso degli embrioni a fini di ricerca sulla base di un semplice pregiudizio convenzionale. Tanto per formalizzare: nel diritto positivo alla presunzione d’innocenza non può che affiancarsi una presunzione d’esistenza. Spero sia chiaro che la mia non è una posizione confessionale ma puramente logica: non ho parlato né in nome di Dio, né della Chiesa. La legislazione sull’aborto, si fonda su un dogma indimostrato e indimostrabile ed è un insulto non alla Chiesa ma alla vera laicità del pensiero (il pensiero laico non può che essere umile, prudente, cioè non nazista).
    Inoltre, in Italia come altrove la Chiesa ha ormai solo l’influenza che le viene dalla sua effettiva forza sociale e questo mi sembra giusto e legittimo. Nessuna interferenza o, peggio, ingerenza: solo la proposta di un modello sociale che si affermerà integralmente, in parte o per niente in base ai consensi che saprà raccogliere. E questa, miei cari amici, si chiama democrazia.

    Altra cosa: sarebbe ben scorretto non applicare il relativismo al relativismo stesso: se tutto, infatti, è relativo, perché mai l’assunto che “tutto è relativo” dovrebbe essere assoluto? Un’aporia bell’e buona, mi pare.

    Che la morale cristiana possa ispirare alcune leggi dello stato è un fatto accettabile tanto quanto che a farlo siano il liberalismo o il socialismo: bisogna mettere da parte l’astrazione concettuale di “stato laico” per considerare l’oggettività dello “stato etico relativo”; l’importante è che la morale cristiana, così come quella di qualsiasi altra parte, incida sulle leggi relativamente alla propria forza culturale nella società e non arrogandosi un diritto non democratico: questo è esattamente quello che avviene; il fatto che temiate di dovervi sottoporre a leggi ispirate a una morale che non riconoscete come vostra è un falso problema: in democrazia questo avviene sempre, per chi è minoranza, l’importante, come dicevo, è che ciò non accada in forme di dittatura della minoranza; escludo poi che su certi temi la coscienza individuale possa e debba esprimersi autonomamente: ciò è contraddetto non solo dal fatto che certe materie richiedono di fatto una normativa, ma anche dalla considerazione che il “rilievo sociale” di certe questioni non può non avere co
    nseguenze sulla libertà d’azione del cittadino che di tale società è parte, come dimostrano i casi della necessità di lavorare per vivere da una parte e gli obblighi di pagare le tasse, di non rubare – neppure per fame – e di mandare i figli a scuola fino a diciott’anni dall’altra, l’ho già detto e lo ripeto ancora.

    L’errore che tutti, laici e cattolici, compiono spesso su queste materie è quello di irrigidirsi su posizioni oltranziste: pensare, per esempio, da parte laica, che in materia di aborto siano illuminati, progressisti e di sinistra coloro che lo sostengono e, di converso, oscurantisti, clericali e di destra coloro che lo avversano, oppure, da parte cattolica, che i fautori dell’aborto siano tutti dei depravati relativisti, sono due posizioni dissennate; messo da parte il pregiudizio infondato che l’aborto sia materia di competenza esclusiva della libertà di coscienza (che, come ho dimostrato in precedenza, è un equivoco), occorre affrontare la questione – spinosissima – senza giudizi a-priori, mettendo da parte il giusnaturalismo cristiano e ragionando in termini di diritto positivo; ho cercato di dimostrare agli stessi cattolici che una riflessione serena e “illuministica” sul diritto e sulla legislazione sull’aborto conduce alla definizione di un’invincibile illiceità metodologica dei princìpi che la ispirano, e questo non in nome di Dio ma in nome della sola ragione; credo che il confronto razionale sui problemi sia l’unica soluzione praticabile – una sorta di modello dialogico habermasiano allargato – a patto che ci sia davvero la volontà di accettarne gli esiti: non sono stati pochi i laicisti che, quando ho dimostrato loro che la legislazione sull’aborto è di fatto un’aporia sistematica rispetto alla metodologia positiva che presiede alla produzione delle norme, si sono violentemente arroccati sui loro soliti pregiudizi.

    Mi si perdoni la lunghezza tuttavia necessaria.
    Ringrazio dello spazio concessomi.

    Bernardo

  3. Bernardo: sei mio fratello Raffaele e mi stai prendendo per i fondelli!
    (non c’è altra spiegazione)

  4. utente anonimo

    A dire il vero io non la conosco, e non mi pare di aver detto nulla di “fraterno”.
    Ad ogni modo, se lei nelle mie parole si riflette col presentimento che ci abbiano separato alla nascita, non posso che gioirne.

    😉
    Saluti
    Bernardo

    p.s.: ma lei non è Adinolfi?

