Archivi del mese: luglio 2005

Parto naturale

Al mare, in agosto, sarò qua (palinuro, saline: qualche scoglio e pochissimi bagnanti). Senza linea telefonica, fuori dalla blogosfera, con il proposito di non comprare mai o quasi mai il giornale, e di leggerlo solo a scrocco sulla spiaggia, con il programma di consumare 100 pagine al giorno, con il computer, con la moglie in vacanza, con i figli in vacanza, in buona salute, in buona compagnia, di buon animo. Ho fatto le provviste, ho fatto la valigia, ho fatto qualche telefonata.

Insomma, parto.

A cosa serve (può servire) un blog

A comprare qualche libro, almeno nel mio caso. Prima di partire (perché parto, ve l’ho detto, domani, e per un mese non posso postare dal posto in cui sto e se e come poi posterò proprio non so), ho acquistato alcuni dei libri di cui ho letto in rete. I seguenti:

Giulio Mozzi, Questo è il giardino

Gianni Biondillo, Per cosa si uccide

Luisito Bianchi, La messa dell’uomo disarmato

Valeria Parrella, Per grazia ricevuta 

Nicola Lagioa, Occidente per principianti

Richard A. Clarke, Contro tutti i nemici

Non ho comprato, perché indisponibili al momento in libreria (se ne parlerà a Natale, temo):

Franz Krauspenhaar, Le cose come stanno

Igino Domanin, Gli ultimi giorni di Lucio Battisti

Ho tentennato, e poi non acquistato:

Piersandro Pallavicini, Atomico Dandy

Giordano Meacci, Tutto quello che posso 

(Ora ditemi voi per quali blog andare in cerca di segnalazioni di filosofiche uscite)

Un potente pensiero per voi

Il capodivisione Tuzzi, più serio ed educato di me, voleva lasciarvi un pensiero, per queste calde vacanze agostane. Il pensiero ve l’ha lasciato, ma non il suo. Siccome se n’è parlato (Genna ed io, e pure qui), e il libro vale, ha pensato così di postare la scrematura della prima parte del libro di Agamben, La potenza del pensiero (in cui si tratta del linguaggio, dell’io, della voce, della cosa, e di una filosofia senza presupposti). Ce n’è abbastanza per pensarci su per tutto il mese di agosto. Gli interessati, ma interessati davvero, possono farmi richiesta delle note della seconda e terza parte. A settembre, quando ci sarà da decidere se e come tornare, potrei soddisfare la richiesta.

Parola di Adinolfi

(di Mario Adinolfi, che sta scrivendo l’enciclopedia del blog. Da Hegel a Bouvard e Pécuchet, il sogno enciclopedico l’han coltivato in molti)

L’unico vero blog figlio di seri studi filosofici. Allocato nella comunità di Splinder, è gestito da Massimo Adinolfi, che insegna filosofia all’università. Molto interessante una sua forma di classificazione dei blog più noti delle varie comunità italiane, assimilati a filosofi presocratici. Ovviamente il codice di lettura delle sue argomentazioni è sempre piuttosto complesso, ma almeno spesso (non ogni volta) ci risparmia le banalità. Giudizio: @@@. Consiglio: non (s)porgersi ex cathedra. 

Resposui: Non vorrei sporgermi, ma le categorie sono dialoghi platonici, non filosofi presocratici. Comunque grazie: accetto il consiglio. (Diciamo pure che scrivo un blog per quello).
 

Stupidità e svincoli

Oggi devo tenere la lezione inaugurale del corso di formazione finanziato dalla Regione Campania per Esperti del governo della mobilità. Tema (assegnatomi): il rispetto delle regole (il motivo della lezione: il regolamento interno della scuola va rispettato senza discussioni). Anche in considerazione del fatto che si tratta della Regione Campania (e del governo della mobilità), toccherò, a spanne, tre punti: le grandi tradizioni etiche occidentali; lo statuto della regola; la stupidità dei regolamenti. (Se avrò tempo, il nesso, stupidità regolamenti sarà infine illustrato anche letterariamente in compagnia di Bartleby e Josef K.).

