Una postilla sull’argomento degli articoli sotto citati. L’articolo di Agnoli su cui scarico le mie legnate è privo di qualunque rigore filosofico. Perché allora occuparsene? In terza pagina, Ffdes si chiede se c’è davvero bisogno di un’apologetica fondata con gli argomenti e i metodi di Agnoli. Con i metodi sicuramente no; quanto invece agli argomenti, è dai tempi di Pascal (che Ffdes giustamente cita), che l’apologetica è sulla difensiva, perde pezzi, ed è costretta a ritirarsi sempre più in interiore homine. Non è la natura che dimostra l’esistenza di Dio, non è la storia che dimostra l’esistenza di Dio, non è questo e non è quello: allora cos’è?
La strada sempre battuta (quella che mi pare anche Ffdes faccia sua) è: non si tratta di dimostrare un bel nulla. L’esperienza di Dio non è faccenda che possa essere oggetto di dimostrazioni. (E così la pensava anche Pascal). Una simile risposta può eventualmente fare anche di più: mettere in discussione i termini e il senso stesso della ‘dimostrazione’.
C’è poi un’altra strada (che non è detto vada scissa dalla prima), assai meno battuta e assai più impervia, che consiste nel ripensare non solo o non tanto il metodo o gli argomenti, ma l’oggetto su cui si appoggia la dimostrazione – cioè, ad esempio, l’ente naturale. In altre parole: se è la scienza a decidere assolutamente il senso d’essere di ciò che è natura, non c’è nessuna strada; se invece questa decisione non è necessariamente affare della scienza, allora qui si apre un strada.
Ora però la richiudo subito. Perché il senso d’essere di ciò che è naturale, per quel che mi riguarda, non porta certo dimostrativamente al Dio creatore. Quel che però comunque mi interessa, è intervenire tutte le volte in cui la partita sembra riguardare o la scienza (la ragione) o la fede. Ogni volta che si configura un simile aut-aut, c’è bisogno di filosofia. La filosofia è la contestazione in actu exercitu del monopolio scientifico della ragione (io direi in maniera molto più sfumata: dell’intelligenza di ciò che è). La contestazione riguarda evidentemente anche eventuali, residue ancillarità rispetto al depositum fidei. Per quel che mi riguarda l’intelligenza in questione non è un’intelligenza teologica, quel genere di intelligenza cioè che nove volte su dieci con l’aiuto dell’experientia Dei di cui sopra, si limita a convertire un limite immanente al sapere scientifico, previa sosta più o meno lunga nel mistero, nell’affermazione più o meno traballante di una trascendenza. Così la penso come Kant, che cito nell’articolo su Leftwing. Al postutto, un simile Dio è, in philosophicis, un mero Deus ex machina.