  5. Sì, io sono Adinolfi, ma allora lei chi è?

  6. utente anonimo

    Cambio computer e le scrivo di nuovo, gentile ospite.
    Chi sia io ha poca importanza (di sicuro, comunque, non ci conosciamo), conta ciò che ho da dire e la ringrazio fin d’ora per la cortesia che mostra consentendomi di intervenire in margine a questioni che ritengo di assoluto rilievo (mentre noto con un sorriso che il nostro campione del pensiero relativo – il signor malvino – la invita a tenere comportamenti assai kantiani e, soprattutto, distanti anni luce dall’integralismo oscurantista: apprezzabile).
    Mi permetta di riferirle, nello specifico, che il suo commento all’omelia dell’allora cardinale Ratzinger è piuttosto impreciso e mi lascia alquanto interdetto, visti i notevoli e copiosi riferimenti filosofici.
    Ripeterò a lei ciò che ho già avuto modo di chiarire altrove, devo dire con gran profitto grazie all’intelligenza e all’onestà intellettuale dell’interlocutore.
    Joseph Ratzinger non sarebbe mai caduto nel marchiano errore di sostenere l’evidenza di una verità contro l’oscurantismo relativista. Questa sarebbe stata teologia da mercati generali.
    Una considerazione relativa della verità (ovvero dei suoi fondamenti retorici, per cui essa più che essere evidente o dimostrata ci presuade di sé) non contrasta affatto con la ratio teologica, anzi. La posizione di Ratzinger non si oppone affatto alla santità del dubbio, dal momento che, così facendo, cancellerebbe proprio quel Sant’Agostino al quale invece ritorna incessantemente, ma evidenzia come il pensiero relativo debba restare metodo senza degenerare in sistema. L’obiettivo polemico di Ratzinger è, infatti, il relativismo, ovvero quella pretesa dogmatica e contraddittoria rispetto ai principi stessi che la ispirano, secondo cui tutte le verità sarebbero relative tranne quella che tutte le verità sono relative. E’ la chiusura sistematica e non il metodo, il problema. In realtà, l’argomento ratzingeriano è più o meno quello della logica classica contro lo scetticismo. Anche lo scetticismo, infatti, pretendeva di chiudersi in un sistema invece di praticarsi semplicemente come metodo.
    La coscienza che la verità razionale è relativa non può escludere la verità in sé, se non cadendo in palese aporia, nel circolo vizioso.
    Il richiamo di Ratzinger al metodo, contro la pretesa sistematica relativistica, è addirittura contiguo agli esiti dell’ermeneutica gadameriana e alla pratica derridiana del fraintendimento: potremmo dire, rovesciando l’ennesimo pregiudizio, che egli difende il metodo relativo dai suoi stessi sacerdoti, che, per intenderci, difende Wittgenstein dal vanverismo di Capezzone.
    Ratzinger richiama il mondo contemporaneo a riflettere sulla banalizzazione che, nella prassi, si è fatta del principio metodologico della relatività, trasformando un orizzonte sofferto, necessariamente prudente e ferito dal faticoso rapporto dialettico tra metodo relativistico e incombere della verità, in una baldanzosa quanto contraddittoria affermazione che l’intangibilità del vero sia, quale unica eccezione a se stessa, una luminosa verità.
    Esemplificando: l’uso sapiente e coerentemente metodologico del principio relativo genera Kant e Wittgenstein, l’abuso ignorante e dogmatico del medesimo produce Pannella e Bonino.
    In quanto lei scrive, glielo dico bonariamente, il reale pensiero del teologo Ratzinger NON C’E’ e laddove affiora risulta sfigurato da una paurosa e poco generosa banalizzazione. Il suo intervento, pertanto, risulta ideologico, militante, davvero poco “aristotelico”, più che laico, laicista.
    Con rispetto.

    Bernardo

  7. “Se tutto […] è relativo, perché mai l’assunto che ‘tutto è relativo’ dovrebbe essere assoluto?”: è il gioco delle tre carte. E se la libertà è cosa buona, perché non dovrebbe averne diritto chi vuole toglierla agli altri? Non sarebbe più “assolutamente” buona. Ergo, buona non è. E dunque chi vuole toglierla agli altri ha tutto il diritto a farlo.
    Sembrerà cosa poco carina, ma – già detto – quando le argomentazioni reggono sé stesse, appare cosa non malvagia mandare a cagare chi le puntella. Se poi si spaccia pure per “equidistante”, c’è dolo: da non malvagia, la cosa diventa cosa buona.

  8. utente anonimo

    Ma quale gioco delle tre carte, caro signor malvino?
    Noto un certo affanno da parte sua nella comprensione dell’argomento, il che è almeno suggestivo per uno che pretende – mi passi il verbo – di arrancare da rispettabilissimo cerusico cavadenti fino alle altitudini del pensiero speculativo. Mi permetta di trarla fuori dalle pastoie nelle quali con incauta baldanza paralogica si è tuffato.
    Vede, la mia affermazione che lei ha così amabilmente citato va contestualizzata, dal momento che dice l’esatto contrario di ciò che pensa lei.
    In altre parole: poiché, come giustamente lei intuisce, quel circolo vizioso condurrebbe – come logico – all’ assoluta gratuità proposizionale, è ben evidente che il relativismo in quanto sistema risulta aporistico, nonché banale, e, di conseguenza, improponibile per un filosofo serio.
    E questo su basi aristoteliche, non certamente ecclesiastiche.
    Altra cosa è la considerazione relativa e retorica delle proposizioni assunta in funzione metodologica (non sistematica, quindi), che è non solo auspicabile ma, come si legge in Wittgenstein, addirittura necessaria.
    Lei ha dunque creduto di leggere nelle mie parole un’affermazione mentre, in realtà, era in presenza di un semplice paradosso (è lei, infatti, il sostenitore del relativismo, mica io).
    Non sarebbe dunque il caso di meditare sull’eventualità di raggiungere l’ameno luogo di liberazione interiore verso il quale mi aveva forse un po’ troppo frettolosamente indirizzato?
    Le auguro ogni bene.

