Archivi del giorno: settembre 7, 2005

Affanni

La cosa sta così, che da quando ho aperto il blog, ho contratto un po’ di debiti: con lui, con lui, con lui, con lui. Ad esempio. Ho sicuramente dimenticato qualcuno. Promisi a lui di leggere Il soggetto scabroso, al mondo di leggere Mistero Medjugorje. Ad esempio. Diciamo che sono un po’ in affanno.

Perché scrivo questo? Intanto per scusarmi, poi perché devo cominciare a dire no – cosa che non mi riesce facilissima.

Gesti

Immaginate di voler compiere un gesto. Se siete filosofi, avete letto Note sul gesto di Agamben, e sapete che viviamo in un’epoca e siamo parte di un’umanità che “ha perduto i suoi gesti”. Per sempre.
Ma voi un gesto lo volete compiere lo stesso. Ora, “ciò che caratterizza il gesto è che, in esso, non si produce né si agisce, ma si assume e sopporta”. C’è un concetto classico, per questo: quello di praxis. Il gesto non è dell’ordine della poiesis, della produzione in vista di un fine. Il gesto è insieme mezzo e fine, potenza e atto, naturalezza e maniera. Questo significa: se volete compiere un gesto, non è in vista di nulla.
Ma non basta. A volerlo davvero compiere, il gesto stesso non ha da essere esso stesso in vista, men che meno in vista di sé: non è possibile vedersi compiere un gesto (e vedersi, in genere, non è un gesto). Agamben dice: “nel gesto la rigidità mitica dell’immagine è spezzata”. Il gesto non può essere catturato in immagine, e l’immagine offerta ad un soggetto, che vi si riconosca e se ne appropri: colui che compie il gesto non può riconoscersi nel gesto. E’ – direbbe Deleuze – homo tantum, generico e impersonale (e preindividuale). Il gesto si compie: non sarà Heidegger e il gergo dell’autenticità a spaventarci per questo sfondo impersonale che giace al fondo del gesto. (C’è una parola di Kant che mi piace e che nessuno usa – nemmeno Kant, solo una volta, mi pare. Eautonomia, invece che autonomia. Che più o meno vuol dire: esser sé prima di costituirsi come soggetto, esser sé in tutta naturalezza, quasi senza saperlo)
Voi però volevate compiere un gesto. Bene: non potete. Ossia: non è che non potete compiere un gesto, non potete volerlo. E non potete neppure saperlo. (Il solito Spinoza, niente più intelletto e volontà). Se vi mettete in posizione di sapere, la possibilità del gesto è già compromessa.
(Da qualche parte devo pur aver letto: non sappia la mano destra il gesto che compie la sinistra).
 
giuliomozzi scrive: "Ma come si fa a saperlo? Come posso mettermi io nell’atteggiamento di chi dice: io compio gesti-seme, eventi verità? Come posso mettermi io nell’atteggiamento di chi discrimina i gesti altrui, dice: "Quello è un gesto-seme, quello no"?".
Poi continua: “Antonio Moresco potrebbe ben dirmi, e ora davvero a proposito: Ma non hai amor proprio?; e potrebbe anche dirmi: Quando un evento-verità avviene, lo si riconosce. Lo si vede. Non si può non vederlo. Se non lo si vede, si è ciechi”.
 
(Ora capite, si tratta ancora della Restaurazione, e del pandemonio che ne è seguito). Io allora continuo così. “No, Antonio Moresco, un evento–verità avviene, ma un simile avvenimento non appartiene e non avviene nell’ordine del sapere, non si lascia riconoscere né identificare come tale. Non c’è un soggetto dell’evento-verità, e in quanto è affidato a un gesto, nessuno compie il gesto (che vuol dire: non c’è un nome proprio, proprietario del gesto).
(Conseguenza: se Cristo tornasse sulla Terra, nessuno lo riconoscerebbe. E infatti Cristo torna ogni ora sulla Terra, e nessuno lo riconosce).
Se allora il conflitto è tra chi è disponibile a pensare al proprio agire come a un agire di verità, e chi non è disposto, ‘sbaglia’ il primo a pensare in questi termini al proprio agire (e in altri e differenti termini all’altrui agire), poiché verità e proprietà non vanno d’accordo; e ‘sbaglia’ il secondo se esclude che sia possibile un agire di verità (perché escludere il sapere non è escludere l’agire, altrimenti di nuovo le due dimensioni collimerebbero).
(In somma: agire nell’indifferenza e in-differenza dal sapere. Ma sono io che qui dico in somma).
 
P. S. Nel suo saggio Agamben conclude al mutismo essenziale della filosofia (in verità: del cinema, e della filosofia) come “esposizione dell’essere-nel-linguaggio dell’uomo: gestualità pura”, ma non dice nulla circa la natura di questa non linguistica esposizione. Non dice abbastanza: non dice che quel che si espone, è quel che non si vede – e perciò, forse, resta esposto.