C'è quel che c'è (per strada).

A proposito di questa discussione di Massimo Morelli del libro di Sini, Idoli della conoscenza, ho risposto sommariamente così. Ora Massimo ci torna su con un post. Ecco qua le mie altrettanto sommarie considerazioni.

Tu sollevi quattro punti: segno, realtà, divulgazione, pratica:
Sul segno e la cosa, non è affatto, come tu scrivi, un caso di uovo o di gallina, di chi venga prima, perché non si tratta di stabilire chi venga prima. In generale, in Sini la questione circa la natura del segno mira a mettere in discussione non se ci sia prima la cosa o prima il segno (con il sottinteso che se viene prima il segno addio cose), ma se ci siano cose intatte e intonse da una parte e segni delle cose che sulle cose piovono dall’altra. (Sini scrivi certo che le cose non ci sono, ma quest’affermazione non è una risposta alla domanda se esiste il tavolo che io vedo e sul quale sto scrivendo);
sulla realtà, b.georg ha già ben detto che non si tratta di un dubbio circa l’esistenza della realtà, e dunque nemmeno di un dubbio su questo dubbio e via dubitando. Proprio per nulla. Sini non appartiene, se è per quello, alla tradizione cartesiana, ma a quella fenomenologica (che per la verità non è che dei dubbi cartesiani si sia sbarazzata con grandissima facilità). La questione concerne non l’esistenza del reale, ma il suo senso (il suo modo di darsi nei segni che la significano). La domanda non è se qualcosa esiste, ma cosa significa esistere per essa (donde preleviamo il senso dell’esistere di ciò che esiste, come ‘l’abbiamo’, ecc. ecc.). A chi ha la radicata convinzione che il tavolo esiste, che io lo significhi o no, posso offrire la seguente rassicurazione: anch’io ho questa radicata convinzione, ma non di questo si tratta, poiché il tavolo che esiste che io lo significhi o no non è affatto, per questo, extra significationem;
sulla divulgazione, ho detto che non si tratta, nel caso del libro di Sini ma dei libri di filosofia in genere, di libri di divulgazione, ma non certo per mettere i libri di Sini e la filosofia tutta ‘al di sopra’ dei libri di divulgazione. La filosofia è sempre e necessariamente anche la propria introduzione/divulgazione. (Si noti che qui si aggira la questione – filosofica quant’altre mai – del cominciamento). Credo che ben difficilmente Sini – e qualunque filosofo degno di questo nome – riconoscerebbe questa distinzione (se non provvisoriamente e per ragioni spicciole). Si impara la filosofia – vecchio adagio – filosofando. Ha ragione b.georg, nei commenti: a Sini introducono i libri di Sini (e meglio ancora l’esercizio stesso del filosofare). La cosa può apparire oscura e pretestuosa, ma così non è. Ancora una volta (e in fretta): la chiarezza (nel senso più ordinario dell’espressione) suppone che da un lato ci sia la cosa da dire, e dall’altro i modi di dirlo, quello chiaro e quello meno chiaro. Temo che in filosofia (e cioè: secondo verità) le cose non stiano proprio così. Con b.georg dissento solo sul fatto che occorra conoscere Peirce o Husserl per intendere Sini. Rigorosamente parlando, non occorrono. La filosofia passa attraverso la sua storia, ma ogni volta la riscrive daccapo. (Sarà per questo, rispondo a un commentatore, che non riesce a staccarsene);
sulla pratica secondo Sini, potrei metterti qui una definizione (ho i libri a disposizione), ma solo a patto di esser certi che tu la intenda come una prima approssimazione. Qui Sini, che lo sappia o no, è molto vicino al secondo Wittgenstein. Più che una definizione, fornisce esempi. Una pratica è, per esempio, scrivere, oppure leggere: come vedi, niente di misterioso o che richieda, per intendersi, definizioni. Una pratica è ovviamente la filosofia stessa (il filosofare). Ogni pratica è però un intreccio sterminato di abiti d’azione, al cui fondo non ci si arriva mai. Perciò credo di avere scritto che è una certa frequentazione di mondo, il modo in cui il mondo viene incontrato. (Se metto qui: il mondo di un’umanità alfabetizzata è diverso dal mondo di un’umanità non alfabetizzata la cosa viene intesa subito come relativistica e scettica, e perciò lascio perdere). Ma di nuovo, non è che ci sia il mondo di là, e di qui i suoi praticanti (nota per la questione circa la realtà: questo non significa che si risponde ‘no’ alla domanda se il mondo esista). No, il mondo ‘accade’ nel modo in cui viene praticato. Questo può ben riuscire oscuro. Ma il punto non è affatto che non ho dato una buona definizione di pratica e mi son messo a parlare metaforicamente. La definizione è sempre un punto d’avvio del tutto provvisorio, e se è o no una buona definizione dipende molto dalle circostanze, al punto dove si vuole arrivare, dagli aggiustamenti che occorrono lungo il cammino. La definizione, in filosofia, non se ne sta mai ferma perché poi il discorso possa svolgersi sicuro e garantito. La filosofia è un modo di praticare il sapere ad alto tasso di circolarità. può riuscire perciò viziosa, sterile e improduttiva, come no? Può finire dalle parti dell’uovo o della gallina. E’ un rischio, che, ahimè, va corso, e dal quale non ci si può mettere previamente al riparo.