(E ora scappo: una delle regole più inflessibili è la puntualità, e già vedo dal balcone l’inferno dello svincolo di Fratte)

Applausi

Sento Berlusconi a Radio Radicale (due minuti fa: spero di aver capito bene) raccontare di come, giunto dinanzi al notaio per definire il contratto di acquisti di terreni limitrofi alla sua proprietà in Sardegna, si sia visto chiedere dall’altra parte di indicare come importo complessivo della vendita solo un terzo del prezzo reale concordato. – Signora, si renda conto: sono il Presidente del Consiglio! -. Sospensione della seduta per un’ora. Poi la Signora (?) torna a sedersi: – Presidente, comprendiamo le difficoltà. Ma proprio non possiamo dichiarare più del 50% -.

Il racconto (assai divertente) finisce qua. Berlusconi non ha detto se i terreni poi li ha comprato e a quale prezzo. Ma non importa. Ecco: sto sentendo proprio adesso un bell’applauso scrosciante. Il raccontino ha invece strappato un applauso striminzito, ma così striminzito…

Riconoscimento

(Giulio Mozzi su Vibrisse. In replica (specie a quanto scritto da Giulio nei commenti), Davide L. Malesi su Licenziamento del poeta. Io, da Davide nei commenti, e qui, in lunga replica):
 
