Archivi del giorno: ottobre 27, 2005

Bacchettate: Pera, Severino, mancava Odifreddi

Severino: democrazia e cristianesimo sono miti. Cioé: teoreticamente frolli. Il loro confronto non è mica questa gigantomachia: vincerà chi ha "maggior potenza pratica". Pera: ma scherziamo! Il cristianesimo un mito? Il Papa dice di no, e dico di no anch’io. E per dirlo, non c’è bisogno che la negazione di ciò che esso afferma sia contraddittoria. Oggi tocca a Odifreddi. Odifreddi non sopporta Severino, e sente irresistibile il bisogno di bacchettarlo per insegnargli le cose più elementari. Comincia infatti così:

" […] Lo spunto per l’articolo di Pera era la seguente oscuirtà di Severino: – La democrazia è un mito, perché la sua negazione è contraddittoria -. Si tratta di un’oscurità interessante, per almeno due motivi. Anzitutto, perché rivela un’allegra confusione tra frasi e nomi: solo alle prime, e non ai secondi, si possono infatti applicare concetti come la negazione e la contraddittorietà. E poi intorbida le acque chiamando ‘mitologico’ ciò che nella storia della logica […] viene invece chiamato in tutt’altro modo: ad esempio, ‘non analitico’ o ‘contingente’, in opposizione a ‘analitico’ o ‘necessario’".

Togliamo subito la bacchetta dalle mani del professor Odifreddi. Primo l’affermazione la democrazia è un mito è di Luigi Einaudi: Severino cita. Secondo: quanto alla confusione fra frasi e nomi, Odifreddi trascura l’evidenza del testo. Subito dopo infatti, appaiando democrazia e cristianesimo, Severino scrive: "…un mito: la  negazione di ciò che esso afferma, ecc." (sott. mia). Si tratta dunque della non contraddittorietà della negazione di un’affermazione. L’espressione citata da Odifreddi è insomma soltanto brachilogica. Terzo. La distinzione non-analitico e contingente e analitico e necessario fra l’altro si può certo fare. Ma se si vuole criticare Severino, bisogna portare ad esempio almeno una verità contingente. Che ora ci sia il sole non è necessario, si dice: potrebbe piovere. Ma Severino può obiettare:  che il sole che in questo momento splende sia il sole che in questo momento splende non è affatto una verità contingente: se il sole non splendesse, ma piovesse, il sole che in questo momento splende non sarebbe il sole che in questo momento splende. Il che è contraddittorio. (Non dico che Severino abbia ragione, dico che la distinzione fra necessario e contingente con cui lo si vuol liquidare lo fa sorridere, e non può essere presa come ovvia e scontata, perché, mi sia infine consentito di dirlo in breve così, la questione non è logica, ma ontologica).

Poi Odifreddi riassume l’intervento di Pera, e poi lo apostrofa: ma come, tu quoque! Quindi l’affondo, contro questa storia del relativismo: "Nessuno scienziato si sognerebbe di pensare alla scienza e alle sue verità come relative e universali. Sono i filosofi , a pensare che la scienza sia relativa". Qui verrebbe voglia di chiedere a Odifreddi, così attento a bacchettare i filosofi, cosa precisamente intende per ‘relativo’, visto che lo oppone non a ‘assoluto’ ma a ‘universale’. Però non sottilizziamo, non stiamo a chiedere esempi e spiegazioni, e facciamo finta che sia tutto chiaro e sia chiaro pure che "di scienza ce n’è, e ce n’è sempre stata, una sola": il professor Odifreddi è uno che non le manda a dire. Anche perché, schietto com’è, ha pure la nobiltà d’animo di riconoscere quando l’altro ha ragione. Così scrive, lui matematico, lui logico, lui che è di quelli che la scienza è una e una sola (tirate un profondo respiro, e poi leggete tutto d’un fiato):

"Su una cosa si può comunque essere d’accordo con Pera e Ratzinger: che ‘esistono valori fondamentali iscritti nella natura stessa della persona umana, previi a qualunque giurisdizione statale, che trovano il loro fondamento nell’essenza stessa dell’uomo’. Ma proprio perché tali valori derivano dalla natura umana, si possono appunto conoscere studiandola. E lo studio della natura, umana e non, è compito della scienza: non della filosofia, e tanto meno della religione".

