Stilos, Garufi, Wallace, Musil. E io

Finalmente sono riuscito a trovare Stilos. Qualcosa ho letto mentre Caldarola Cabras Benvenuto parlavano di socialismi e riformismi. In particolare, mi ha colpito l’articolo (molto intelligente, devo dire) di Sergio Garufi su Foster Wallace (Ecco il santo patrono degli eternamente lucidi), definito un querdenker, “un pensatore laterale che guarda la realtà da punto di vista inusuali” (che è anche un buon modo di immaginare l’esercizio filosofico). Wallace, secondo Garufi, è tutto idee e intelligenza, ma (ecco che arriva il ma): “chi l’ha detto che un romanzo dev’essere pieno di idee?”. “In Infinite Jest non c’è pagina, che dico: non c’è frase, non c’è parola, non c’è personaggio o situazione che non siano intrisi di intelligenza”. Il fatto è che però “non vi è traccia di bêtise, di volgarità, di viscere”.
Per essere scrittori ci vogliono ossessioni, non idee: “scrivere è un regolamento di conti con la vita e con i propri demoni, e quelli di Wallace sono libri esorcizzati”. Ce n’è ovviamente anche per la lingua, “algida ed esangue”, ma ormai Garufi ha detto tutto quel che è da dire. Manca solo il paragone importante. Ed eccolo: Musil. Garufi cita Benjamin: “Il Musil, tienilo pure […]. Mi sono congedato da questo autore quando ho capito che è più intelligente di quanto sarebbe necessario”.
 
Garufi ha le sue ragioni. Ma io:
di norma leggo romanzi solo quando sospetto che siano profuse dosi massicce di intelligenza;
penso che di intelligenza non ce n’è mai abbastanza, figuriamoci se si possa mai essere più intelligenti del necessario;
amo Musil (questo va da sé);
penso che è segno di intelligenza sospettare che l’intelligenza non sia soltanto cerebrale (algida, esangue, fredda);
penso che per esempio l’intelligenza uccide (il fatto che uccida raffinatamente non priva l’intelligenza del suo carattere a volte letale), e che c’è pure l’amor intellectualis (il fatto che sia intellettuale non significa che questo amore non possa essere furioso);
penso che le idee non sono solo trovate ed escogitazioni ed arguzie, ma anche illuminazioni e rivelazioni, e non sono solo profonde , ma anche larghe, spaziose;
(penso).
 
(Però di Wallace ho letto solo le pagine su David Lynch. Dovrò rimediare).
 

7 risposte a “Stilos, Garufi, Wallace, Musil. E io

  1. suggerirei caldamente Oblio, allora

  2. Condivido le tue obiezioni, soprattutto questa: “penso che di intelligenza non c’è ne mai abbastanza, figuriamoci se si possa mai essere più intelligenti del necessario”. Mi pare che Garufi consideri l’intelligenza sempre manieristica, pura razionalità che soffoca la vita e le sue pulsioni. Non condivido, e sono d’accordo con quanto scrivi delle idee “larghe, spaziose”.

    Saluti,
    her.

  3. il fatto è che le persone sciocche necessiariamente non riconoscono l’intelligenza, e che comunque nessuno può comprendere un’intelligenza superiore alla sua, sicchè quando senti qualcuno definire un’altra persona “troppo intelligente”, di norma stai ascoltando uno sciocco.

  4. utente anonimo

    Innanzitutto grazie della citazione e dell’apprezzamento. Preciso alcune cose, che mi sembra siano sfuggite a molti, sicuramente per colpa mia, per il mio stile un po’ ellittico e allusivo. Il pezzo, almeno nelle intenzioni, voleva essere provocatorio, tant’è che – apparentemente – esprimo delle riserve su uno scrittore di cui in passato ho detto molto bene (un articolo su Caffè Europa del 2001), e lo critico per il fatto di essere troppo intelligente, ciò che normalmente è inteso come un complimento. Difatti lo paragono a Musil, unanimente considerato uno dei pilastri della letteratura del 900.
    Insomma, mi divertivo a parlar male della Gioconda, per il semplice motivo di ribadire la legittimità di
    criticare perfino i capolavori. I capolavori sono tirannici, pretendono un atteggiamento di prona devozione, ci trasformano in dei punti esclamativi; oppure suscitano reazioni violente, come i pazzi che prendono a martellate la pietà di Michelangelo o sfregiano la Venere allo specchio di Velasquez.
    Non ci sono vie di mezzo, in pratica; e io mi sono appoggiato a Musil per dire una semplice banalità: e cioè che da un romanzo dobbiamo aspettarci di più, che non la mera esposizione di idee geniali. Ricordo un saggio di Cioran su Sartre, che lo definiva spregiativamente “impresario d’idee”, e sempre il rumeno stigmatizzava il fenomeno moderno per eccellenza, quello de “l’artista intelligente”; come il poeta ispirato dalla sua poetica o più interessato alle teorie sulla poesia che non ai versi; o l’artista concettuale, continuamente “roso” dai problemi.
    E infine mi permettevo di sfottere le folte schiere dei suoi adepti, che pensano che apprezzarlo significhi “capirlo”; quindi appartenere a quell’eletta schiera di illuminati che hanno un q.i. superiore agli altri. Tutto questo per dire che si può stimarlo e comprenderlo senza astenersi dall’esprimere delle ragionate riserve
    e senza pretendere il tesserino d’iscrizione al cub dei migliori.
    Sapevo che tutto ciò mi avrebbe attirato degli strali, ma era mia intenzione animare un dibattito su questa questione; e il tuo intervento qui, più quello di altri (per es. Elio Paoloni, che mi ha detto che ne parlerà nella sua rubrica della rivista Fernandel), mi fanno pensare di aver visto giusto.
    Un commento negativo al mio articolo mi è venuto da una illustre francesista, grande estimatrice di Wallace, che mi ha risposto in modo piccato citando una frase sprezzante di un critico americano, in cui si dice in sostanza che Wallace “ha il diritto di scrivere per i pochi capaci di comprenderlo”; e a me è sembrata una conferma involontaria del mio discorso. Aggiungo infine un aspetto curioso: parlando con amici scrittori di indiscussa intelligenza (Scarpa, per es.), e pure con anonimi ma brillanti estimatori di Wallace (ad alcuni glielo avevo consigliato io), ho notato che tutti – e ripeto tutti -, pur dichiarandosene entusiasti, ammettono a fatica di non aver terminato quel “capolavoro assoluto” che è “Infinite Jest” (1100 pagg.) perché “Un po’ noioso”. Ecco, di fronte al paradosso di una sala cinematografica che trasmette un film di tre ore di un maestro acclamato, in cui tutti o quasi tutti gli spettatori escono dopo soli 20 min. dall’inizio della proiezione e, intervistati, affermano all’unisono che quel film è straordinario, io rivendico almeno il diritto di sottolineare che il fatto che sia noioso non è un dettaglio trascurabile.
    sergio garufi