Premessa. Tu, Davide, scrivi: “prima di dire che ci sono molti ottimi libri bisogna pensarci sette volte”. Non escludere (non lo sai) che qualcuno abbia pensato tutte e sette le volte che dici.
Tu stai a quanto Giulio Mozzi ha scritto. Bene. Ora io leggo quanto tu scrivi e riporti. Giulio Mozzi ha scritto (nelle parole da te riportate): “se esistono ottime opere narrative”. “Se” significa una cosa come: “Posto che”. Il che vuol dire: non sto qui a discutere cosa sia ottimo in materia di opere narrative (benché se ne possa e debba ovviamente discutere, e benché pensi che esistano ottime opere narrative), ma è un fatto credo da tutti condiviso che esistono ottime opere narrative (e che vendono poco). Magari per me un libro è ottimo e per te non lo è. Ma rimane il fatto. Beh: tu metti in questione invece cosa significa ottimo in fatto di libri (di ‘opere narrative’). L’esempio del teorema proposto da Giulio muove proprio dal ‘posto che’. Posto che quel certo libri sia ottimo e dunque di indubbio valore, perché dovrebbe essere toccato dal fatto di esser letto da pochi? L’esempio del teorema, conosciuto da pochissimi ma non per questo di minor valore, non paragona l’opera narrativa a un teorema: bisogna prendere l’esempio per ciò di cui è esempio. Paragona invece due cose ottime che hanno pochi lettori (posto che anche per te, come mi scrivi in risposta, ci siano opere narrative ottime che hanno pochi lettori) – paragona, e si chiede perché in un caso il valore non è toccato dal fatto di essere apprezzato da pochi lettori, e nell’altro invece sì. Non è mica una domanda nuova. Ma è una domanda alla quale il fatto che teoremi e opere narrative siano cose diverse (ciò su cui ti soffermi) non dà alcuna risposta. O meglio: la dà, la deve dare, ma non dal lato da cui la prendi tu (tu la prendi dal lato: l’ottimo dell’uno è oggettivo, l’ottimo dell’altro è opinabile), proprio poiché abbiamo posto in premessa che il libro è ottimo (“se esistono ottime opere narrative”).
Poi spieghi a lungo che quello dei libri è un mercato. Già: è un fatto. E cosa dice questo fatto? Il punto è se questo fatto dice qualcosa: se cioè lo scrittore ne deve tenere conto e in che misura. E in che misura il valore letterario di un’opera narrativa sia toccato da questo fatto. (Lo scrittore, cioè qui, per definizione: uno che intenda produrre ottime opere narrative e fare letteratura). Tu sei un lettore di Platone, caro Davide: che te ne pare del ragionamento di Platone sul medico, il quale sta sul mercato (i clienti lo pagano), ma il cui telos non è guadagnare, ma guarire? (Oppure dell’esempio di Giulio nei commenti, sui biscotti che si vendono di più se fanno cric crac, ma che non son biscotti per il fatto di far cric crac?). Le lamentele di uno scrittore di ottime opere di narrativa che vendono poco non c’entrano nulla, mi pare, con quanto scrive Giulio. Poiché non si discute del diritto degli scrittori a lamentarsi, anzi. Si discute solo se e perché le basse vendite dimostrino o meno la crisi della letteratura (della narrativa, e della narrativa italiana in specie).
“Lo scrittore scrive per il lettore”, dici. Questo però non è un fatto. E non lo è non solo perché uno può scrivere per se stesso, morire senza dare alla luce una sola riga, e poi essere pubblicato post mortem (in filosofia: il caso impressionante di Andrea Emo). Non lo è anche perché, come tu stesso riconosci nei commenti, un’opera può avere il suo pubblico anche dopo cent’anni, e uno scrittore può ben scrivere con duecento anni di anticipo sul proprio tempo (in filosofia, Nietzsche diceva così di sé, anche se ha preso a vendere un po’ prima!). E se uno può scrivere per il lettore futuro, se la sua utilità può essere per dir così differita, come tu nei commenti convieni, come puoi più dire che Giulio Mozzi prende una “cantonata notevole” quando scrive che, nel caso di ottimi libri che vendono poco, il problema potrebbe essere dei lettori? (Questo poi non vuol dire, come tu scrivi nei commenti, biasimare i lettori, ma non biasimare la letteratura italiana per il solo fatto che non incontra i lettori. O meglio: la puoi biasimare per questo, ma non puoi dire in base a questo che è cattiva letteratura).
“Lo scrittore scrive per il lettore”, dici. Ma forse si tratta invece di questo, che lo scrittore scrive per essere letto. Non è la stessa cosa. E se scrive in solitudine, nell’anonimato, non è affatto perché scrive per sé, ma anche in questo caso per leggersi. (Qui ci sarebbe bisogno di un po’ di filosofia per capire cosa significa ciò, se qualcosa significa, ma tu pensi che la filosofia sia lo stadio puberale del sapere, e allora evito). In ogni caso, almeno questo è chiaro, che esser letto non significa: essere letto dagli italiani che vivono nel 2005. E Carla Benedetti aggiungerebbe (credo): non significa neppure essere letto da lettori disposti sul mercato così come il mercato è disposto. Io posso benissimo pensare, politicamente, che non c’è niente di meglio del mercato, ma (a parte il fatto che questo non significa che il mercato sia immutabile, nelle sue forme e nelle sue regole), da ciò non discende mica che lo scrittore il quale scrive per esser letto, debba scrivere per il mercato, o tenendo conto del mercato, o del fatto che i suoi libri stanno sul mercato.
Questa è, in logica, una quaternio terminorum: tu fai del lettore (dell’esser letti) e del mercato un’unica cosa. L’essere letto (e il leggersi) è una funzione universale della pratica della scrittura; il mercato editoriale no. Poiché credo tu sappia che io non sono maoista, non prendere quest’affermazione per il verso sbagliato. Qui non si discute (almeno: io qui non discuto) se ci siano sistemi migliori o peggiori, e neppure si discute del diritto a lamentarsi di scrittori o critici letterari. Si discute se l’attribuzione di valore letterario alle opere narrative debba essere di pertinenza del mercato editoriale. Io credo di no. (Ancora un’altra questione è se poi sia compito di qualcuno, e di chi, e in che modo, far avvicinare il valore editoriale e il valore di mercato). (Cosa ho scritto! Il valore d’uso e il valore di scambio!).
C’è infine la faccenda dei posteri (oppure dall’altra parte della porta carraia, della tradizione). Qui me la cavo con una battuta: i posteri e la tradizione non ti esimono dalla tua responsabilità, nel varco sopra il quale c’è scritto Augenblick.
 
