Premessa. Tu, Davide, scrivi: “prima di dire che ci sono molti ottimi libri bisogna pensarci sette volte”. Non escludere (non lo sai) che qualcuno abbia pensato tutte e sette le volte che dici.
Tu stai a quanto Giulio Mozzi ha scritto. Bene. Ora io leggo quanto tu scrivi e riporti. Giulio Mozzi ha scritto (nelle parole da te riportate): “se esistono ottime opere narrative”. “Se” significa una cosa come: “Posto che”. Il che vuol dire: non sto qui a discutere cosa sia ottimo in materia di opere narrative (benché se ne possa e debba ovviamente discutere, e benché pensi che esistano ottime opere narrative), ma è un fatto credo da tutti condiviso che esistono ottime opere narrative (e che vendono poco). Magari per me un libro è ottimo e per te non lo è. Ma rimane il fatto. Beh: tu metti in questione invece cosa significa ottimo in fatto di libri (di ‘opere narrative’). L’esempio del teorema proposto da Giulio muove proprio dal ‘posto che’. Posto che quel certo libri sia ottimo e dunque di indubbio valore, perché dovrebbe essere toccato dal fatto di esser letto da pochi? L’esempio del teorema, conosciuto da pochissimi ma non per questo di minor valore, non paragona l’opera narrativa a un teorema: bisogna prendere l’esempio per ciò di cui è esempio. Paragona invece due cose ottime che hanno pochi lettori (posto che anche per te, come mi scrivi in risposta, ci siano opere narrative ottime che hanno pochi lettori) – paragona, e si chiede perché in un caso il valore non è toccato dal fatto di essere apprezzato da pochi lettori, e nell’altro invece sì. Non è mica una domanda nuova. Ma è una domanda alla quale il fatto che teoremi e opere narrative siano cose diverse (ciò su cui ti soffermi) non dà alcuna risposta. O meglio: la dà, la deve dare, ma non dal lato da cui la prendi tu (tu la prendi dal lato: l’ottimo dell’uno è oggettivo, l’ottimo dell’altro è opinabile), proprio poiché abbiamo posto in premessa che il libro è ottimo (“se esistono ottime opere narrative”).
Poi spieghi a lungo che quello dei libri è un mercato. Già: è un fatto. E cosa dice questo fatto? Il punto è se questo fatto dice qualcosa: se cioè lo scrittore ne deve tenere conto e in che misura. E in che misura il valore letterario di un’opera narrativa sia toccato da questo fatto. (Lo scrittore, cioè qui, per definizione: uno che intenda produrre ottime opere narrative e fare letteratura). Tu sei un lettore di Platone, caro Davide: che te ne pare del ragionamento di Platone sul medico, il quale sta sul mercato (i clienti lo pagano), ma il cui telos non è guadagnare, ma guarire? (Oppure dell’esempio di Giulio nei commenti, sui biscotti che si vendono di più se fanno cric crac, ma che non son biscotti per il fatto di far cric crac?). Le lamentele di uno scrittore di ottime opere di narrativa che vendono poco non c’entrano nulla, mi pare, con quanto scrive Giulio. Poiché non si discute del diritto degli scrittori a lamentarsi, anzi. Si discute solo se e perché le basse vendite dimostrino o meno la crisi della letteratura (della narrativa, e della narrativa italiana in specie).
“Lo scrittore scrive per il lettore”, dici. Questo però non è un fatto. E non lo è non solo perché uno può scrivere per se stesso, morire senza dare alla luce una sola riga, e poi essere pubblicato post mortem (in filosofia: il caso impressionante di Andrea Emo). Non lo è anche perché, come tu stesso riconosci nei commenti, un’opera può avere il suo pubblico anche dopo cent’anni, e uno scrittore può ben scrivere con duecento anni di anticipo sul proprio tempo (in filosofia, Nietzsche diceva così di sé, anche se ha preso a vendere un po’ prima!). E se uno può scrivere per il lettore futuro, se la sua utilità può essere per dir così differita, come tu nei commenti convieni, come puoi più dire che Giulio Mozzi prende una “cantonata notevole” quando scrive che, nel caso di ottimi libri che vendono poco, il problema potrebbe essere dei lettori? (Questo poi non vuol dire, come tu scrivi nei commenti, biasimare i lettori, ma non biasimare la letteratura italiana per il solo fatto che non incontra i lettori. O meglio: la puoi biasimare per questo, ma non puoi dire in base a questo che è cattiva letteratura).
“Lo scrittore scrive per il lettore”, dici. Ma forse si tratta invece di questo, che lo scrittore scrive per essere letto. Non è la stessa cosa. E se scrive in solitudine, nell’anonimato, non è affatto perché scrive per sé, ma anche in questo caso per leggersi. (Qui ci sarebbe bisogno di un po’ di filosofia per capire cosa significa ciò, se qualcosa significa, ma tu pensi che la filosofia sia lo stadio puberale del sapere, e allora evito). In ogni caso, almeno questo è chiaro, che esser letto non significa: essere letto dagli italiani che vivono nel 2005. E Carla Benedetti aggiungerebbe (credo): non significa neppure essere letto da lettori disposti sul mercato così come il mercato è disposto. Io posso benissimo pensare, politicamente, che non c’è niente di meglio del mercato, ma (a parte il fatto che questo non significa che il mercato sia immutabile, nelle sue forme e nelle sue regole), da ciò non discende mica che lo scrittore il quale scrive per esser letto, debba scrivere per il mercato, o tenendo conto del mercato, o del fatto che i suoi libri stanno sul mercato.
Questa è, in logica, una quaternio terminorum: tu fai del lettore (dell’esser letti) e del mercato un’unica cosa. L’essere letto (e il leggersi) è una funzione universale della pratica della scrittura; il mercato editoriale no. Poiché credo tu sappia che io non sono maoista, non prendere quest’affermazione per il verso sbagliato. Qui non si discute (almeno: io qui non discuto) se ci siano sistemi migliori o peggiori, e neppure si discute del diritto a lamentarsi di scrittori o critici letterari. Si discute se l’attribuzione di valore letterario alle opere narrative debba essere di pertinenza del mercato editoriale. Io credo di no. (Ancora un’altra questione è se poi sia compito di qualcuno, e di chi, e in che modo, far avvicinare il valore editoriale e il valore di mercato). (Cosa ho scritto! Il valore d’uso e il valore di scambio!).
C’è infine la faccenda dei posteri (oppure dall’altra parte della porta carraia, della tradizione). Qui me la cavo con una battuta: i posteri e la tradizione non ti esimono dalla tua responsabilità, nel varco sopra il quale c’è scritto Augenblick.
(Questo post non usa la vecchia categoria hegeliana del riconoscimento, benché sia l’unica cosa di cui parla. Non lo fa, perché ne parla in maniera radicalmente insufficiente. Ma questo è un blog, cari i miei lettori).