Aperto e chiuso
“Tra le scappatoie possibili, la più semplicistica (e, per anni, purtroppo la più diffusa) è stata quella di considerare l’indicibile/impensabile come un non-ente, cui Wittgenstein si riferirebbe al solo scopo di dimostrare che la sana regione dei fatti e della piena dicibilità sarebbe l’unica realmente degna del pensiero – col risultato che una filosofia distinta dalle scienze naturali non avrebbe altro compito che dimostrare rigorosamente la propria inutilità […]
D’altro canto, una soluzione opposta e speculare, ma non meno insoddisfacente, sarebbe quella che considera l’apertura all’indicibile come un’esperienza a sé stante, distinta e separata da ogni altra. Si tratta della lettura più tradizionale – o se vogliamo più metafisica – del mistico, quella che postula un ‘sentimento’ o una ‘intuizione’ del mondo come intero delimitato accanto alla conoscenza ordinaria dei fatti e dunque al di là di ogni contingenza intramondana – il che finisce regolarmente col votare la filosofia al paradosso di voler pensare l’impensabile […]
Il punto decisive sta insomma nell’intendere il «dire» e il «mostrare» come le due articolazioni necessarie di un unico atto di senso, che non può dire alcunché se non mostrando qualcosa di indicibile – qualcosa che, come vedremo, non è altro che la dicibilità stessa dei fatti in generale”
(M. De Carolis, Una lettura del Tractatus di Wittgenstein, Cronopio 1999, pp. 28-29).
Mi auguro che tutti coloro i quali – Ratzinger compreso – pensano di regolare i conti con il pensiero filosofico schiacciandolo sull’alternativa: o la filosofia è aperta a ciò che è al di là della contingenza intramondana, oppure è chiusa all’esperienza dell’indicibile Altro (e se è chiusa è dittatura del relativismo) vogliano rifletterci un po’ su.
Già. Dunque… allora, che strada dobbiamo seguire? 🙂
Quella della forma logica. Che è già un bel casino di suo, senza tirare a mano né mistica né mastica.
Leo
tutti siniani qui eh? 🙂
Un adinolfiano (variante infantile del sinismo)
non c’è una certa affinità tra questa lettura wittgesteiniana e la fiosoflia di Levinas? Intendo dire per entrambi il senso proviene da Altrove. la totalità dei fatti presuppone Altri. Ciao
Nel mio saggio “Ontologia e letteratura”, ho indicato come mostrare e dire (pronome e nome) siano in realtà due determinazioni dell’avere, dal momento che dell’essere non abbiamo, nel linguaggio, che una coniugazione contaminata dall’idea di oggettiva presenza (stare, nei tempi composti) che rimanderebbe a una formula neocartesiana: loquor ergo sum.
Bernardo
Sei per caso Andrea Rossetti?
1. La concezione di una “sana regione dei fatti e della piena dicibilità” appartiene allo scientismo positivistico e neo-positivistico: con un rilievo di tipo sociologico-culturale, semplicistico sì, ma non tanto da non avere la furbizia diffusiva di cortocircuitarsi in laicismo ed irreligione; ma non talmente diffuso da essere addebitabile – come fa AP – ai bioetici cattolici.
2. Detto in una formula. La dicibilità – teorica ed in esercizio – è l’esposizione dell’indicibilità di ogni qualcosa. Non mi sembra che questa “filosofia negativa” possa far problema: né a papa Ratzinger (che tra l’altro è bavarese, non teutonico), né per i filosofi dell’essere, che sanno che l’essere di per sé è coimplicato nel “mistero”. Ognuno non può dire/mostrare alcunché se non intuendo (e accettando, celebrando implicandovisi) che in ogni qualcosa si vela/rivela, si dice/mostra (il “si” è soprattutto attivo) l’Essere che i filosofi dicono indicibile.
Intendiamoci, questo non è l’essere logicamente interpolabile col nulla, che in quanto logico è semplice constatazione di indicibilità.
luigipuddu