    Bernardo

  9. Gentile commentatore, il nemico di Ratzinger, Lei scrive, è il relativismo. Non ne dubito. Tal relativismo Ella definisce “quella pretesa dogmatica e contraddittoria rispetto ai principi stessi che la ispirano, secondo cui tutte le verità sarebbero relative tranne quella che tutte le verità sono relative”. Mi permetta di dirLe a questo riguardo (e a riguardo delle sue righe seguenti) alcune cose.
    La prima: sarebbe filosofia da mercati generali quella di chi definisse nei termini stretti che Lei adotta il proprio sistema di pensiero. Altra cosa è mostrare come questa o quella posizione filosofica sono riconducibili a quei termini. Ma allora vale la reciproca: è teologia da mercati generali quella che pretende di ridurre il confronto con la filosofia in questi termini. E soprattutto, qualche reductio sarebbe allora ben praticabile anche sul testo ratzingeriano.
    La seconda. Se gli scetticismi e i relativismi e i nichilismi, contemporanei e non, fossero liquidabili così facilmente, se bastasse la logica classica, se la logica classica non fosse essa stessa in questione, e radicalmente in questione, allora saremmo a cavallo. Ma così purtroppo non è.
    La terza. Esistono scetticismi che essendo scetticismi non pretendono affatto di rinchiudersi in un sistema: su questo siamo d’accordo? L’elogio ratzingeriano del dubbio consente di dubitare che Dio esista, che il Papa sia infallibile, ecc. ecc.: il dubitante in questione cos’è: scettico, relativista, nichilista? Il dubitante in questione è confutato? Come, mi scusi?
    La quarta. Questioni del genere, che mi scuso di porLe, non interessano larga parte della filosofia contemporanea, e comunque non interessano me.
    La quinta. Vi accennavo prima. Io non considero affatto che le basi aristoteliche della logica (l’elenchos, in particolare) mettano la logica stessa al riparo da una riconsiderazione filosofica più radicale. (Ma questo non è in discussione qui).
    La sesta. Apprendo con autentico giubilo che Ratzinger sta dalle parti di Derrida. Qui, confesso la mia ignoranza.
    La settima. Se Ratzinger ce l’ha solo con la trasformazione in certezza dell’incertezza circa la verità, ho bisogno di qualche chiarimento. Se io son certo che la verità è incerta, mi contraddico (almeno su un punto). Va bene. Consegue da ciò una cosa che si chiama ‘dittatura del relativismo’? Io posso essere infatti certo per fatti miei, senza pretendere che questa certezza sia fatta propria dagli altri. Io posso persino rivendicare il diritto alla contraddizione, e tutti lo possono rivendicare per sé: neanche in questo caso, mi pare, ci sarebbe dittatura (era il senso della mia osservazione nell’articolo, se vuole).
    La decima. La trasformazione in questione dov’è? Voglio dire: c’è qualche relativista (non so di chi parliamo, ma fa nulla) che si opporrebbe oggi a questa rappresentazione del suo pensiero: io non so quale sia la verità. Se qualcuno lo sa si faccia avanti: finora non ne ho trovato nessuno. Insomma: non c’è affatto bisogno di elevare la non verità ad unica verità. Basta dire ‘finora’, oppure ‘non so se’: esulterebbe di gioia, il Papa? Voglio capire: a lui basta che la verità non sia esclusa, oppure ritiene che non possa non essere inclusa? (E non mi si obietti che però anche chi dice non so sa di non sapere, perché questa obiezione non avrebbe qui alcun senso)
    La nona. Un altro chiarimento mi occorre: io non sono affatto certo che la cosa migliore sia descrivere il nostro tempo in termini di ‘dittatura del relativismo’: lei sì? Io temo che proprio una simile descrizione (palesemente retorica, altro che) corra il rischio di fare ogni relativo ugualmente lontano dalla verità (assoluta o no), ed è questo (come si evince dalle più serie battute della conclusione del mio articolo) il vero problema (a mio giudizio).
    La decima. Mi piacerebbe discutere solo del vero problema. Qui ne approfitto per chiederle: son certo che Lei sia rimasto interdetto; quanto alle imprecisioni, me ne vuole parlare? (sinora non mi pare l’abbia fatto).
    Con profondo rispetto

  10. utente anonimo

    La prima: sarebbe filosofia da mercati generali quella di chi definisse nei termini stretti che Lei adotta il proprio sistema di pensiero. Altra cosa è mostrare come questa o quella posizione filosofica sono riconducibili a quei termini. Ma allora vale la reciproca: è teologia da mercati generali quella che pretende di ridurre il confronto con la filosofia in questi termini. E soprattutto, qualche reductio sarebbe allora ben praticabile anche sul testo ratzingeriano.