(Queste osservazioni non bastano affatto a scuotere il senso della realtà che ciascuno di noi ha. Né intendono farlo. Non è che un filosofo passeggia per strada diversamente dall’uomo della strada. Ma, se è per questo, neppure Copernico risce a toglierci la percezione tolemaica della terra (né intendeva farlo). E nessuno di noi pensa che Copernico ha scritto delle sciocchezze sulla base delle certezze del senso comune. Se la filosofia domanda addirittura come c’è quel che c’è, ci si può meravigliare che prenda perciò una strada diversa dall’uomo della strada?

29 risposte a “C'è quel che c'è (per strada).

  1. Solo un commento sulla questione della ‘pratica’. Inutile cercare nei libri di Sini definizioni di ‘pratica’ o di ‘pratiche’. Per comprenderne il significato non c’è che frequentarlo (leggere Sini) e praticarlo. Per due motivi. Lo dico anzitutto sulla base della mia personale esperienza: anche io inizialmente mi son chiesto che significasse ‘pratica’, poi mi sono accorto di comprenderlo man mano in base all’uso che Sini ne faceva. In secondo luogo, per motivi filosofici: cercare una definizione di ‘pratica’ o fissarsi su una definizione di ‘pratica’ porterebbe infine a lasciar pensare o credere che per Sini esistano le pratiche “in sè” (mentre sono solo un espediente – un’ “inganno” come Sini stesso scrive – per l’esercizio che egli intende fare e farti fare). Non c’è nulla in Sini che si possa “fissare” in un significato, in una definizione, o si finirebbe con l’ipostatizzare i significati che egli usa, finendo per farne degli idoli (idoli della conoscenza, appunto). Termini come ‘pratiche’, ‘soglia’, ecc. potete anche buttarli (come, per altro, Sini invita a fare). Ciò che “rimane” di Sini e che deve rimanere (secondo Sini) è l'”esercizio” compiuto, l’abito appreso, e la possibilità di metterlo in atto, di praticarlo (esercizio che lui chiama “etica della scrittura”). Se non s’intende questo e ci si fissa sui significati e sulle definizioni, si fallisce, a mio parere, la comprensione dellafilosofia di Sini (ma vale anche per Vitiello, Hegel, Heidegger, ecc. -cioè, per tutta la Filosofia con la F maiuscola)

  2. P.S.: non so se poi la pratica filosofica di Sini sia così rivoluzionaria come si sostiene qui: http://enciclopedia.splinder.com; ma certamente è di un rigore invidiabile. (scusate l’invadenza).

  3. Ahi. Il problema è proprio quello. Pensare che noi (o la filosofia) non abbiamo bisogno di cose extra significationem.

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  4. Filter, se ne abbiamo bisogno, il bisogno è ciò che le significa (in termini puramente formali, che non pretendo siano esaustivi del senso della cosa: come ‘ciò di cui abbiamo bisogno’).

  5. Grazie per l’interessante commento. Vedrò di ponderarlo e (se tempo e voglia lo permetteranno) approfondire con qualche altra lettura.

    Dovrebbero farti professore 😉

  6. Qualcosa prima o poi mi faranno

  7. Allora, l’errore è credere che non si possa distinguere fra le cose e il nostro significarle. Che siamo chiusi come monadi dentro l’orizzonte del discorso.

