Aperto e chiuso
“Tra le scappatoie possibili, la più semplicistica (e, per anni, purtroppo la più diffusa) è stata quella di considerare l’indicibile/impensabile come un non-ente, cui Wittgenstein si riferirebbe al solo scopo di dimostrare che la sana regione dei fatti e della piena dicibilità sarebbe l’unica realmente degna del pensiero – col risultato che una filosofia distinta dalle scienze naturali non avrebbe altro compito che dimostrare rigorosamente la propria inutilità […]
D’altro canto, una soluzione opposta e speculare, ma non meno insoddisfacente, sarebbe quella che considera l’apertura all’indicibile come un’esperienza a sé stante, distinta e separata da ogni altra. Si tratta della lettura più tradizionale – o se vogliamo più metafisica – del mistico, quella che postula un ‘sentimento’ o una ‘intuizione’ del mondo come intero delimitato accanto alla conoscenza ordinaria dei fatti e dunque al di là di ogni contingenza intramondana – il che finisce regolarmente col votare la filosofia al paradosso di voler pensare l’impensabile […]
Il punto decisive sta insomma nell’intendere il «dire» e il «mostrare» come le due articolazioni necessarie di un unico atto di senso, che non può dire alcunché se non mostrando qualcosa di indicibile – qualcosa che, come vedremo, non è altro che la dicibilità stessa dei fatti in generale”
(M. De Carolis, Una lettura del Tractatus di Wittgenstein, Cronopio 1999, pp. 28-29).
Mi auguro che tutti coloro i quali – Ratzinger compreso – pensano di regolare i conti con il pensiero filosofico schiacciandolo sull’alternativa: o la filosofia è aperta a ciò che è al di là della contingenza intramondana, oppure è chiusa all’esperienza dell’indicibile Altro (e se è chiusa è dittatura del relativismo) vogliano rifletterci un po’ su.