Archivi del mese: novembre 2005

Cavoli a merenda (c'entra come i)

Il fondo di oggi sul giuramento abortista de Il foglio se la prende con le prese di posizioni polemiche, ideologiche, pregiudiziali del fronte ‘laicista’. Ai vescovi si dà addosso per partito preso. Cosa hanno detto questa volta? Una cosa ragionevole: "vanno valorizzati quegli aspetti della stessa legge 194 che si pongono sul versante della tutela della maternità e dell’aiuto alle donne che si trovano in difficoltà di fronte a una gravidanza". Perché dunque essere pregiudizialmente ostili? E va bene: non sarò ostile, né a priori né a posteriori. Ma subito dopo Ferrara scrive:

"I laicisti invece agiscono come sciamani dell’abortismo ideologico, chiedono programmi e rigorose, eterne fedeltà a una cultura che uccide in pancia, relativizzando la persona, sia la donna cui viene negata la libertà di non abortire, sia l’essere maschile o femminile concepito e poi negato". Come si vede, Ferrara, lui, non ci mette nulla a interpretare abbondantemente in maniera pregiudizialmente ostile, ma passi. Il fatto è che s’inventa pure cose che c’entrano come i cavoli a merenda: relativizzando la persona? Ma che vuol dire?

Siccome deve fare la crociata contro il relativismo la parola dentro ce la deve mettere per forza?

Barzelletta

Una barzelletta che circola tra ecclesiastici narra che un giorno vengono ritrovati i resti di Cristo. Imbarazzo, poi si studiano le contromisure. I Francescani propongono di adoperarli per cavarne reliquie da vendersi nei giorni di festa; i Domenicani suggeriscono nuove ermeneutiche della scrittura volte a far quadrare i conti; e i Gesuiti, stupefatti, esclamano: «ma allora esisteva davvero!».

A raccontare la barzelletta è Maurizio Ferraris, che continua: "I tre ordini manifestano i tre ingredienti fondamentali del post-moderno: la Secolarizzazione (i Francescani), l’Ermeneutica (i Domenicani), il Nichilismo (i Gesuiti)".

(In questione è "il bello del relativismo. Quel che resta della filosofia nel XXI secolo". Acquisterò il libro).

Onore e vanto

Gran bel giornale, Il Giornale (trovato grazie a stamparassegnata)

Cerchi, quadrati, e spigoli arrotondati, ovvero: come Giorgio Israel non ha capito granché

"L’idea di definitività provvisoria, o stabilità variabile, questa sì è roba da cerchio quadrato". Ma no, ma no: è un’ottima idea (se ci si vuole intendere). Non mia, e nemmeno di Mori, al cui lungo articolo replica lungamente ma non altrettanto Giorgio Israel (ripescati grazie a Porphyrios), ma per esempio di Wittgenstein, Della certezza. Ora, io devo starmi attento a non scrivere post troppo lunghi, e perciò la spiegazione sarà un po’ lacunosa, ma insomma: è come l’acqua e il letto del fiume. L’acqua scorre via che è una bellezza, il letto del fiume si modifica invece lentamente, solo un po’ alla volta: cosa c’è qui di contraddittorio? I valori morali mutano, ma lentamente: per chi cercasse l’assoluto, facciamo che c’è apposta la religione. (Invece di cercare di fondare teologicamente e metafisicamente i valori morali, col rischio – visto che questi cambiano – di screditare tutto il resto, perché non imparare a tenere distinte le cose, ed evitare così brutte figure – tipo considerare peccato andare a teatro, salvo scoprire qualche annetto dopo che è cosa buona e giusta?).

Mori invece del fiume fa l’esempio del linguaggio, istituzione ‘oggettiva’  quanto basta perché ci si intenda – non la si cambia a piacere – ma non assolutamente oggettiva. Israel obietta argutamente: come circoscrivo l’intersoggettività ("un gruppo – scrive Israel – come definito, come delimitato?") che fonda l’oggettività del linguaggio? Bella obiezione! Bravo! Hai capito tutto! Oppure Mori ha scritto invano. Come stabilisco se mio figlio di due anni parla italiano, o se uno straniero che sta qui da cinque anni parla italiano, o se un veneto che mescola nella sua parlata un po’ di dialetto parla italiano, o se un genovese del 1420 parla italiano, o se Schumacher parla italiano? Cos’è l’italiano che tutti costoro parlano? Israel tira in ballo Aristotele. Bene, benissimo: mi dia allora l’essenza immutabile dell’italiano! E mi dica pure: dopo quanti errori si dirà che lo studente non sa scrivere in italiano? Io, per me, darò alla domanda una risposta sfrontata, sfrontatissima: dipende! (Però se son professore boccio e promuovo ugualmente, con tutto che dipende!).

