Archivi del giorno: luglio 20, 2005

Fort/Da

Cosa facevo dai 13 ai 15 anni? Non è una domanda fondamentale, ma poiché, per ridere di ffdes, bisogna che me lo domandi, me lo domando. A 13 anni facevo (subivo) il terremoto: quello dell’Irpinia. Quando ho cominciato a insegnare a scuola, e ho incontrato gente nata dopo il 1980, ho realizzato per la prima volta il senso esatto di: ‘appartenere a un’altra epoca’ (mondo, generazione). A 15 anni invece facevo il Mundial, quello di Spagna. Quando ho cominciato a insegnare a scuola, e ho incontrato gente nata dopo il 1982, ho realizzato per la prima volta il senso esatto di: ‘appartenere a un’altra epoca’ (mondo, generazione).

Rimane il da qui…a lì. Ebbene, giocavo a scacchi, cominciavo a studiare filosofia (spizzichi e bocconi di Nietzsche e Platone). E rimandavo drammaticamente ogni genere di educazione sentimentale agli anni che sarebbero venuti (ora non mi chiedete quanti).

(Caro ffdes, negli scout ci sono entrato a nove anni e uscito a nove anni e tre mesi: non facevano per me).

E' ufficiale

Qui c’è scritto che manca l’ufficializzazione, ma quella ve la dò io: dopo Maria Grazia Cucinotta, sarà Ornella Muti, in una calda serata di luglio (venerdì 22), a stupirsi di quali e quante folle attiri, in una piccola cittadina di provincia, la filosofica favella del blogger Azioneparallela. (Dopo gli ineguagliabili silenzi di Adriano Celentano, riuscirò a far colpo con la mia facondia?)

Di qua, di là: l'in quanto e la cosa

Massimo Morelli legge il libro Idoli della conoscenza di Carlo Sini e rimane deluso. Trova che, se è un libro divulgativo, manca lo scopo. Ma il libro non è un libro divulgativo. Dopo le scaramucce iniziali in cui viene posto il problema della conoscenza, s’imbatte nella parte centrale del libro dedicata alla psicogenesi dell’alfabeto di Alfred Kallir, e rimane profondamente deluso da questo "equivalente alfabetico della numerologia". Ha cioè la stessa reazione che ebbero le vespe del Sole 24 ore alle prime uscite dell’Enciclopedia filosofica di Sini, in cui c’è proprio un po’ di numerologia (a leggere la cosa molto superficialmente, come se Sini fosse una fattucchiera). Poi arriva alla parte conclusiva del libro, che gli riesce troppo tecnica e artificiosa, ma di cui coglie così la conclusione: "Mi pare di capire che Sini rifiuta di accettare che esista la realtà".

Ora, mi pare di capire che per Morelli il mondo sta lì la mente sta qui e il problema della conoscenza sia di spiegare come la mente che sta qui (dove?) conosca il mondo che sta lì (dove?). Ma se una cosa c’è che il filosofo si rifiuta di accettare, è questa facile e del tutto irriflessa (ma ben misteriosa) distribuzione delle parti. Il filosofo legge: rifiuta di accettare che esista la realtà e pensa: "oh bella! E questa dove l’ho detta mai? Io mi domando come si costituisce il senso di realtà del reale, che è tutt’altra cosa dal dubitare che esista questo piuttosto che quello, la luna, la terra o il sole". Morelli si scandalizza (e una cosa di cui ci si scandalizza sempre) che Sini pensi che "non possiamo dire che ai tempi di Tolomeo la Terra girava attorno al Sole". (Correggo il suo esempio per maggiore fedeltà con le pagine di Sini: non possiamo dirlo per i tempi di Giosué: fermati, o sole!). Ma questo ‘non poter dire’ è solo una riflessione sul senso di quel dire e non equivale affatto a pensare che la Terra non girava affatto attorno al Sole ai tempi di Tolomeo. Perché, infatti si vuol dire che la Terra girava? Per andare da Giosué e dirgli: "mio caro, ti sbagli"?. Ma Giosué non c’è. Dunque è per la Terra stessa, è perché si teme che a non dirlo, si possa della Terra affermare qualunque cosa. Si tratta di questo timore. Ma Sini non pensa affatto questo, non pensa affatto che hanno ragione insieme Giosué, i tolemaici e i copernicani. Non pensa affatto che in astronomia ci sia altro da dire che quello che dice Copernico, quanto a cosa gira intorno a cosa. Sini pensa solo che il senso di realtà del reale, che la scienza astronomica interpreta come oggettività, non sia l’unico possibile (il che non significa affatto che dunque tutto è possibile e si può dire quel che si vuole), e soprattutto non spiega, ma va esso stesso spiegato (compreso). E questo è l’affare della filosofia.

D’altra parte cosa sarebbero le cose in sé, che il filosofo dà scandalo negando? Le cose che rimangono tal quali anche se nessuno le conosce? E che ce ne importa di come sono le cose quando nessuno le conosce? Non muovo la classica obiezione idealistica: e che ne sai delle cose quando non le conosci, ma riprendo rozzamente l’argomento fenomenologico: la cosa che conosco ha, in quanto cosa conosciuta, il senso di ciò che rimane la stessa anche se non la conosco. Ma ha questo senso – che è il senso della conoscenza – proprio in quanto la conosco. Nessuno sottrae o aggiunge oggettività alla realtà, domandandosi come abbiamo la cosa della conoscenza, quale sia il senso della conoscenza, eccetera eccetera. Mi domando perché invece ci si tenga tanto a togliere l’in quanto (e a togliere alla filosofia il compito di mostrare l’in quantoi)

(Infine, a Morelli dico che nella prima parte del libro, prima di stufarsi con quel grandioso e serissimo scherzo platonico dell’alfabeto, avrebbe potuto più utilmente soffermarsi sul capitoletto dedicato alla genealogia della conoscenza).

(Il capodivisione Tuzzi pubblicò tempo fa note alquanto criptiche al libro).