  5. (Se vale qualcosa, estendo l’apprezzamento non retorico anche a questo tuo commento).
    Io sono stato sollecitato sia dal paragone a Musil, che non so giudicare se sia uno dei pilastri (dovrei conoscere meglio molte pieghe della letteratura del ‘900), ma considero un grandissimo, e il cui “Uomo” non considero solo un’esposizione di idee intelligenti, sia dalla questione generale: come ci sta l’intelligenza in un romanzo. E come ci sta l’intelligenza nell’arte.
    Ho difeso l’idea che l’intelligenza non guasti un’opera, e non può mai essere troppa, poiché mi era sembrato che tu te la prendessi con una ‘certa’ idea di intelligenza (all’ingrosso, un’idea astrattamente intellettualistica di intelligenza – se non è troppo ridondante). Ma questo non significa che la questione che poni non sia una questione. (Aggiungo solo, spero si comprenda, che a me poi una simile questione interessa non già al livello della poetica di questo o quell’autore, ma al livello ontologico: di cosa sia un’opera, cioè).
    Ed è una gran bella questione anche se si abbia il diritto di scrivere per pochi. Io direi: certo che sì (non è peraltro l’unico dirito che si abbia, e comunque non è un dovere), a condizione però che non si scriva per pochi per il gusto di scrivere per pochi (anche qui, sono sbrigativo, e non pretendo di cavarmela con una battuta). Ma resta vero anche che merita gli sfottò chi pensa che apprezzare sia capire; ovviamente, meritano qualche sfottò anche quelli che apprezzano fingendo di capire e non capiscono, e quelli che pensano che si possa apprezzare senza capire).
    Infine, gli spettatori escono: tu non dici che il film è ‘per questo’ brutto, mi pare, ma che resta una cosa da tenere in conto. Vedi se si può lasciare la cosa indecisa e metterla così: c’è un dislivello, una distonia fra film e spettatori, e dobbiamo vedere se la responsabilità sia solo degli spettatori o anche dell’autore. (Se poi il film è cecoslovacco, e gli spettatori arabi, essi usciranno perché non avranno capito; messi in condizione di capire, potranno ancora trovare il film brutto, ma per il fatto che escono ancora non sappiamo se il film è brutto o no).
    (Si dà anche:
    il caso – ma se ne danno molti, in realtà – che il valore del film consiste in una sintonia che debba essere conquistata attraverso una distonia, che cioè l’attraverso sia essenziale, il che non vuol dire che l’autore possa disinteressarsene e lasciar ogni responabilità allo spettatore, che se non capisce è peggio per lui.
    (Si dà infine il caso limite, à la Debord, che il film è fatto apposta per allontanare gli spettatori. Forse hai ragione se lamenti che spesso si frequenta questo limite con troppa leggerezza).
    Spero di avere scritto, in fretta e di getto, cose intellegibili.
    Ciao

  6. magari semplicemente infinite jest non è il suo libro migliore, oppure uno non scrive sempre per scrivere il libro migliore. credo che wallace abbia un rapporto genuinamente “sperimentale” con la propria scrittura (nel senso buono e non programmatico del termine). credo di aver letto da qualche parte che dopo la stesura di Oblio (che tra parentesi non è affatto noioso) ammetteva candidamente di aver finalmente raggiunto un livello che lui stesso considerava accettabile di scrittura. mi pare in buon approccio, e il risultato almeno a me, semplice lettore, pare estremamente soddisfacente.
    (questa cosa del noioso riemerge anche in altri casi. ad esempio molti, sempre tra gli estimatori e sempre a mezza bocca, ritengono noiose certe parti de Gli esordi, di Moresco, pur ritenendo la “scrittura” di cui quel libro è fatto e la “poetica” che vi traspare a dir poco fenomenale. In quel caso si tratta credo di riconoscere che non tutti i romanzi richiedono lo stesso rapporto, e non da tutti è legittimo attendersi le stesse cose)

  7. Penso che la scrittura sia in fin dei conti descrizione, in un saggio come in un romanzo. Quello che si legge deve evocare immagini nella mente, e una volta lette queste immagini si può in primo luogo capire di cosa vuole parlarci il libro, e poi anche dire se c’è intelligenza o meno. Da questo punto di vista, Wallace mi sembra un descrittore fenomenale, in Infinite Jest, nei saggi (in particolare quello su Lynch e quello sul tennis), e anche in Oblio. Però IJ e i saggi li ho adorati, O di meno. Ma questo a posteriori.

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