Immaginate di voler compiere un gesto. Se siete filosofi, avete letto Note sul gesto di Agamben, e sapete che viviamo in un’epoca e siamo parte di un’umanità che “ha perduto i suoi gesti”. Per sempre.
Ma voi un gesto lo volete compiere lo stesso. Ora, “ciò che caratterizza il gesto è che, in esso, non si produce né si agisce, ma si assume e sopporta”. C’è un concetto classico, per questo: quello di praxis. Il gesto non è dell’ordine della poiesis, della produzione in vista di un fine. Il gesto è insieme mezzo e fine, potenza e atto, naturalezza e maniera. Questo significa: se volete compiere un gesto, non è in vista di nulla.
Ma non basta. A volerlo davvero compiere, il gesto stesso non ha da essere esso stesso in vista, men che meno in vista di sé: non è possibile vedersi compiere un gesto (e vedersi, in genere, non è un gesto). Agamben dice: “nel gesto la rigidità mitica dell’immagine è spezzata”. Il gesto non può essere catturato in immagine, e l’immagine offerta ad un soggetto, che vi si riconosca e se ne appropri: colui che compie il gesto non può riconoscersi nel gesto. E’ – direbbe Deleuze – homo tantum, generico e impersonale (e preindividuale). Il gesto si compie: non sarà Heidegger e il gergo dell’autenticità a spaventarci per questo sfondo impersonale che giace al fondo del gesto. (C’è una parola di Kant che mi piace e che nessuno usa – nemmeno Kant, solo una volta, mi pare. Eautonomia, invece che autonomia. Che più o meno vuol dire: esser sé prima di costituirsi come soggetto, esser sé in tutta naturalezza, quasi senza saperlo)
Voi però volevate compiere un gesto. Bene: non potete. Ossia: non è che non potete compiere un gesto, non potete volerlo. E non potete neppure saperlo. (Il solito Spinoza, niente più intelletto e volontà). Se vi mettete in posizione di sapere, la possibilità del gesto è già compromessa.
(Da qualche parte devo pur aver letto: non sappia la mano destra il gesto che compie la sinistra).
giuliomozzi scrive: "Ma come si fa a saperlo? Come posso mettermi io nell’atteggiamento di chi dice: io compio gesti-seme, eventi verità? Come posso mettermi io nell’atteggiamento di chi discrimina i gesti altrui, dice: "Quello è un gesto-seme, quello no"?".
Poi continua: “Antonio Moresco potrebbe ben dirmi, e ora davvero a proposito: Ma non hai amor proprio?; e potrebbe anche dirmi: Quando un evento-verità avviene, lo si riconosce. Lo si vede. Non si può non vederlo. Se non lo si vede, si è ciechi”.
(Ora capite, si tratta ancora della
Restaurazione, e del pandemonio che ne è seguito). Io allora continuo così. “No, Antonio Moresco, un evento–verità avviene, ma un simile avvenimento non appartiene e non avviene nell’ordine del sapere, non si lascia riconoscere né identificare come tale. Non c’è un soggetto dell’evento-verità, e in quanto è affidato a un gesto, nessuno compie il gesto (che vuol dire: non c’è un nome proprio, proprietario del gesto).
(Conseguenza: se Cristo tornasse sulla Terra, nessuno lo riconoscerebbe. E infatti Cristo torna ogni ora sulla Terra, e nessuno lo riconosce).
Se allora il conflitto è tra chi è disponibile a pensare al proprio agire come a un agire di verità, e chi non è disposto, ‘sbaglia’ il primo a pensare in questi termini al proprio agire (e in altri e differenti termini all’altrui agire), poiché verità e proprietà non vanno d’accordo; e ‘sbaglia’ il secondo se esclude che sia possibile un agire di verità (perché escludere il sapere non è escludere l’agire, altrimenti di nuovo le due dimensioni collimerebbero).
(In somma: agire nell’indifferenza e in-differenza dal sapere. Ma sono io che qui dico in somma).
P. S. Nel suo saggio Agamben conclude al mutismo essenziale della filosofia (in verità: del cinema, e della filosofia) come “esposizione dell’essere-nel-linguaggio dell’uomo: gestualità pura”, ma non dice nulla circa la natura di questa non linguistica esposizione. Non dice abbastanza: non dice che quel che si espone, è quel che non si vede – e perciò, forse, resta esposto.