Perché dipende, caro Israel, con buona pace di Aristotele che citi fuori tempo massimo. Dipende: non lo stabilisci una volta per tutte, ora e sempre e sotto tutti gli aspetti. Non sai, non puoi sapere che italiano si parlerà fra mille anni (se si parlerà), e non puoi sapere nemmeno se oggi tizio o caio parlano assolutamente italiano. Dipende da cosa vuoi fare con questa risposta: vuoi sapere se possono presentare Porta a Porta? vuoi sapere se tu li comprendi? vuoi sapere se possono stendere un vocabolario, vuoi sapere se possono scrivere su Il Foglio (penso proprio di sì)?

Dipende, caro Israel (Il relativismo: che orrore! Una Babele: non si capisce niente!).

Napoli e Rovigo

Ho postato ad amici (faccio di queste cose) questo pezzettino di Pasolini intervistato dal napoletano A. Ghirelli, e apparso su Nazione Indiana:
"Io so questo: che i napoletani oggi sono una grande tribù, che anziché vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg o i Boja, vive nel ventre di una grande città di mare.
Questa tribù ha deciso – in quanto tale, senza rispondere delle proprie possibili mutazioni coatte – di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia, o altrimenti la modernità. La stessa cosa fanno nel deserto i Tuareg o nella savana i Boja (o fanno anche, da secoli, gli zingari): è un rifiuto, sorto dal cuore della collettività (si sa anche di suicidi collettivi di mandrie di animali); una negazione fatale contro cui non c’è niente da fare. Essa dà una profonda malinconia, come tutte le tragedia che si compiono lentamente; perché questo rifiuto, questa negazione alla storia, è giusto, è sacrosanto" (al riguardo, vedi anche qui).
 
Uno di essi (il Venerabile) ha così commentato:
"Mi è sempre piaciuto moltissimo questo brano che si potrebbe intitolare "splendori e miserie dei napoletani"; splendori, se la la modernità è grigia, triste e massificata, e sfuggirvi, come tanta parte del popolo napoletano fa, è esaltante e splendido, apre squarci di alterità; al tempo stesso, deprimente e misero è rifiutare le regole della modernità, quelle che dicono più democrazia e meno camorra, più civismo e meno familismo. Questa duplicità è diventata la cartina al tornasole del mio umore, quando vado a Napoli (e ne sto appena tornando). Se sono di buon umore vedo lo splendore, se di cattivo umore la miseria. Ma non toglietemela Napoli: prendetevi pure Rovigo. Lo dico senza iattanza, senza retorica, senza voler convincere nessuno, senza niente: è un sentimento del tutto personale".
 
Al che un altro (il Nobile):
"Ma io non credo che la modernita’ sia triste, grigia e massificata".
 
(Gli altri amici sono il Lumbard, il Segretario e il Vesuviano)

Offerta di lavoro

Mica per tutti, che vi credete? Offro a Giuliano Ferrara il posto di OSSERVATORE SPIRITUALE DEL CORSO DI ERMENEUTICA FILOSOFICA 2005/06. Presa di servizio: 10 gennaio 2006 (dato d’inizio del corso). Offro all’ateodevoto Direttore de Il Foglio la possibilità di monitorare di persona (lui o un giornalista del suo giornale) le “idee di Stato” che vado predicando, il bouvardismo e pécuchettismo che alligna nelle mie lezioni, la sequela infinita di sciocchezze che spaccio per mentalità laica.
Lo pago (anche se per la retribuzione dovremo fare in nero, perché le leggi dello Stato italiano e il mio contratto di ricercatore con l’Università di Cassino non prevedono ancora la figura); in cambio, chiedo solo di poter assistere almeno una volta alla stesura dei suoi pezzi. Lo voglio vedere mentre prende la penna, o si mette al computer, e beffardo scrive gongolando (sono sicuro che gongola beffardo) di queste sciocchezze.