    Lei ha ragione. Altra cosa sarebbe mostrare come questa o quella posizione filosofica siano riconducibili a quei termini: come le dicevo, tra le due cose c’è tutta la distanza che separa Marco Pannella da Ludwig Wittgenstein. Sistema e metodo. Oggettività sistematica presunta e soggettività metodologica praticata. Ma appunto il primo modello e non il secondo è l’obiettivo polemico di Joseph Ratzinger. Nessuno si sogna – e men che meno un teologo di tradizione agostiniana e non tomistica come lui – di proporre la teologia come un sistema compiuto, come il solo sistema compiuto, anche perché ciò sarebbe in palese contraddizione con la riconosciuta necessità della fede e col suo statuto di gratuità assoluta, di dono e di azzardo. Ciò che conta è che l’orizzonte relativo non possa assolutamente arroccarsi a fondamento di un’etica relativistica del pensiero se non contraddicendo in modo definitivo i suoi stessi presupposti. Il metodo relativo non può fare a meno del concetto di verità, dell’aspirazione alla verità, dell’ammissibilità teorica e tecnica della verità (come ha riconosciuto allo stesso Ratzinger un filosofo laico ma avveduto come Jurgen Habermas, che, pur in una ridimensionata considerazione del concetto di ragione, ha poi inteso fondare un modello dialogico e comunicativo mirante in definitiva proprio a ricostituirlo), e questo, come le dicevo, collima perfettamente con le conclusioni “mistiche” di Wittgenstein (non solo marginalmente nel TLF, ma ben più in sostanza nei successivi sviluppi dei QF e delle RF), non a caso prudentemente scansate dai sodali del Wiener Kreis. L’invito di Ratzinger alla filosofia è lo stesso di Wittgenstein: quello a non “mancare” il proprio oggetto creandosene un altro e indicando sic et simpliciter un’identità che potremmo definire heideggerianamente metafisica (di qui anche l’impraticabilità “sensata” del nichilismo).

    La seconda. Se gli scetticismi e i relativismi e i nichilismi, contemporanei e non, fossero liquidabili così facilmente, se bastasse la logica classica, se la logica classica non fosse essa stessa in questione, e radicalmente in questione, allora saremmo a cavallo. Ma così purtroppo non è.

    Certamente: la logica classica non è adeguata ad affrontare le questioni poste dall’ermeneutica. Tuttavia, gentile ospite, le faccio notare che essa è sufficiente e direi anzi imprescindibile nel momento in cui, contro l’ermeneutica, quegli scetticismi, relativismi e nichilismi presumono di potersi chiudere in un sistema. Non a caso l’ermeneutica non è un sistema ma un metodo. Se mi permette: non sono io a non vedere il problema, io mi limito a richiamare l’attenzione su una pratica triviale della logica classica in un contesto improprio. Mi sento autorizzato, pertanto, a farne uso anch’io nei limiti dell’intento di mostrare tale trivialità.

    La terza. Esistono scetticismi che essendo scetticismi non pretendono affatto di rinchiudersi in un sistema: su questo siamo d’accordo? L’elogio ratzingeriano del dubbio consente di dubitare che Dio esista, che il Papa sia infallibile, ecc. ecc.: il dubitante in questione cos’è: scettico, relativista, nichilista? Il dubitante in questione è confutato? Come, mi scusi?

    No, il dubitante in questione è semplicemente un pensante. Non si irrigidisca in posizioni certamente avvedute ma anche scopertamente scolastiche. Non si lasci irretire dalla fregola dell’affermazione retorica. Non siamo nell’Areopago. Mi permetta: il suo modo di procedere, a dispetto delle sue aspirazioni, ha spesso tratti ancora molto aristotelici, da catalogo categorico, per pretendere di essere anche pienamente ermeneutico. Che pure Ratzinger, che lei fraintende clamorosamente, non possa sostenere altro che quel dubitante è semplicemente un pensante (almeno finché non pretenda di elevare il dubbio a principio sistematico anziché metodologico) è dimostrato proprio dai contenuti del suo dialogo con Habermas, al quale la rimando, e dal concetto stesso di fede, condizione risolutiva sine qua non e tuttavia gratuita per suo stesso statuto (e virtù).

    La quarta. Questioni del genere, che mi scuso di porLe, non interessano larga parte della filosofia contemporanea, e comunque non interessano me.

    Guardi, lei sta parlando a uno studioso di estetica e semiotica, si figuri (anzi, sarò lieto di farle omaggio dei miei saggi, se vorrà). Tuttavia, visto che si pone l’obiettivo di criticare l’omelia ratzingeriana non può davvero fare a meno di porsele. A meno che non voglia argomentare a vanvera, secondo l’uso di Eugenio Scalfari, al quale non vorrei mai che lei si ispirasse (poiché, a prima vista, mi pare giovane di ben altre ambizioni).

    La quinta. Vi accennavo prima. Io non considero affatto che le basi aristoteliche della logica (l’elenchos, in particolare) mettano la logica stessa al riparo da una riconsiderazione filosofica più radicale. (Ma questo non è in discussione qui).

    Appunto. Su questo ho già detto.

    La sesta. Apprendo con autentico giubilo che Ratzinger sta dalle parti di Derrida. Qui, confesso la mia ignoranza.

    Mi rilegga. Ho parlato di “pratica del fraintendimento” e non di Derrida tout court. Ovvero di oltrepassamento della metafisica che, in quanto tale, non può prevedere nessun irrigidimento, pena il ricadere nella metafora dell’essere come presenza e luminosità. Non a caso l’enfasi dell’orizzonte della scrittura come luogo della différence viene progressivamente abbandonato e non per argomenti ma addirittura per dileguamento, evanescenza, dimenticanza. Ora, proprio questa considerazione della filosofia come fraintendimento sistematico della verità è la variante derridiana (che, a differenza di Heidegger, fugge letteralmente il concetto di essere e, quindi, il sospetto ontologico) della vocazione descrittiva di Wittgenstein. Tutto ciò, come le dicevo, relativizza ma non istituzionalizza la relatività: fu anzi questa la preoccupazione, l’ossessione direi, di Derrida.

