La volta scorsa ci siamo soffermati sul Taurasi – vino campano di grande struttura – lodando il vitigno da cui è tratto, l’aglianico d’origine greca. Ma l’aglianico si offre come preziosa base per molti altri vini di altissimo prestigio (campani e lucani), nati dalla dedizione di vignaioli sapienti. È questo il caso del
Serpico – a base di aglianico in purezza, appunto – prodotto dalle cantine
Feudi di San Gregorio, i cui vigneti insistono sui medesimi territori che, al tempo del pontificato di Gregorio Magno, costituivano il cosiddetto
Patrimonium Sancti Petri. Il nome
Serpico nasce invece in omaggio di Sorbo Serpico, il borgo ove sorge la cantina di produzione. È vino che si rivela incisiva espressione della sua terra di provenienza, solidale alle boscose valli d’Irpinia. Gran parte delle uve adoperate per la vinificazione sono ottenute da viti centenarie ‘prefillosseriche’, situate ad un’altitudine di 400 metri sul livello del mare. La raccolta avviene manualmente, e con attenta cernita dei grappoli, fra la fine di ottobre e i primi giorni di novembre, per consegnare poi il vino ad un affinamento di 14 mesi in carati di rovere nuovo.
Alla vista il Serpico si presenta con denso impatto cromatico, di rubino con fondo purpureo, fino ai toni cupi della melanzana. Le fitte venature dei colori si intrecciano ad una trama olfattiva quanto mai articolata, in cui si avvicendano e fondono i frutti di bosco (mora, ribes nero) e la confettura di ciliegia, così come i toni speziati della cannella e dei chiodi di garofano. Ma il bouquet accoglie anche richiami di menta, tabacco, cacao e caffè, su fondo vanigliato. In bocca rivela tutta la sua complessità e ricca struttura. È vino ‘carnoso’, di superba concentrazione, dai tannini armonici, e che si dispiega con densa cremosità e morbidezza, richiamando anche al gusto i frutti di bosco. Il finale, di lunga persistenza, sprigiona note balsamiche. Ha 13,5° di alcol e attitudine all’invecchiamento.
Direi che un vino come il Serpico ben si addice alle prime brume autunnali e ai primi freddi – evocando insieme impressioni visive che fanno pensare a quadri di Brueghel – come a condividerne le pause che si accompagnano al lento ridursi delle giornate, e prestarsi così a letture complesse e profonde.
Lo trovo adatto, per esempio, ad accompagnare un’opera somma come Der Zauberberg (‘La montagna incantata’) di Thomas Mann.
In filosofia mi pare possa accordarsi con complesse geometrie speculative dalle radici neoplatoniche. Lo si gusti, dunque, provando a misurarsi con intrecci di pensiero esposti anche alla inquieta interrogazione del ‘divino’: dalle Enneadi di Plotino fino a Schelling, ad un’opera ‘inesauribile’ come la Philosophie der Offenbarung (‘Filosofia della rivelazione’). E proprio dalla Filosofia della rivelazione, infine, traiamo questa riflessione che dischiude ad una sapiente ‘simbolica’ del vino, evocandone la costitutiva ambiguità: «Il vino non è un immediato dono della natura, come il grano. È un succo spremuto con la forza, che passando attraverso una sorta di morte, ottiene una vita spirituale, nella quale (rinchiuso e conservato per così dire come un segreto) può durare più a lungo e dimostrare continuamente un carattere determinato, anzi individuale; ma esso dimostra la sua natura per così dire demoniaca o spirituale attraverso quella punizione che lo colpisce al tempo del fiorire della vite. Il vino è dunque il dono del dio già spiritualizzato […] è il dono che risveglia la vita più alta dello spirito e fa sorgere le gioie nascoste e i più profondi dolori della vita».
p.s. Tornando al testo della scorsa settimana, ho appena appreso che il prestigioso annuario dei vini “Gambero Rosso 2006” ha giudicato il Taurasi Vigna Cinque Querce 2001 di Salvatore Molettieri miglior vino rosso dell’anno. Si tratta di un riconoscimento altissimo e quanto mai meritato per un vignaiolo di ‘vera origine’.
by Walter