Archivi del giorno: giugno 22, 2005

Ipse dixit

Che poi Il Riformista significa Ciccio, e Ciccio ha detto che oltre alle dieci-quindici righe con i post non va. Sicché il post di prima gli era dovuto.

Esame di Stato

Che poi il post di prima era per dire che Il Riformista mi aveva proposto di scrivere uno dei temi dell’esame di Stato di quest’anno. Io avevo consiglio di dipartimento e ho dovuto declinare l’invito. Il dipartimento è finito alle 18.30: sono in studio. Ho letto la traccia. Si può fare. Scrivo dieci righe. Telefono al giornale. Già assegnato, già arrivato. Fa nulla. Ma siccome la cosa mi piace, eccomi qua. L’ho scritto lo stesso. (In fretta e furia, vogliate perdonarmi: non avevo sei ore a disposizione, e non mi sono portato nulla da cui copiare). (ecco le tracce: quella svolta è relativa all’ambito tecnico scientifico. Argomento: Castrofi naturali: la scienza dell’uomo di fronte all’imponderabile della natura. Il titolo metttecelo voi)

C’è un buco nella cultura contemporanea. Ma siccome i buchi sono fatti di nulla, non ce ne si accorge: finché non ci si finisce dentro. Questo buco è l’assenza di una filosofia della natura. Ci sono tante filosofie speciali: del linguaggio, della storia, della religione, della politica, dell’arte. Ma la filosofia della natura non c’è. Non c’è più. Eppure c’è stata, e anzi: la filosofia è nata proprio così, come filosofia della natura. I primi filosofi erano dei physiologoi: studiosi della natura, della physis. E la cosa è durata tanto a lungo, che ancora Isaac Newton intitolava la sua opera scientifica fondamentale così: Philosophiae naturalis principia. Come mai si sia prodotto questo buco è cosa non semplice a dirsi. Cosa invece ci sia al posto della filosofia della natura è presto detto: c’è la scienza della natura. Un tempo oggetto di investigazione filosofica (che vuol dire: di ricerca, ma anche di contemplazione) la natura è oggi appannaggio dell’investigazione scientifica. La sostituzione ha comportato uno mutamento fondamentale di interessi, e un mutamento non senza significato: se la domanda del filosofo è: che cos’è la natura?; la domanda dello scienziato (alleato con il tecnologo, tecnologo egli stesso) è invece: come si può intervenire su di essa? Scientia est potentia, diceva agli inizi della modernità Bacone – e oggi il grande scienziato R. Thom ripete: “comprendere il mondo, agire sul mondo: fuor di dubbio tali sono gli obiettivi della scienza”.
In corrispondenza del mutamento della domanda, è ovviamente mutato il concetto stesso di natura. Prima abbiamo lasciato intendere  che il termine latino (poi italiano) ‘natura’ traduca il termine greco ‘physis’, ma non è proprio così. Per noi, oggi, natura è, grosso modo e semplicemente, tutto ciò che non è uomo: il filo d’erba e la folgore, il gatto randagio e l’asteroide (ci sarebbe anche la natura umana, ma la mettiamo tra parentesi per un po’). Quando  Voodckoc e Davis parlano dell’atomo o della luce, della geologia e della metereologia, intendono proprio i fenomeni naturali, cioè: non umani. Quel che l’uomo studia nei laboratori, coi microscopi e coi telescopi. Ma per i greci non era così. Per i greci la natura era l’onniavvolgente, il periechon, l’orizzonte del tutto e questo tutto stesso. Qualcosa dell’antica concezione greca della physis vive ancora nella filosofia romantica della natura. Per esempio in Goethe: “Natura! Ne siamo circondati e avvolti […]. Non richiesta, e senza preavviso, essa ci afferra nel vortice della sua danza e ci trascina seco”: così recita un suo celebre frammento. Questa natura non è ciò che ci sta dinanzi, l’oggetto inerte della nostra prassi scientifica e tecnica, ma è ciò che “sempre costruisce e sempre distrugge”, è ciò che ci domina e ciò che ci “afferra”, quel che ci è essenzialmente “inaccessibile” pur essendo noi parti di essa. E’ l’elementale, è aria e terra e acqua e fuoco, come ripetevano i physiologoi, e come ancora ricorda Platone, nel Timeo.
A questo senso ‘trascendente’ della natura capita ancora di accedere quando grandi catastrofi (come il recente tsunami che ha sconvolto l’Oceano Indiano, causando centinaia di migliaia di morti) travolgono ogni impresa umana. Non c’è ovviamente di che rallegrarsene. Ma è bene forse che l’uomo non dimentichi che al fondo di ogni sua azione c’è una fondamentale passione, un patire che lo riconduce alle sue ‘mitiche’ radici: terrestri, naturali, mortali. “La Terra è la nostra dimora” ha scritto di recente E. Boncinelli, ma lo è in un senso ben diverso da quello a cui allude, quando afferma che lo spostamento dell’asse terrestre causato dal maremoto ci ha reso la Terra “un oggetto più tangibile e familiare”. Al contrario, la Terra è la nostra dimora perché è l’inquietante e il non familiare che noi abitiamo, l’estraneo in cui tuttavia abbiamo radici. Basta certo il buon senso (e Dio sa quanto ce ne vuole) per interrogarsi, anche di fronte a catastrofi naturali come quella del Sud-Est asiatico, su ciò che tocca all’uomo di fare ( dotarsi di sistemi di preavviso, non costruire in zone a rischio geologico, non sprecare risorse, ecc.); basta la morale per richiamare l’uomo al senso di responsabilità. Non basta però il buon senso e non basta la morale quando si tratta invece di pensare quel che si è dimenticato: che l’uomo è un pezzo di natura (e che la natura è un pezzo di umanità). Che non stiamo di fronte, dirimpetto alla natura, ma dentro. Che non esistiamo, senza insistere in essa.
Ma questo è più difficile da pensare. Per questo non bastano raccomandazioni morali. Non basta il senso di responsabilità. Ci vuole di più: ci vuole una metafisica.
Una filosofia della natura, per l’appunto.

Potnia

Ho sostenuto l’esame di maturità nel 1985. Fu l’anno dell’Heysel, i morti allo stadio nella finale di Coppa dei Campioni fra Juventus e Liverpool; il ministero pensò bene di assegnare una traccia sulla violenza. Mi dispiace non poter trovare la traccia da qualche parte, ma quel che ricordo è che non era una traccia sulla violenza negli stadi. Il mio compagno di banco, oggi giornalista del Corriere del Mezzogiorno, fece una cronaca dettagliatissima e puntuale dell’avvenimento (immagino, con predica finale). Quanto a me, nei giorni immediatamente successivi alla tragedia  avevo letto un articolo apparso sul Corriere a firma di Severino, sulla violenza, che allargava – diciamo così – un po’ il tiro: si trattava della violenza dell’Occidente. E io svolsi il tema così, parlando sì di violenza, ma di violenza e metafisica. So che il membro interno, la professoressa di greco (la più feroce professoressa che io abbia mai incontrato, il terrore del liceo, del consiglio di classe, del preside, di tutto: che Dio me la conservi) difese come una tigre il mio tema contro i commissari che sostenevano che io ero andato fuori traccia. Lo difese e la spuntò. All’orale, con strane smorfie sul viso, i commissari si complimentarono.

(Piccolo omaggio alla prof.: Potnia)