Io però Caffarra me lo leggo un po’ alla volta. Voglio dire: è una relazione bella lunga, la sua. E piena di dottrina. Ci finisco via Filaretum. Houellebecq (l’ho proprio finito, il libro – vedi sotto) toglie ogni consistenza all’idea coscienzialistica di libertà, e allora io mi leggo Filaretum, e di lì m’imbatto nel liberabitur di Caffarra (che si trova integralmente qui: non per caso è tra i miei link). In sintesi, ai primi due punti (libertà come liberazione dal non essere; libertà come liberazione dall’indifferenza verso la realtà):
Anzitutto, la riflessione di Caffarra sulla libertà come liberazione fonda teologicamente (e cioè, sul punto: non filosoficamente – e sulla base delle discutibilissima e impugnabilissima testimonianza dell’io) la sporgenza dell’uomo rispetto alla natura; pensa tale sporgenza come indipendenza (che sembra essere la ragione formale della libertà), ma pensa poi la relazione a Dio (che fonda questa indipendenza) come dipendenza (come ubbidienza). Questo è un bel garbuglio (non l’ha mica inventato Caffarra, peraltro). Ma comunque, che io risponda a Dio di me stesso – è la formula che sceglie Caffarra – vuol dire poi che Dio chiede, o domanda, o persino esige.
Il mio Dio non chiede, non domanda, non esige (è un po’ irresponsabile, il mio Dio).
Al secondo punto, Caffarra si acconcia al solito sofisma: negare l’assoluto significa mettere tutto il relativo sullo stesso piano. Ed è un sofisma anche ritenere (come ritiene Caffarra) che negare che vi sia un ambito assolutamente e incondizionatamente indisponibile alla scelta umana equivalga ad affermare che ogni ambito è assolutamente e nella stessa maniera disponibile alla scelta umana.
(Ma il secondo punto è pieno zeppo di indebite forzature. Caffarra se la prende con un concetto formalistico di libertà, e va bene, ma questo non significa che il contenuto delle nostre scelte debba essere definito, limitato e salvaguardato dallo Stato o dalla Chiesa).
P.S (queste riflessioni ammucchiate hanno sempre un P.S.): che sia chiaro: un sacco di filosofia, e di quella buona, si ritroverebbe nei termini di Caffarra. Ma a me quei termini paiono largamente insufficienti, e non da oggi. (8Però mi paiono insufficienti pure i prodotti filosofici sforniti dall’era del materialismo, per dirla con Houellebecq).
“Il mio Dio non chiede, non domanda, non esige”.
Più che un Dio, direi un buon dirimpettaio.
Ben ritrovato, caro Massimo.
Bernardo
Più che un dirimpettaio, un BUON Dio
Un buon diavolo, suvvia. Magari un po’ troppo taciturno.
Beato lei, caro Massimo, che è in grado di definire cosa sia un “buon Dio”. In questo non è poi troppo dissimile da Caffarra (come, d’altra parte, è ben evidente).
Inoltre, negare l’assoluto non significa mettere tutto il relativo sullo stesso piano, bensì affermare che relativa è anche la negazione dell’assoluto. Resterebbe infatti da verificare (e ciò è impossibile) quale relativo disponibile è in grado di fondare propriamente una simile decisione.
Infine non credo che Caffarra ritenga “che negare che vi sia un ambito assolutamente e incondizionatamente indisponibile alla scelta umana equivalga ad affermare che ogni ambito è assolutamente e nella stessa maniera disponibile alla scelta umana”, bensì che in assenza di un ambito assolutamente e incondizionatamente indisponibile alla scelta umana, quella differente disponibilità non possa essere definita che mediante parametri a loro volta relativamente dati.
Mi perdoni, caro Massimo, ma ho trascorso le vacanze deliziandomi con le forme modulari e i teoremi di Godel. 😉
Bernardo
Figurarsi se non la perdono. Mentre Lei si deliziava, io leggevo le ferocissime critiche di Deleuze all’analogia, un modo di salvare capra e cavoli, e me ne venivo convincendo…
Io poi non ho bisogno di sapere cos’è un buon Dio per sapere che non c’è predicato morale che non sia umano troppo umano, e che non c’è idea di giustizia (di qua i buoni, di là i cattivi) compatibile con una certa idea ‘univocista’ di Dio (che qui non pretendo mica essere l’idea della Chiesa o della sua tradizione teologica dominante).
Quanto poi a Caffarra, rilegga il suo intervento: ho l’impressione che la pensi proprio come ho scritto che la pensa.
Quando sento parlare di relativismo in opposizione all’assoluto mi vien lo sconforto. Scusate, pensavo che Derrida avesse ormai definitivamente mostrato come gli opposti si tengano per mano (e sorvolerei sul fatto che già lo diceva Heidegger e che ancora prima era chiarissimo a Hegel): non c’è notte senza giorno e viceversa, non c’è assoluto senza relativo (o relativo senza assoluto). Quindi, se ci lasciamo alle spalle l’assoluto (sarebbe ora: qualcuno non ha ampiamente mostrato che pensare per assoluti dipende unicamente dalla nostra mentalità alfabetica e che prima dell’alfabeto gli uomini non potevano parlare di verità assolute, men che meno di verità come adequatio o aletheia, tutte categorie occidentali tipiche della nostra mentalità alfabetica? E qualcuno si è mai perito di ribattere o confutare queste conclusioni – cui portano gli studi di E.A.Havelock, W.J.Ong, De Kerckhove, Sini, più qualche altra decina di nomi??), quindi, dicevo, se ci lasciamo alle spalle l’assoluto, ci lasciamo alle spalle pure il relativo, i relativismi e le relatività varie. E sarebbe una bella boccata d’aria fresca!