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  8. noi fallacemente si pensava che il “discorso” (ma l’autore che discutiamo direbbe le pratiche in generale, infinite ma determinatamente prese, presumo ricordandosi un po’ il suo peirce pur tra mille e una differenze) fosse il nostro modo di essere aperti, e non chiusi, di “avere cose” di volta in volta, e che non è chiaro come possa esservene altro. Così che chiedersi che significhino fuori dalla significazione, o come averle fuori dall’averle, im-mediatamente, si direbbe nel “mistico”, o come uscire da una “chiusura” di cui non si ha invero alcuna nozione né dato, sarebbe la classica domanda impossibile o addirittura futile, ossia che non si avvede addirittura di esistere solo in quanto poggia su e presuppone un commercio che non vede, e a tale commercio dovrebbe più proficuamente indirizzarsi. Poste le cose stesse, ecco apparecchiata la nostalgia dell’assoluto, o della vita piena e sensata, e persino la brama dell’oggettivo metodico e limitato, a seconda della corrente -e il resto sarebbe relativismo, o labirinto, o gabbia (si fa una disamina spannometrica, of course).
    A questo punto il nostro autore si pone il problema, di conseguenza, della pratica che pone le cose stesse e della sua sensatezza (obbligata, dato che la domanda che ne chiede conto è di nuovo quella stessa pratica), nonché della sua dimensione genealogica (che è il suo modo di evitare le secche del relativismo debole sperando di sfuggire l’hegel già da tempo aleggiante) che, presumo, sostituisce all’inizio nelle cose l’infinita derivazione nelle non-cose – spannometrico, ancora.
    Come Massimo evidenziava altrove, se ho capito, qui è tutto il punto di critica, ovviamente.

  9. Tento di spiegarmi. Prendete questa domanda: “è possibile concepire le cose come cose al di fuori del discorso?”.
    Se la risposta è sì, allora concepirle solo all’interno del discorso è una chiusura, una limitazione reale.
    Se la risposta è no, allora tutto è apertura alle cose. Ma proprio tutto. La critica alla scienza come cieca empiria diventa infondata, in quanto la scienza come qualunque altro discorso non può che concepire le cose all’interno del discorso. E quindi è un discorso dotato di senso. Tutti i discorsi sono dotati di senso. E la filosofia non ha più nulla da dire, se non rivelare all’uomo della strada, allo scienziato, o agli altri ingenui, che non conoscono le cose come credono di conoscerle. Senza che peraltro ciò abbia alcuna influenza su ciò che debbono fare per conoscerle.
    In questo senso dicevo che la filosofia ha bisogno di cose extra significationem, se non vuole essere irrilevante.

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    P.S. Massimo richiamava la tradizione cartesiana. Infatti, Cartesio nelle Meditazioni non fa altro che cercare disperatamente di gettare un ponte fra noi e il mondo dell’extra significationem.
    P.S.S. Comunque, so già che mi direte che la domanda è mal posta.

  10. Sull’irrilevanza della filosofia: mentre tu, caro Filter, inserivi il tuo commento, quaranta utenti, come un sol uomo, si fiondavano su questo blog perchè Libero ha ripreso i due post su ornella muti, con tanto di foto

  11. (ora però rispondo).
    Premesso che ho preso il tuo termine ‘discorso’ in senso amplissimo, come sinonimo di ‘pratica’ o giù di lì, direi questo: ogni discorso ha senso, ma questo non significa che ogni discorso ha ogni senso. Dire che le cose stiano dentro le pratiche non significa dire che la pratica ne fa quel che vuole, insomma.
    Se poi vuoi far distinzioni tra discorsi, e dire questo è sensato questo no, lo puoi fare benissimo e del tutto legittimamente: entro la pratica (entro il discorso) della comparazione delle pratiche o dei discorsi, e secondo le regole o i parametri che sono propri di quella pratica. Non vedo il problema.
    La tesi di Sini non è mica che la scienza non ha senso: la scienza ha il senso che ha. Se mai, quale senso abbia (cioè: a quali presupposti è soggetta per funzionare come tale), non è poi cosa che riguardi necessariamente la scienza o che la debba preoccupare.

  12. Ok, però io mi chiedevo: C’è un senso che corrisponde al prendere le cose come esistenti fuori dalle pratiche (dal discorso, ecc.)? Se sì, io mi accontento.

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  13. Certo che c’è: l’hai appena fatto!

  14. Benissimo. La prendo come una risposta “sì” alla domanda precedente e sono a posto. Grazie.

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  15. E fai bene e fai male allo stesso tempo.