(Questo post non usa la vecchia categoria hegeliana del riconoscimento, benché sia l’unica cosa di cui parla. Non lo fa, perché ne parla in maniera radicalmente insufficiente. Ma questo è un blog, cari i miei lettori).

La scena del mondo

Dall’editoriale di Galli della Loggia di ieri 27 luglio (Guerra santa. Europa inerte):
“L’esito della Seconda guerra mondiale perfezionato dalla fine del comunismo ha fatto uscire l’Europa dalla scena del mondo…”.
Fermi! Prima di leggere il resto, rispondete alla domanda: voi ci volete stare sulla scena del mondo? Vi augurate o no che l’Europa stia sulla scena del mondo? Sì? Beh, ecco la scena:
[dalla scena del mondo]… “dal luogo dove non si usa fare gli scioperi, i dibattiti, le elezioni, ma dove invece si accampano le disperazioni e i deliri delle moltitudini, i disegni degli imperi, le speranze immense delle fedi. Dove si preparano i grandi rivolgimenti di fronte ai quali tutto lascia credere che preferiremo continuare a lungo a chiudere gli occhi”.
Ora domando di nuovo: voi ci volete stare dove si accampano le disperazioni e i deliri delle multitudini, i disegni degli imperi, le speranze immense delle fedi, e non ci sono scioperi né elezioni?
Ma poi io mi chiedo: sulla scena del mondo l’Europa (l’Europa moderna, e di modernità non europee ce ne sono pochine) non c’è forse stata per sbaraccare disperazioni e deliri delle multitudini (e conquistare scioperi ed elezioni)? Se c’è l’Europa, non ci sono disperazioni e deliri, e ci sono scioperi ed elezioni. (Il che poi non è mica vero, poiché le disperazioni e i deliri del ‘900 appartengono al cuore della storia europea. Forse bisognerebbe dire meglio: se vive una certa idea regolativa dell’Europa moderna, allora non ci sono disperazioni e deliri). Galli della Loggia vuole di nuovo l’Europa sulla scena del mondo? Ma questo significa tuffarsi nelle disperazioni e nei deliri e rinunciare a quell’idea, oppure farvi uscire altre porzioni di mondo, e rinvigorire quell’idea? Se la scena del mondo è quella che dice LLa Loggia, l’Europa, a me pare, ha sempre voluto starci per cambiarla e per tirarsene fuori, e tirare il mondo fuori. Non per affogarci dentro.

Post iniziatico (a beneficio degli utenti di liberoblog)

Volete sapere, in una parola, dove NON sta oggi la filosofia teoretica italiana? Non sta con gli analitici? Non sta con gli ermeneutici? Non sta con nessuno dei due. Sapete cosa pensano (con ragioni diverse) i Severino, i Cacciari, i Sini, i Vitiello, gli Agamben, e pure le De Monticelli? Che tradizione analitica contemporanea e tradizione ermeneutica contemporanea vanno a braccetto e si danno la mano. Sono complementari. La filosofia teoretica italiana – con ragioni molto diverse, che discenda da Gentile, da Heidegger, da Husserl o da Benjamin – sta da un’altra parte.

(Vattimo no: Vattimo sta da quella parte là).