Avete letto questa verità universale e non relativa? E ora la bacchetta la prendete voi, o la prendo io? (Non c’è due senza tre, e il terzo – mi dispiace – è il peggiore).

P. S. Anche la coda dell’articolo di Odifreddi è non falsa ma sciocca. Pera ha scritto: "se il cristianesimo non fosse la verità, qualcuno un giorno potrebbe dire che uccidere, rubare e dire il falso sono solo convenzioni accidentali". Odifreddi cita, poi ricorda che simili comandamenti si trovano nel Libro dei morti egiziano (non ho difficoltà a crederlo), e chiosa: dovremmo forse allora dire che se i culti di Osiride e di Amon non fossero la verità tutto sarebbe permesso?". Ma no, caro professore. Pera non è Ivan Karamazov. Pera, d’accordo con millenni di storia filosofica e teologica, distingue tra rivelazione della verità e contenuto della verità (di certe verità del diritto e della morale naturale). Polemizzi pure con Pera (lo dice a me?) ma lo faccia con meno sicumera.

 

Esperienza alpimistica

Ieri a Salerno, si presentava il libro di Francesco Tomatis, Filosofia della montagna. (Ne ha parlato il Corriere, e Avvenire ha dato un’anticipazione; Bompiani ha fatto pure la videochat con Cacciari e l’Autore). A discuterne Nicola Auciello e Vincenzo Vitiello. Auciello ha detto (fra l’altro): la montagna, l’ascesa: è un’esperienza tipicamente filosofica. Tomatis la presenta muovendo da una sua propria dimensione religiosa. E va bene. Ma mentre insiste sul puro che della cima (la ‘cosa stessa’ di Platone, l’Uno plotiniano, ecc. ecc.), lo fonde poi troppo strettamente, ad onta della sua indeterminatezza, con una determinata interpretazione simbolica. Il puro che non ne dovrebbe invece essere toccato. Indifferente, dovrebbe solo rimandare indietro come un’eco la voce di chi ne fa esperienza. Vitiello ha detto (fra l’altro): più sali più senti la gravità della terra. Questa è l’esperienza religiosa: una radicale passività. Poi ha chiesto: dov’è lo spazio della libertà dell’uomo, se l’ascendere è opera della grazia? E infine ha ricordato una montagna dell’infanzia, in Veneto, e soprattutto la sua esperienza di ascesa al Monte Sinai, insieme a Bruno Forte. Veder sorgere il sole sul monte, come l’alba del mondo.

Anch’io feci da bimbetto la mia esperienza. Disobbedendo ai miei genitori, mi avventurai su per una collinetta nei pressi della Dacia (così mio nonno, il mio eroe d’infanzia, alpinista, sciatore, aviatore, fascista, che aveva fatto la guerra nei Balcani, aveva chiamato il suo piccolissimo pezzetto di terra). Avevo già provato un’altra volta per altra via, fallendo: e mio nonno era venuto a prendermi, non essendo io più in grado di salire o di scendere. Ci riprovai. Quella volta giunsi in cima. (Mi pare ci fosse anche mio fratello, non ricordo: se passa di qui, me lo dirà). E feci l’esperienza della mia vita: quando misi il naso oltre l’ultimo sperone di roccia, quel che vidi fu un prato ordinato, una strada ben asfaltata, un auto parcheggiata  e delle case. Dietro la tenda di Pitagora, non c’era poi granché.

(Sia chiaro: Il neologismo del titolo del post è di Tomatis, non mio).