  16. “C’è un senso che corrisponde al prendere le cose come esistenti fuori dalle pratiche (dal discorso, ecc.)? Se sì, io mi accontento”

    chiedi, se ho inteso, se c’è un “senso” delle cose (anche questo amplissimamente inteso) che trascenda ogni pratica cioè ogni relazione mediata con le cose. credo si vada in campo teologico, no? è quello il posto di un tale senso. troppo in là per me 🙂

    senza considerare che per “prenderle come esistenti” fuori dalle pratiche occorre appunto “prenderle”: e con che cosa, se non con una qualche pratica? L’unica possibilità è che ci siano “mani senza mani” con cui prenderle, mani assolute (Che poi è, parafrasiamo, “l’occhio della mente” di platonica memoria. Si torna a sini, che si chiede come l’occhio della mente genealogicamente produca “il visibile dalla mente”, che dunque non gli preesiste, e poi si chiede come fa a chiederselo…)

    il problema è apparentemente profondo e labirintico: in realtà – dico una minchiata per sdrammatizzare – è un po’ come pensare di entrare in una stanza per vedere come sono le cose quando non ci siamo noi, facendosi prendere dalla disperazione di non poter mai cogliere “le cose” perché arriviamo sempre tardi. un problema tanto irresolubile quanto, questo sì, irrilevante.

    (sul fatto che tutte le pratiche siano uguali, ergo che tutto ciò sia inutile, credo che Massimo abbia già dato la versione sinianamente ortodossa 🙂 in sostanza, le pratiche cui il buon sini pensa non sono per nulla un agitarsi a caso, un mettere a casaccio assieme cose e sensi così che tutto fa brodo – immagine che di nuovo non si avvede di presupporre il problema che dovrebbe affrontare – dato che cose e sensi concrescono assieme e “funzionano” le une sugli altri, cioè funzionano in vari modi, ma di certo non arbitrariamente – il problema dell’arbitrio e della contingenza si situa infatti non a caso qui)

  17. No, continuo a non spiegarmi bene. Col prendere le cose come esistenti fuori dal discorso intendo il vecchio, caro, semplice prenderle come esistenti indipendentemente dal mio prenderle. Il naturalismo. Il dire la cosità delle cose in sé come proprietà della cose invece che come proprietà della pratica con con cui le pratico. Il prendere la cosa che è sì un mio prendere, ma prenderla come qualcosa che mi si impone, che ha una forza oppositiva come, per dire, una chiave mentre riga la portiera della mia auto.
    Ciò che mi basta è che dire delle cose questa cosità, e vivere serenamente dentro questo dire, sia una pratica sensata (col suo senso). Perché, se è sensata, Sini non ha più diritto di dirmi (come so che direbbe, dall’alto della sua pratica di filosofo) “nessuna CHIAVE sta RIGANDO la TUA AUTO”. O meglio, Sini avrebbe ragione, ma ce l’avrei anch’io a prenderlo a pugni perché mi sta rigando la portiera.
    Detto in altro modo: accettato che pratiche diverse possano stare dentro sensi diversi, e che il senso naturalistico è uno dei tanti, nessuno può dichiarare (o lasciare intendere) che il suo è un modo più puro di guardare le cose. Che è invece ciò che Sini, e prima di lui tutti i fenomenologi, hanno sempre fatto.

    Filter

  18. Provo a cimentarmi col tuo ultimo post, caro Filter (senza pensare di essere risolutivo: come vedi la discussione potrebbe procedere all’infinito). Inizierei col dire che per Sini non ci sono oggetti o cose fuori dalle pratiche (l’unica roba che sta fuori dalle pratiche è l’Evento – l’Evento della pratica – ma accantonerei l’argomento perchè con l’Evento andiamo sul teoretico spinto e in questa conversazione non è necessario). Tu chiedi, riguardo alle cose, se è possibile “prenderle come esistenti indipendentemente dal mio prenderle”. Ciò però significherebbe: prenderle (…) facendo finta che non le sto prendendo (!). E per di più attribuendo quello che prendo alla cosità della cosa in sé come sua proprietà. Ora, io ti vedo sempre di profilo, o di fronte, o da dietro, ma non mi sognerei mai, vedendoti di profilo, di pensare che tu di “per te” (a prescindere dal mio guardarti) fossi sempre di profilo, fossi soltanto un profilo. Sarebbe una grave scorrettezza (filosofica, almeno). Il fatto è che le cose le prendo sempre in un certo modo (meglio: “mi si danno” e sempre “in un certo modo”: per certi profili o – diceva Husserl – adombramenti). E non si capisce perchè dovrei poi pensare che la cosa che vedo io “in un certo modo” sia la cosa com’è in sè a prescindere dal mio vederla (sarebbe una bella presunzione, come dire che tu, “in te”, sei solo un proifilo perchè io, in questo momento, ti vedo solo di profilo). Il fenomenologo dice solo quello che vede, di cui fa esperienza, si attiene cioè all’esperienza (il resto è metafisica o ideologia). Perciò, se il fenomenologo vedesse che gli stai rigando l’auto ti darebbe una saccagnata di botte (proprio perchè ti “vede” mentre la righi). D’altronde, se non vedi nessuno che ti riga l’auto non si capisce perchè dovresti pestare qualcuno.