    La settima. Se Ratzinger ce l’ha solo con la trasformazione in certezza dell’incertezza circa la verità, ho bisogno di qualche chiarimento. Se io son certo che la verità è incerta, mi contraddico (almeno su un punto). Va bene. Consegue da ciò una cosa che si chiama ‘dittatura del relativismo’? Io posso essere infatti certo per fatti miei, senza pretendere che questa certezza sia fatta propria dagli altri. Io posso persino rivendicare il diritto alla contraddizione, e tutti lo possono rivendicare per sé: neanche in questo caso, mi pare, ci sarebbe dittatura (era il senso della mia osservazione nell’articolo, se vuole).

    Se è per questo io posso rivendicare anche il mio diritto a indossare una redingote grigia dicendo di essere Napoleone Bonaparte. Ergo? Per questo lei non sarebbe autorizzato a consigliare ai miei parenti di condurmi da un valente psichiatra? Lei attribuisce rilievo metodologico assoluto a una distinzione puramente quantitativa, riducendo la questione a una banale dialettica sociale fra pubblico e privato. La cosa in sé non ha senso ed è soprattutto antifilosofica (in altre parole: se lei vuole assumere il diritto alla chiacchiera come principio ispiratore ha ragione a prendersela con Ratzinger, ma le assicuro che non troverebbe sodali in Derrida o Severino, ma al massimo in Michele Cucuzza e Maurizio Costanzo). Anche e soprattutto in ambito ermeneutico, non esiste alcuna possibilità di invocare la con
    traddizione come un diritto individuale (ha presente Gadamer?), a meno che non si sia sancito, attraverso una gratuita e sistematica radicalizzazione del principio relativo, che la verità non esiste. Che poi lei tenti di aggirare questa questione facendo seguire quell’affermazione a una prassi e non viceversa è un modo per aggirare il volontarismo con la necessità mancando, però, di rilevare come quella stessa necessità, nel momento in cui viene assunta come diritto e non come semplice condizione, la faccia ricadere nell’apodittica posizione iniziale. L’argomento della dittatura del relativismo è serissimo e, se rettamente inteso (a tal proposito mi pare che la sua lettura dell’omelia di Ratzinger possa a malapena definirsi superficiale), non significa altro che porre l’accento sui caratteri arbitrari quanto assoluti di tutte le definizioni che abbiamo fin qui analizzato e che le ho mostrato essere tutt’altro che incerti. Per usare altri termini, la dittatura del relativismo equivale per esempio alla cancellazione coatta dal TLF delle proposizioni secondo cui di ciò di cui non si può parlare si deve tacere (e non mi venga a dire che Dio è la prima di queste cose, perché sarebbe fin troppo facile per me mostrarle, ancora una volta, il rilievo che assume la differenza metodologica in tale questione: laddove in teologia la sostanza di quel silenzio è proprio la fede, che viene riconosciuta e che, anzi, viene necessitata secondo caratteri di assoluta gratuità in rapporto a una strutturale trascendenza che chiude, sia pure eccentricamente ma d’una eccentricità confessata, il sistema) e secondo cui anche se noi avessimo affrontato e risolto tutti i problemi effettivamente proponibili non avremmo neppure sfiorato la sostanza delle cose.

    L’ottava. La trasformazione in questione dov’è? Voglio dire: c’è qualche relativista (non so di chi parliamo, ma fa nulla) che si opporrebbe oggi a questa rappresentazione del suo pensiero: io non so quale sia la verità. Se qualcuno lo sa si faccia avanti: finora non ne ho trovato nessuno. Insomma: non c’è affatto bisogno di elevare la non verità ad unica verità. Basta dire ‘finora’, oppure ‘non so se’: esulterebbe di gioia, il Papa? Voglio capire: a lui basta che la verità non sia esclusa, oppure ritiene che non possa non essere inclusa? (E non mi si obietti che però anche chi dice non so sa di non sapere, perché questa obiezione non avrebbe qui alcun senso)

    A queste domande potrà agevolmente darsi una risposta leggendo quanto le ho scritto fin qui. La verità non può essere non inclusa in quanto aspirazione, vocazione, inquietudine. Tutta la storia della fatica heideggeriana intorno alla questione della metafisica è sostanzialmente la storia di una fedeltà a tale vocazione. Ecco perché, con buona pace dell’illustre professor Vattimo, Heidegger non è un nichilista né, per essere onesti, un cripto-teologo. In fondo all’analitica esistenziale non c’è né il nulla (che, come sostenne Fredegiso, è pur sempre qualcosa) né Dio (dal momento che in entrambi i casi ricadremmo nella metafisica), ma una problematica di assunzione di responsabilità di fronte all’elusione sistematica della domanda fondamentale.

    La nona. Un altro chiarimento mi occorre: io non sono affatto certo che la cosa migliore sia descrivere il nostro tempo in termini di ‘dittatura del relativismo’: lei sì? Io temo che proprio una simile descrizione (palesemente retorica, altro che) corra il rischio di fare ogni relativo ugualmente lontano dalla verità (assoluta o no), ed è questo (come si evince dalle più serie battute della conclusione del mio articolo) il vero problema (a mio giudizio).