Il domandone

Dopo la scempiaggine dell’estate 2005, ecco a voi (rullo di tamburi)  il domandone dell’estate 2005 (direttamente ispirato dalla scempiaggine, peraltro):
cosa voi vi aspettate dalla filosofia? (in subordine, oppure affianco: e cosa c’è da aspettarsi dalla filosofia?).
La domanda può esser tradotta in una domanda circa i compiti della filosofia (o dei filosofi): vi va bene questa traduzione? Dei compiti di uno scrittore si discute da mane a sera: ne nascono poetiche, manifesti, estetiche. Possono entusiasmare o inorridire o lasciare indifferenti, ma certo nessuno si meraviglia che uno scrittore abbia una sua poetica (oppure: una sua visione del mondo; oppure: un suo mondo interiore; oppure: una sua verità etica ed estetica) Ma assegniamo pure un compito alla filosofia: non si troverà subito chi abbasserà perciò stesso la filosofia al rango di un’opinione (autorevole, ma pur sempre opinione)? E che ce ne facciamo dell’opinione di un filosofo?
E se invece non di un’opinione si tratta, ma di sapere, di scienza, come potremo ancora assegnare un compito alla filosofia? Ne assegnate di compiti, alla scienza? (In quanto scienza, dico). E cosa ci sarebbe allora da aspettarsi? Forse solo che il filosofo faccia il suo mestiere, come lo scienziato il suo. Niente compiti, dunque.
Ma insomma: volete la botte piena e la moglie ubriaca? Volete che la filosofia sia investita di un compito, abbia un senso o dia senso, e poi volete pure che sia scienza, e siete pronti a spararle addosso perché è solo opinione? Oppure no? Oppure volete solo e vi basta l’opinione autorevole (ma poi: perché autorevole?).
 
(Stavo per aggiungere: rivolgo questa domanda non ai filosofi, ma a tutti gli altri, ma è aggiunta superflua. Altro domandone, infatti: dove stanno i filosofi in rete? Com’è che non riescono a stare in rete? Somiglierebbero troppo agli scrittori?)

(Invece aggiungo: vi spiace riprendere il domandone e rilanciarlo? Oppure anche il domandone è superfluo? Siete maledettamente disincantati? Eppure ne fate tante, oh lettori, di catene in giro per i blog).

(Per una strana perversione dei splinder, mi risultano inaccessibili i commenti. Metto provvisoriamente qui la mia ultima replica al commento numero 18 di Filter):

Mi sfugge come tu possa ritenere che le domandi nuove dei filosofi (sulle quali non discuto, perché se le prendessi alla lettera potrei mostrare o che non sono nuove, o che sono tutto meno che interessanti, messe così. Ma qui devo concederti tutto e non abusare) che quelle domande abbiano ricevuto risposta dalla scienza! Se potessi abusare ti chiederei, già che ci sono, pure le risposte scientifiche a quelle domande!
Filter, a me sta bene che tu parli di filosofia e scienza senza soluzione di continuità, però poi dici a ragione che le risposte scientifiche sono razionali e controllabili, ed è chiaro che lì non c’è più filosofia. E’ chiaro pure che finora non hai ancora riconosciuto alla filosofia la capacità di rispondere – che non sarebbe un male di per sé, se non fosse che invece alla scienza riconosci la capacità di rispondere alle STESSE  domande (anche se io continuo a stupirmene). Oppure: riconosci alla scienza la capacità di mettere le domande della filosofia in forma tale che ricevono risposta. E questa è la minorità di cui io ho parlato.
(Non mi basta la buona volontà che metti per dire che no, non ci pensi nemmeno).