L'esistenza di Dio

Il capodivisione Tuzzi (che per chi non se ne ricordasse più è quello che non ha ben capito cosa sia la grande azione parallela) s’è finalmente rimesso al computer, e ha postato la presentazione della conferenza che il prof. Tomatis terrà su mio invito stamane, ore 10.00, all’Università di Cassino, sul tema: L’esistenza di Dio. Tra Kant e Schelling
(Non è che di solito io scriva di questi testi, ma ora ho un blog, e me ne faccio uno scrupolo – scrupolo non filologico perché, al solito, dubito che leggerò).
 
(Che non è per vantarmi, ma se sull’insuperabile Google cercate il capodivisione – anche così -, trovate quasi soltanto questo blog e dintorni. Posso dunque dire con orgoglio: "il capodivisione c’est moi!")

Incursione e regressione

Io non capisco un accidenti di musica, e perciò questa è un’incursione. Sento un po’ di musica alla radio e compro rarissimamente dischi. E anche da ragazzo, i miei gusti in fatto di musica non sono andati molto al di là di quelli del mio fratello maggiore. Qualche sforzo in più verso l’Inghilterra, e poco altro. A casa mia c’era un pianoforte, mio padre suonava, ma dei suoi quattro figli l’unico che non ha preso lezioni di piano neanche per un giorno sono io. Quanto alla musica classica, mi piace. Come sottofondo. La musica colta contemporanea, infine, mi incuriosisce molto, ma sentendomi profondamente ignorante non oso addentrarmi.

Tutta questa premessa per la regressione. Mi sono procurato (ehm) la discografia completa di Battisti. Io non lo sapevo, io ascoltavo le sue canzoni come capitava. Ma il primo disco (1969) contiene tutte insieme un’avventura 29 settembre una canzone per maria nel sole nel vento uno in più non è francesca balla linda per una lira prigioniero del mondo io virò (senza te) nel cuore nell’anima il vento. Il secondo (1970) allinea tutte in una volta fiori rosa fiori di pesco dolce il giardino  il tempo di morire mi ritorna in mente 7 e 40 emozioni dieci ragazze acqua azzurra acqua chiara era non è francesca  io vivrò (senza te) anna. Domanda: ma oggi ci sono cantanti italiani che infilano dodici canzoni così? Oppure sono io che stamane sono malinconico? 

(E non sono ancora arrivato a Hegel).

Permalink

Credo che mi perdonerete se questa volta raddoppio, e vi segnalo anche qualcos’altro dell’ultimo numero di Leftwing. Se siete presi da simpatie neocentriste (può capitare) beccatevi questo e questo. Se qualcosa vi sfugge, tipo chi siamo da dove veniamo dove andiamo, beccatevi quest’altro.

(Il post lo faccio anche perché con qualche mese di ritardo e precisi avvisi del Direttore, che solo oggi mi tornano a mente, ho scoperto che esiste il link permanente alle pagine di Leftwing)

Tommaso e dintorni

Questa volta il titolo è impegnativo: Benedetto XVI  e la forma del mondo. La minuscola gocciolina, una specie di tafazzata, ve la riporto invece qui:

"Se il cristianesimo è la verità, allora tutta la filosofia che ne tratta è falsa" (L. Wittgenstein).

(Si fa presente inoltre al gentile lettore che le parole di Benedetto XVI sulla sintesi armonica di fede e ragione, sotto l’alto patronato di Tommaso, c’è la terza pagina di ffdes. E c’era già Malvino, che qui si segnala doverosamente per via della dedica, e non solo per quello)