    Lei avrebbe senz’altro ragione se, con tale definizione, Ratzinger avesse preteso di risolvere tout court la considerazione dei nostri tempi. In realtà, egli ha posto un problema che è sì dei nostri tempi, ma che, al tempo stesso, è uno dei tanti, e in rapporto a determinati, chiari ed espliciti presupposti. Tutta l’opera di Ratzinger – considerato anche da molti laici avveduti come Habermas una delle menti più lucide d’Europa – non può essere banalizzata in una sola frase, senza considerare, tra l’altro, il contesto omiletico, e quindi sommario, in cui è stata pronunciata. Il suo intervento in proposito, me lo consenta, più che da filosofo mi pare da elzevirista militante, preoccupato più di risultare un brillante polemista che non un indagatore della verità.

    La decima. Mi piacerebbe discutere solo del vero problema. Qui ne approfitto per chiederle: son certo che Lei sia rimasto interdetto; quanto alle imprecisioni, me ne vuole parlare? (sinora non mi pare l’abbia fatto).
    Credo che possa agevolmente desumerle da quanto ho scritto finora: non le farei mai il torto di ripetermi, dimostrando così scarsa fiducia nel suo acume di giovane filosofo.
    In conclusione, se posso permettermi, un consiglio: abbia più a cuore la filosofia della sua vanagloria, più i libri della stampa. Come diceva Carmelo Bene: più che della libertà di stampa dovremmo preoccuparci di come liberarci DALLA stampa.

    Cordiali saluti,

    Bernardo

  11. Visto che tiene al metodo, egregio signor Bernardo, mi consenta qualche osservazione a proposito delle condizioni e del metodo con cui viene condotto questo nostro dialogo.
    Lei si mantiene in un prudente anonimato. Lei fa riferimento a suoi libri di estetica e semiotica, che avrei molto piacere a leggere, se Lei mi mettesse in condizioni di farlo, fornendomi le relative indicazioni bibliografiche. Lei non perde occasione di rilevare che io son giovane, come neanche Platone nei suoi dialoghi con gli interlocutori da mettere a posto. Può darsi poi che Lei sia ottuagenario, e in tal caso abbia le mie più vive congratulazioni, ma mi scusi: cosa c’entra l’età? Lei non manca mai di chiedersi se io abbia letto questo o quello. Mi consenta: dia pure per scontato che io abbia letto tutto il leggibile, o che non abbia letto nulla affatto: ma mi scusi, di nuovo, cosa c’entra? Se mi considera ignorante, se considera cioè che la mia ignoranza non Le consente di spiegarsi, lasci perdere. Se si spiega, abbia la bontà di supporre che io sia in grado di seguirla nei suoi aerei passaggi da qui a lì. Si spieghi meglio, magari, ma non mi dia indicazioni di lettura: non c’è bisogno. Ci provo da solo a colmare le mie gravi lacune. Lei pensi alle Sue. Lei poi ritiene che io abbia a cuore “la filosofia della mia vanagloria”. Mi scusi: perché? Perché ho scritto (a richiesta) un articolo su un giornale? O perché l’articolo riguardava Ratzinger? Cos’è: lesa maestà? Dipende dal fatto che Ratzinger ha molto scritto e studiato? Anche Vattimo, se è per questo. Ogni volta che Lei critica Vattimo, in attesa di conoscere la sua produzione scientifica posso pensare che Lei ha a cuore la filosofia della sua vanagloria?
    Mi chiedo, insomma: Le riesce di scrivere un suo commento senza questi elementi gratuiti e inutilmente polemici, e per giunta indirizzati non alla cosa che è in questione (Lei è un ermeneuta, sa cosa voglio dire), ma, come il peggiore dei sofisti, al suo o ai suoi interlocutori? Le riesce di supporre che qualcuno discuta, e ha la pazienza di risponderLe così nel dettaglio, contravvenendo ai calorosi inviti di Malvino, per amore di ciò che è in discussione?

    Nel merito, mi pare che Lei si limiti a ribadire in lungo e in largo che Ratzinger ce l’aveva con il relativismo che, eretto a sistema, esclude per principio la verità (la Verità). Io Le ho chiesto di mostrarmelo all’altezza di qualche sistema filosofico. A suo giudizio (mi limito ai nomi da Lei citati, ma me ne faccia pure degli altri), Vattimo, Derrida, Habermas, Gadamer, Wittgenstein, Heidegger (cioè la filosofia del ‘900, tolto da Lei Vattimo e aggiunto qualcuno tipo Husserl), tutti costoro sono relativisti sistematici? Lei non perde occasione per ricordarmi che gran pensatore è Ratzinger: non ne dubito. Proprio perciò da Lui mi aspetto che il confronto con il pensiero non cattolico non sia sviato da etichette (perché tale è) come ‘dittatura del relativismo’. Proprio perché Ratzinger è un gran teologo, io invece penso proprio che non ce l’avesse con nessun relativismo eretto a sistema, ma casomai con il modo in cui gli uomini abitano il mondo: con le tentazioni del mondo. Io del mondo dò un altro giudizio. Ma, mi consenta, l’esempio del tizio che ha il gusto e il piacere di contraddirsi non è affatto fuori luogo, se del mondo si tratta, e per questo il vero punto in questione mi pare sia se si possa riconoscere che senza l’Assoluto verità relative stanno bene in piedi, senza alcuna contraddizione. Lei lo riconosce o no?
    Mi consenta poi un’osservazione di carattere generale: non so Lei, ma io non so che farmene dell’ermeneutica, se si risolve, in un primo tempo, nella critica della metafisica (specie moderna) e delle pretese della scienza ad ergersi ad unica sede della conoscenza, e, in un secondo tempo, nella rivendicazione dell’esigenza della verità, così che ognuno abbia il suo mai concluso ma sempre legittimo cammino di ricerca. Non ci vedo niente di attraente, e molto di potenzialmente dannoso, in questo senso comune filosofico, con il quale qualunque discorso pensoso, meglio se preoccupato dei destini del mondo e, come no?, della verità, diviene per ciò stesso filosofia. L’ermeneutica è ben altro (spero): non so se su questo possiamo essere d’accordo. Mi permetta però di dirLe che ho l’impressione (ma dovrei leggere i suoi scritti, per farmene un’idea e un giudizio preciso, sicché son ben disposto a farmi tutt’altra impressione) che questa impostazione stia nelle sue considerazioni. Lei mi attribuisce fraintendimenti clamorosi e imprecisioni varie; io trovo nelle sue risposte un’apprezzabile e ben esercitata capacità di non rispondere. Poiché, al postutto, se devo dire ora cosa c’è che secondo Lei non va nel mio articolo, confesso – sarà la mia vanagloria – ma proprio non mi riesce di capirlo davvero. Certo, Lei sembra dire solo che l’articolo è fuori tema, che non ho capito con chi ce l’avesse Ratzinger parlando di ‘dittatura del relativismo’. Sarà. Se Lei ha ragione, comunque, son contento: vuol dire che non ce l’aveva con me.
    I miei omaggi