Candidatura

L’articolo scritto da Filippo La Porta sulle pagine culturali del Corriere della Sera (ripreso da Lipperatura) si candida autorevolmente a scempiaggine filosofica massima dell’estate 2005. Ed è un peccato, perché la scempiaggine era evitabilissima. La Porta voleva arrivare a formulare questo auspicabilissimo auspicio:
“mi piacerebbe che la laicità venisse rappresentata proprio dal romanzo”. Per arrivarci ha creduto però di dover dire qualche scempiaggine sulla filosofia. Le seguenti:
1. oggi “un filosofo non può che ripetere all’infinito lo stesso ritornello”. Me li trovi, La Porta, due filosofi due che ripetono lo stesso ritornello, oggi! Luogo comune per luogo comune, i filosofi son come gli orologi: non se ne trovan due che segnino la stessa ora (o dicano la stessa cosa). (Però, se La Porta vuol spremersi un po’ le meningi, consideri che quando un Heidegger afferma che i filosofi pensano sempre il medesimo, cioè l’essenziale, dice l’esatto opposto di quel che dice lui);
2. “[lo stesso ritornello, cioè che] la modernità è pluralista, fallibilista e tollerante”. Ora, prendiamo la grande filosofia del ‘900 (Husserl, Wittgenstein, Heidegger): questa è gente che ha ripetuto il ritornello che fischietta La Porta? E anche se ci affianchiamo, che so, Foucault e Habermas, Quine e Davidson, Deleuze e Chomsky, ne viene fuori solo quella cosuccia debole e esangue che dice La Porta? Crede davvero La Porta che l’ultima parola della filosofia sia quella che gli fa dire lui? Crede davvero che tutta la penetrazione concettuale di cui la filosofia è capace si risolva nella canzonetta, nel ritornello che canticchia lui?
3. “[lo stesso ritornello] del tutto privo di drammaticità umana”. O perbacco, ma di che parla La Porta? Lui non ha orecchie filosofiche, evidentemente, e non riesce dunque a scaldarsi il cuore. Ma la biografia di (metteteci tutte le differenze individuali, ovviamente) Nietzsche o dello stesso Heidegger, di Simone Weil o di Edith Stein, di Giovanni Gentile o di Enzo Paci, di Emanuel Lévinas o di Paul Ricoeur son proprio da buttar via? E La Porta trova aride le loro opere, prive di drammaticità? Cavolo!: le ha lette? La Porta si nutre forse di sola letteratura secondaria, in materie filosofiche? (Oppure la sua osservazione riguarda in genere la filosofia tutta – non solo quella di oggi – le astratte astrazioni concettuali, che in scena non stanno come i personaggi nei romanzi di cappa e spada?)
4. “Né [quel ritornello] ci aiuta a capire una distinzione decisiva: il relativismo significa non equivalenza di tutti i valori, ma rinuncia a imporre ad altri i propri valori”.
Ma Filippo La Porta pensa davvero a quel che scrive? Ci pensa su per bene, prima di scriverlo? Quanti secoli saranno che la filosofia sa una cosa del genere? Forse la filosofia non lo aiuta, ma diamine!, se Filippo La Porta non si aiuta un po’ da solo! Per rimanere al ‘900, la cosa che i filosofi non aiutano a capire si trova a chiare lettere, a chiarissime lettere, per dirne due, in Merleau Ponty e in Wittgenstein. Basta leggerli.
5. E’ capitato mai di notare, a Filippo La Porta, che i filosofi i romanzieri li leggono, specie nel ‘900? Cervantes Flaubert Dostoevskij Melville Kafka Proust Musil Joyce Mann i filosofi se li leggono, e li sanno anche far fruttare filosoficamente: vogliamo fare anche il contrario, per favore?
 

Un muricciolo

Poiché non sarò io a mettermi a parlare di filosofia mentre gli accessi schizzano alle stelle (come raccomanda Platone, è meglio mettersi al riparo presso un muricciolo finché non smette di infuriare la tempesta), avendo trovato il riparo lo segnalo: sul mondo, il male e il cristianesimo.

