Archivi del giorno: ottobre 4, 2005

Gabbie

Il numero 326 (aprile-giugno) di Aut-Aut (una delle più prestiogiose riviste di filosofia, fondata da Enzo Paci, come recita ancora la testata, nel 1951) è dedicato a Retoriche del management, e mi pare una cosa interessante. Nella premessa, si legge fra l’altro: "Che tutto sia diventato azienda non vuol dire soltanto che la distinzione tra tempo della vita e tempo del lavoro può essere mantenuta solo a fatica […]. E non vuol dire nemmeno che governi di vario colore stanno facendo a pezzi il welfare state  di marca keynesiana. Che tutto sia diventato azienda vuol dire, in primis, che è passata l’idea secondo cui ogni tipo di forma di aggregazione umana – anche la più piccola e, quel che è più interessante, anche quella che non nasce necessariamente con lo scopo di produrre profitti – può essere analizzata, descritta, compresa grazie agli strumenti di cui ci si serve per analizzare, descrivere, e comprendere le imprese. Per far emergere ".

Da voi è passata questa idea? Ogni tipo di forma di aggregazione umana? Ogni?

"Per fare emergere in che senso le retoriche del management siano capaci di produrre questa compenetrazione di livelli discorsivi, si è scelto di articolare la questione seguente: che ne è della vita degli individui dentro l’azienda?"

Già, che ne è? Ebbene, io sono l’ultimo a considerare poco rilevante una simile questione. Ho una flessibilissima moglie che stasera si ritirerà a casa alle 22.00 che sta lì a ricordarmelo, e so di essere un fior di privilegiato (a proposito: sto qui a Cassino, in studio, faccio ricevimento, non c’è nessuno, scrivo sul blog: tempo di vita o di lavoro?) Però sono anche il primo a resistere, per principio, all’idea che la domanda vada intesa così: che non è vita, questa che, ecc. ecc. Poiché per me, per principio, non è mai vero che la vita è un’altra. Questa è la vita: questa sola. Il che non significa affatto che, dunque, questa vita è immodificabile; significa invece che se la vita è un’altra, e questa non è vita, allora, io che vivo di qui, sarò morto di lì. E se sono morto qui (può darsi: se ne parla), non c’è modo di andar di lì. (E significa pure qualcosa quanto al mio pseudo-spinozismo, e qualcosa quanto alle categorie modali: che tuttavia vi risparmio). Io non capisco la necessità (teorica, non retorica) di dire che tutto è, ecc: se è tutto, non c’è scampo. (Ma non funziona neppure una teoria che descrive e/o funziona per tutto, tranne…)

Ciò detto rimane di assoluto interesse capire come funziona la gabbia aziendale: "a quali risorse debba ricorrere l’individuo per resistere a un coinvolgimento totale da parte dell’azienda" e "di quale ampiezza sia la portata delle strategie messe a punto dall’azienda per riuscire a investire di significato ogni aspetto della vita dei singoli".

Del resto del fascicolo, dell’odioso lessico organizzativo e delle insopportabili presentazioni power-point, magari un’altra volta.

Angoli bui

A Baronissi, i DS cercano da anni di trovare una sede decente. Attualmente stiamo in una ex-cantina, con umidità intorno al 100%, che ha pure il difetto di non dare sulla strada, ma su un cortile interno. Visibilità poca, quindi. Difficile gettare luce sull’attività del partito, e avvicinare i giovani alla politica.

(No, per quello, i giovani si avvicinano talmente, che bisogna fare attenzione a programmare le riunioni di segreteria e di direttivo per tempo, in modo che, ehm, liberino la sede, e che, insomma, ehm, non capiti come ieri sera, quando, ehm, l’insegna era ancora spenta, ma, ehm, qualcuno in sezione c’era).

Caverne

Vi riassumo il post (letto mentre in giro, per philosohical weblogs): nei corsi di filosofia si insegna professional ethics: ma che è? Stringi stringi, in quei corsi si insegna come far bene quel che va fatto all’interno di questa o quella realtà (economica, aziendale, professionale): ma la filosofia non dovrebbe, per definizione, mettere il naso fuori dalla caverna? (Che poi significa pure: senza una filosofia prima non si va mai molto lontano)
Nel mio piccolo, ho fatto un’esperienza del genere qualche settimana fa (ne parlavo qui). Invitato a tenere una lezione introduttiva in un corso di formazione professionale sul concetto di regola (regolamento, statuto), ho spiegato ai corsisti che non c’è regola in cui non sia inscritta la possibilità della sua violazione, e non c’è regolamento che, preso alla lettera, non sia stupido.
Non so fino a qual punto la direzione del corso abbia apprezzato.