Sul Magazine del Corriere è apparso questo pezz a firma di Giulio Giorello (dal titolo: L’unico filosofo serio è quello superstar, mentre il titolo più indicato era Ohibò!). Tra parentesi quadre i miei commenti meno uno)
“Ohibò! L’Aristotelian Society, «club dei filosofi di Oxford e Cambridge e olimpo del pensiero di lingua inglese», invita uno stimatissimo collega milanese (per altro mio grande amico), i cui «scritti e interventi» sono noti agli specialisti del settore, mentre un tale onore «difficilmente sarebbe potuto toccare, per esempio, a Emanuele Severino» – pensatore evidentemente troppo esposto ai «riflettori» della mondanità! Così Diego Marconi apre un suo articolo apparso qualche settimana fa sul Domenicale del Sole 24 ore dedicato al quesito: «Perché spesso gli studiosi più seri sono poco conosciuti alle masse?» [ma perché dovrebbero essere molto conosciuti alle masse? Ed è un interrogativo serio, questo?], ove si lascia intendere che quelli più noti siano ovviamente meno seri.
Se ritorno alla provocazione di Marconi (filosofo certo serissimo) non è perché Severino abbia bisogno di qualche difesa [però certo che gli attacchi non gli mancano], ma perché questa è una buona occasione per riflettere sulla degenerazione di una certa filosofia, che dietro l’apparente rigorismo cela la sua incapacità di affrontare i problemi della realtà effettuale [“i problemi della” qui è di troppo, ma siamo d’accordo]: si tratta, appunto, della cosiddetta «filosofia analitica». Marconi ricorda che un estremo specialismo «caratterizza l’insieme della cultura scientifica del Novecento, dalla linguistica alla biologia, dalle scienze sociali alla matematica» [e chi ricorda a Marconi che tra i compiti della filosofia c’è anche quello di domandarsi se la filosofia debba prendere a modello la scienza; e che cos’è, questo di Marconi, un argomento storico-ermeneutico, oppure un argomento scientifico-analitico?]. Ma come mai i grandi della scienza, da Albert Einstein a James Watson, da Noam Chomsky a René Thom, si sono rivelati capaci di interagire con qualsiasi tipo di pubblico? [e che ne so? Ma è importante?] Forse perché il loro tecnicismo era davvero dettato dalla complessità delle questioni affrontate, e non dall’esigenza di legittimare uno stile o una scuola di pensiero [ah, vedi: non si trattava solo della grandezza degli scienziati e del loro rapporto con il pubblico!].
Come ha dichiarato a Maria Latella Vittorio Foa, «le parole sono un impegno», e il lavoro su di esse ha un valore civile, oltre che intellettuale [io direi che il cerchio di ciò che qui Giorello chiama intellettuale è più piccolo del cerchio di ciò che la filosofia chiama pensiero, e che l’impegno può essere anche, oltre che intellettuale, teologico, oppure artistico, o, horribile dictu, ontologico]. Lo aveva capito un filosofo come Karl Popper [Giorello non so, io avrei inserito un ‘persino’], che paragonava gli «analitici» a quelle persone che passano le ore a pulirsi gli occhiali, dimenticandosi di usarli per guardare qualcosa [che se gli occhiali fossero ‘la cosa del pensiero’, non vi sarebbe nulla di male: il fatto è che la cosa gli resta oltre gli occhiali e la punta del naso, e allora ha ragione Sir Karl].
Sir Karl non era un filosofo da club, e l’unica Società che gli sarebbe piaciuto frequentare era quella degli uomini liberi [questa non c’entra nulla, ma a Giorello piaceva così]”.