  12. utente anonimo

    Caro amico, se, come giustamente rileva, l’età non c’entra, non c’entra nemmeno il nome. Le cambierebbe qualcosa se sapesse che sono Emanuele Severino? Credo e spero di no. Le faccio notare altresì che i miei riferimenti alla sua giovane età non contengono in nessun caso né commiserazione né paternalismo, anzi, rovesciandole il suo argomento, il fatto stesso che io stia qui a dialogare con lei dimostra la considerazione che ho per quanto va scrivendo. Non sono solito dialogare con persone che non ritengo degne della mia stima o addirittura noiose (potrei ricorrere in quel caso all’insulto gratuito, secondo la scuola dell’illustre Malvino, ma essendo persona pacata e assolutamente aliena da forme di oltranzismo me ne guardo bene).
    Non ho scritto inoltre che lei abbia a cuore “la filosofia della sua vanagloria”, bensì, come dimostra la contiguità di altri due termini (“più i libri della stampa”), di una relazione esortativa: abbia più a cuore la filosofia PIUTTOSTO CHE la di lei (sua, adinolfiana) vanagloria. Il suo articolo non è fuori luogo perché prende Ratzinger come obiettivo polemico, ci mancherebbe, non banalizzi per favore, il suo articolo è colpevole perché mentre fraintende Ratzinger semplificandone paurosamente la posizione (come ho avuto modo di dimostrarle) è asservito a un tono saccente e presuntuoso che lei, evidentemente, indovina funzionale all’orizzonte d’attesa dei suoi lettori. Curioso che si senta nel diritto di stigmatizzare in me ciò che lei pratica per primo.
    Quanto ai miei scritti, non tema, al momento opportuno saprà ogni cosa. Mi piace giocare ma non gioco mai sporco, abbia fede (non in Dio, non tema).
    Lei mi ha frainteso, per dirla con Derrida: io ho solo detto che il principio di relatività è un orizzonte metodologico e come tale è praticato, per esempio, da pensatori come Wittgenstein o Gadamer (niente a che vedere col relativismo, dunque). Nella filosofia del ‘900 tutto ciò è chiarissimo, ed ecco perché mi sono permesso di suggerire una rilettura dei testi di Ratzinger in sinossi con Wittgenstein o chiamando in causa addirittura lo stesso Gianni Vattimo che, tempo fa, allarmato dagli esiti incerti dell’ermeneutica proprio in direzione di quanto anche da lei evidenziato, richiamava l’attenzione sul rischio che essa divenisse più o meno un’approssimativa filosofia generalistica della cultura. Se, come mi pare, possiamo concordare su questo io posso darle senz’altro atto che la polemica ratzingeriana può intendersi anche contro quelle degenerazioni etiche che del relativismo (non del metodo relativo, sia chiaro ancora una volta) sono le figlie dirette e più triviali.
    Se lo desidera, potremo senza problemi confrontarci in futuro anche su questi temi.
    Senza l’assoluto,come dice lei, le conclusioni relative possono naturalmente sussistere, a patto che si concepiscano come tali, con estrema prudenza e umiltà, oggetto “proprio” di una filosofia in cui l’ermeneutica possa essere sottratta al pericolo della genericità grazie a una rigorosa impostazione metodologica. Tali conclusioni, inoltre, non potrebbero a rigore neppure presentarsi come tali, ma “mobilitate” costantemente dalla relazione assoluta col tempo e dalla vocazione mistica all’assoluto. Io, caro amico, concepisco una filosofia tanto rigorosa quanto capace di un consapevole basso profilo.