Una blogstar

E così è ufficiale: sono una blogstar. Una blogstar! Alle 17 e 30 di ieri il contatore si è arrestato: 815 accessi. Heracleum invece proseguiva la sua corsa: superati i 2000 accessi verso le 22 e 30, sono andato a dormire. Stamane ho preparato il latte ai bimbi, scambiato due parole con mia moglie (solo due: sono una blogstar, io) e dato un’occhiata agli accessi. Quattrocentottanta al momento in cui scrivo, con una stima di 2606 accessi giornalieri che Shinystat non potrà mai contare.
Sono una blogstar. L’Italia ha finalmente trovato il suo vate filosofico, la sua guida spirituale, il suo maestro di saggezza. In quest’ora decisiva per i destini della nazione, voglio rivolgere un pensiero grato ai linker che in questo primo anno e mezzo di vita del blog con i loro piccoli, risibili numeri di contatti quotidiani hanno comunque consentito ad azioneparallela di esistere, e oggi di spiccare trionfante il volo nell’empireo della blogosfera.
Sono una blogstar. Le mura del blog vacillano sotto l’immane onda d’urto dei lettori provenienti da Liberoblog, affamati del verbo, assetati di sapere: figli di Poros e Penia, gettano via i loro vecchi abiti e si stracciano le vesti pur di nutrire la loro anima al cibo di verità del blog. Divorano avidamente pagine su pagine, e crescono in sapienza e verità.
Tutto-questo-grazie-a-due-post-due-sulla-scandalosa-ornella-muti-che-porca-miseria-attirano-come-il-miele-le-mosche.che saranno-pure-divertenti-ma-basta! Basta!
Ad agosto questo blog chiude; l’orda dei contatti sarà andata via, lasciando qualche maceria. Francamente non so ancora se e come riaprirà.
(Chiudo il post mentre gli accessi sono arrivati a cinquecentonovantaquattro, e la stima a duemilaseicentonovantatre. Non ho parole).

Tutto fa brodo

Un laico non laicista ha scritto un bell’articolo, abbastanza stile "il riformista". (Su una cosa però sono in disaccordo: Popper è veramente un ‘brodo insipido’, in filosofia).

La cosa ed il suo concetto: la narrativa italiana/2

Ma poi: in che genere di crisi è la narrativa italiana? – domanda ancora Giulio Mozzi, in Vibrisse. Sembra a me che essere in crisi significhi: non essere all’altezza del proprio concetto (“La natura di ciò che è, è di essere, nel proprio essere, il proprio concetto”, Hegel, Fenomenologia dello Spirito – cioè, più precisamente, fenomenologia delle crisi: e di come si risolvono, se si risolvono). Sicché – pare – bisognerebbe sapere bene cosa ci si mette dentro il concetto di narrativa, per stabilire poi se la narrativa sia in crisi. Ma allora tornano a fioccare le domande di Giulio (e per esempio: cosa costituisce la narrativa? Libri belli? Libri veri? Libri che si vendono) Libri che si leggono? Libri che generano altri libri? Libri che provocano cose?).
Ora però: e se la crisi della narrativa fosse anzitutto non che non è all’altezza del proprio concetto, ma che proprio ha perduto l’altezza del concetto? Un concetto di cosa sia non ce l’ha, e perciò è in crisi?
E neppure qui mi fermerei, perché uno potrebbe sospettare che è nella natura della narrativa moderna elevare a proprio concetto il non avere bene in chiaro cosa sia, quale concetto debba cioè adeguare.
E uno potrebbe sospettare ancora che non è neppure detto che non l’abbia e basta, ma che non ce l’ha alle spalle, e perciò non ci sono oggi generazioni che se la portano sulle spalle e la tengono alta. Ce l’ha invece in avanti e cioè se ne accorge dopo (“Ma per ciò che solo il resultato si affaccia come l’assoluto fondamento, il progresso di questo conoscere non è già qualcosa di provvisorio, né un avanzamento problematico ed ipotetico; anzi, dev’essere determinato dalla natura della cosa e dal contenuto stesso” – Hegel, Scienza della logica).
(E così, siamo ‘sistemati’).