Sapere e non sapere

Grazie al cielo nuvoloso e alla gazzarra leghista al Parlamento europeo – che ha tenuto occupata la rassegna stampa di radio radicale per oltre metà del tempo – venendo a Cassino ho potuto leggere una cinquantina di pagine di Wallace. Poiché si tratta della sua intelligenza, ho cominciato da Tutto e di più. Storia compatta dell’infinito. Non dò giudizi sul QI: ci mancherebbe. Dico che in queste pagine qualcosa mi irrita e qualcosa mi piace.  In particolare, mi è piaciuta la seguente osservazione: "L’aspetto più insidioso della maggior parte dei corsi di matematica è che alla fine ci ritroviamo a non sapere nemmeno di non sapere" (p. 47). Sono i filosofi che tradizionalmente, vantandosi di sapere di non sapere, imputano al senso comune (e alla scienza, che ne sarebbe un prolungamento) di non sapere di non sapere. A me piacerebbe però oggi distribuire diversamente le parti: concederei volentieri alla scienza di sapere, e di sapere di non sapere (concederei cioè il sapere, e la riflessione sul sapere), lascerei al senso comune il non sapere di non sapere, e terrei per la filosofia un certo ‘non sapere di sapere’.

(Se però ora mi chiedete ma quale sapere la filosofia non sa di sapere, mi buttate addosso quel regresso infinito vizioso divergente di cui Wallace parla a proposito di Zenone, che devo ancora vedere come Wallace tratta, figuratevi se vi dico come lo tratto io)

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