    Bernardo

  13. Mi fa piacere che Lei mi onori della Sua stima ma mi consenta: Lei trova il tono dell’articolo saccente e presuntuoso. Il tono. Da come Lei trova il mio tono io, come sa, non posso difendermi, ovviamente. Né voglio dire cosa io trovo nel Suo tono. Ma il fatto è che per un principio di carità che l’ermeneutica ben conosce, io mi limito alle Sue parole, non al Suo tono. Lascio perdere imprecisioni e marchiani errori e paurose banalizzazioni e fraintendimenti clamorosi (non so come faccia ad aver stima di uno che infila tutte insieme queste cose!), è tra le sue parole, non tra le mie che trovo: saccente, presuntuoso (le ultime, complimenti) e vanagloria (mia, adinolfiana: appunto) e smania da primo della classe. (Guardi poi che non è questione di permalosità, è solo il tentativo di evitare insulti gratuiti: non voglio fare l’offeso, vorrei evitare di offenderLa o di non risponderLe). Quanto ai suoi scritti, Lei si è offerto di indicarmeli, se vorrò. Voglio. Indichi pure.
    Per il resto, io non l’ho fraintesa. Io le ho chiesto i nomi. Quelli fatti o da fare non importa. I nomi dei filosofi cui appiciccare l’etichetta ‘dittatura del relativismo’. O mi fa quei nomi, così ho qualcosa da studiare, oppure guardi: lasci perdere.
    Quanto al confronto futuro, un blog c’è anche per questo.
    Mi piace come Lei definisce il profilo, lo stile e il rigore della filosofia. Mi pare però che a questo profilo e stile e rigore non appartenga necessariamente (per quanto abbiamo detto, Lei ed io) la loro mobilitazione con la “vocazione mistica all’assoluto”, come Lei pare sostenere (domando per sapere: in Gadamer questa vocazione c’è?). Al massimo, vi appartiene problematicamente: vi può appartenere, non vi deve. Forse qui il punto è che lei ritiene che una verità relativa (sto dando per buono il suo vocabolario) non possa essere relativizzata se non supponendo un qualche orizzonte assoluto, stile rapporto analitica/dialettica in Kant, io no (e di quel rapporto dò una lettura un po’ più complicata, ma non importa in questa sede). E, mi scusi, secondo me neanche Derrida o il Wittgenstein delle Ricerche.

  14. utente anonimo

    A parte il fatto che ha messo insieme tutti i miei spunti polemici, anche quelli non indirizzati a lei. A prescindere da tutto, però, voglio farle senza indugio le mie scuse, a scanso di equivoci, se alcune delle mie parole possono averla ferita in qualche modo. Come le dicevo, non amo l’insulto e la polemica condotta a livello personale.
    Quanto ai “filosofi” ai quali applicare l’etichetta di “dittatura del relativismo”, credevo di essermi spiegato. Lei mi ha frainteso proprio perché insiste nel chiedermi di fare i nomi. Se avrà la pazienza di rileggermi con attenzione, vedrà che ho sempre sostenuto che una “filosofia relativistica” è, dal mio punto di vista, una banalità colossale. Tra quelli che abbiamo citati nessun filosofo – a parte forse il solo Vattimo, per via del ricorso esplicito al nichilismo – può essere considerato un “relativista” in senso proprio. Nessuno esclude il problema della verità dal suo orizzonte speculativo e non le sarà difficile accorgersi che li ho chiamati in causa spesso e volentieri per mostrarne tangenze di non poco rilievo col pensiero di Ratzinger, purificato, naturalmente, dai suoi caratteri più schiettamente teologici.
    L’obiettivo polemico dell’allora cardinale non erano tanto i filosofi ma coloro che, nei fatti, l’hanno eretto a sistema: politici, giornalisti, presunti uomini di scienza asserviti agli interessi economici sottintesi alla ricerca, opinionisti, artisti, in una parola tutti coloro che hanno trascinato l’equilibrio sottile e sempre precario dei filosofi più avveduti nel loro modo grossolano e approssimativo. Da questi, naturalmente, come dicevamo, le conseguenze più nefaste anche nelle abitudini etiche di tutti i giorni.
    Circa la “vocazione mistica all’assoluto”, se ne può naturalmente parlare, per ora, se escludo dal novero dei pensatori assimilabili a tale prospettiva Gadamer e Derrida (che ho citati per altre ragioni), vi includo decisamente, invece, Heidegger e Wittgenstein.
    Infine sui miei saggi: sappia pazientare, le assicuro che non ho intenzione di eludere la sua richiesta.

    Cordialmente,

    Bernardo

  15. Le ho detto: non mi interessa far l’offeso, ma discutere senza elementi che non aiutano la discussione. Sul punto sul quale stiamo ancora discutendo, mi consenta di rinviarLa a Ratzinger e la misura della stoffa, apparso su Leftwing.
    Cordialmente

  16. dunque secondo te “le conseguenze più nefaste anche nelle abitudini etiche di tutti i giorni” (nefaste vale come assoluto, immagino), dipendono dalle opinioni di “politici, giornalisti, presunti uomini di scienza asserviti agli interessi economici sottintesi alla ricerca, opinionisti, artisti” (e persino filosofi).
    Cioè, la società (diciamo così…) assume dei comportamenti e degli usi perché glielo dice qualcuno.
    Ah be’, ora è tutto più chiaro.

  17. utente anonimo

    Ma no, signor georg, ma no. Dove mai avrei scritto una simile corbelleria?
    Ho solo scritto che la società assume il metodo relativo dei filosofi come un orizzonte malamente sistematico, contraddicendo la stessa filosofia.
    Non ho tematizzato, mi pare, alcuna questione di modalità che rientra in un ambito schiettamente semiotico.

    Bernardo

  18. ah ecco, è la società che non ha studiato abbastanza. da qui le nefaste conseguenze etiche ecc ecc.
    🙂

  19. utente anonimo

    Non posso che ripetermi, gentile georg: non ho tematizzato, mi pare, alcuna questione di modalità che rientra in un ambito schiettamente semiotico.

    Bernardo

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