  19. P.S: Sini non avrebbe perciò alcun diritto di dirti “nessuna CHIAVE sta RIGANDO la TUA AUTO”, perchè tu lo vedi mentre te la riga. E tanto basta per riempirlo di botte.

  20. “Il prendere la cosa che è sì un mio prendere, ma prenderla come qualcosa che mi si impone”

    uhm
    ma perché pensi che sini non sarebbe d’accordo? tu poni qui due lati (un mio prendere-qualcosa che mi si impone): cercare di tenere entrambi i lati è appunto il discorso di sini, credo. o sbaglio? boh 🙂

  21. Che la cosa s’impone lo dice bene anche sini,dicendo: noi siamo sempre soggetti a ciò che entro le pratiche si rivela, siamo cioè sempre soggiogati dall’oggetto, da ciò che si rivela (entro una determinata pratica). Lo scopo dell’etica della scrittura di sini è quello di liberarci da questa soggezione (beh, detta così fa ridere – manco fosse il Che…) (la cosa è poi problematica, perchèci si libera dalle altre pratiche solo assoggettandosi a un’altra pratica, che è la pratica etica della scrittura, appunto – cioè non si è mai veramente liberi dalle pratiche…) (beh, altrimenti niente più vita nè esperienza!)

  22. Ma la volete smettere o no di discutere di queste scemenze mentre tutta la blogosfera si riversa qui a leggere di ornella muti?

  23. ci stiamo dando un tono, massimo, sai mai che passi anche l’ornella, assieme agli altri

  24. Caro Husserl: il problema del vedere un profilo e del non concludere che non ci sia altro oltre al profilo, in realtà è il grande punto di forza del naturalismo. Se dici che il profilo è la proprietà di una cosa, non è (particolarmente) problematico aggiungerle le altre proprietà che scopri quando la guardi di fronte, di dietro, dall’alto, dal basso. Lo sguardo fenomenologico, invece, non ha risorse teoretiche per collegare i singoli fenomeni; la continuità dell’esperienza, per il fenomenologo è una scommessa; come dici tu stesso alla fine, puoi dare le botte a Sini solo se lo vedi con la chiave in mano che riga la portiera. Se solo lo vedi un attimo dopo, non hai mezzi fenomenologici per dire che è lui il colpevole. E anzi, adesso che ci penso, persino se lo vedi mentra riga, dopo non puoi picchiarlo lo stesso: perché dopo che ha smesso già non è più Sini-che-riga-la-macchina.
    Caro B.Georg: secondo me Sini non intende salvare i due lati. E’ il tipo di idealista che non dice che le cose non ci sono, ma che pensa tu sia un deficiente se gli chiedi se ci sono. E comunque: per lui qualunque asserzione empirica (anche “the pen is on the table”) è davvero in ultima analisi falsa. Massimo mi correggerà se sbaglio.
    Caro Massimo: hai ragione. Fra l’altro, l’Ornella ha ancora due cose in sé mica da ridere.

    Filter

  25. filter, mi sa che abbiamo letto due sini diversi. il tuo era di profilo 🙂

  26. Macché. Ce l’avevo proprio di fronte, che diceva “il cane non sogna” e “Dante Alighieri non ha scritto la Divina Commedia”.

    Filter

  27. a me ha detto: l’auto non esiste
    (mentre sardonico faceva agire la chiave sulla fiancata e nella mia caverna si materializzava l’immagine di un cucchiaino piegato)
    😉

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