Aglianico. Tre versioni

 Dei molti pregi dell’Aglianico s’è già discusso in precedenti occasioni. Vitigno antichissimo, importato con ogni probabilità da coloni greci nel nostro meridione, appare profondamente radicato nel territorio, secondo i molteplici significati cui tale espressione consente di rinviare. Territorio dice infatti qui ‘cultura’, con il suo intreccio di saperi, il passaggio delle tradizioni, la presenza ancora viva dei riti legati alla terra. Ma il riferimento al territorio ci consente di dar rilievo anche alla terra in quanto tale, valorizzandone così il puro spessore ‘materico’. Si pensi alla ricchezza offerta dalle componenti tufacee e vulcaniche, tratto distintivo dei terreni che si estendono in questa parte di Appennino meridionale, fra Sannio, Irpinia e Lucania.
Sono infatti soprattutto tre le aree di produzione dell’Aglianico, estese appunto entro le zone interne della Campania e della Basilicata: Taurasi, Taburno e Vulture. Ne derivano tre differenti tipologie di vino: il Taurasi – su cui già ci siamo soffermati – l’Aglianico del Taburno (detto anche ‘amaro’) e l’Aglianico del Vulture.
Da tali aree di produzione e fra le differenti varietà di Aglianico, scelgo in questa occasione di segnalare tre vini prodotti da vignaioli molto legati, appunto, alla ‘cultura’ del loro territorio, capaci di coniugare in maniera creativa l’antica cura e la fatica richieste dalla coltivazione della vite – secondo gli usi profondamente sedimentati nella memoria dei contadini – con le più recenti procedure di vinificazione. Si tratta dunque di vini a loro modo emblematici, ciascuno dei quali concorre a rivelare le tante sfumature del vitigno d’origine. Il Taurasi mostra un intenso color rubino dai riflessi purpurei, tendente con l’invecchiamento al granato, ed ha un caratteristico odore speziato (si percepiscono il tabacco, i chiodi di garofano, il pepe nero). Caratteristiche affini presenta anche l’Aglianico del Taburno, il quale offre però aromi meno speziati e più fruttati (con prevalenza di more e ribes nero). All’Aglianico del Vulture vanno attribuiti invece una maggiore morbidezza, con prevalenza di aromi floreali (violetta), ma anche sentori di ciliegia e di tabacco.
Ma veniamo ora ai tre vini scelti:     
il primo è il ‘Taurasi Vigna Cinque Querce’ prodotto da Salvatore Molettieri. Va tributato un giusto omaggio a questo vignaiolo dalla schietta sapienza contadina. Il suo Taurasi compare come miglior vino rosso nell’annuario 2006 dei Vini d’Italia, edito dal Gambero Rosso. Si tratta di un vino ove appaiono congiunti in perfetto equilibrio le antiche esperienze del luogo e l’apertura verso nuove tecniche di produzione. Matura per oltre tre anni in barriques e botti grandi di rovere, per poi ricevere un affinamento in bottiglia di circa sei mesi. Ha una densità cromatica dominata dal rosso rubino tendente al granato, con venature d’arancio; all’olfatto richiama il tabacco scuro, il cacao, le spezie (soprattutto vaniglia, chiodi di garofano, pepe). Ma l’aroma è ricco al punto tale da dispiegarsi anche sui toni fruttati: si sente la visciola, e soprattutto la prugna matura. La bocca è generosa, rivelando del tutto la sua potente struttura, i sui ricchi tannini. Il perfetto connubio fra gusto e olfatto consente il recupero anche al palato di aromi come il tabacco e la prugna.
Il ‘Bue apis’ – secondo vino su cui ci soffermiamo – è invece un Aglianico del Taburno, anch’esso di altissimo pregio, prodotto dalla Cantina del Taburno. Il nome è legato ad una antica scultura beneventana, ancora oggi visibile, appartenuta ad un tempio fondato da Domiziano nell’anno 88 dopo Cristo per il culto di Iside. Le uve da cui è ricavato provengono esclusivamente da una vigna centenaria ubicata in contrada ‘Panzanella’ di Foglianise (BN) a 350 metri s.l.m.. Ha un colore di rara eleganza, in cui prevale il rosso rubino, con toni cupi, purpurei. Il naso accoglie anzitutto i profumi dei frutti del sottobosco (mora, ribes), ma anche le spezie (vaniglia, pepe nero), il caffé tostato e il tabacco. Al palato il ‘Bue apis’ mostra subito d’essere un vino di gran corpo, con una componente tannica vivace e morbida al tempo stesso. 
Terminiamo segnalando l’Aglianico del Vulture ‘Don Anselmo’, prodotto nelle vigne di Barile, in Lucania, da Vito Paternoster, altro vignaiolo d’antica tradizione, profondamente radicato nella cultura della sua terra. È un vino dal colore rubino cupo, con riflessi violacei. I profumi richiamano note floreali e frutti del sottobosco, presentando insieme anche l’aroma delle spezie. Al palato si presenta di notevole struttura, dalla materia compatta e con tannini riccamente espressi.
Abbinerei questi vini ad opere anch’esse provenienti dal ‘territorio’. Si pensi, per esempio, all’Arcadia del Sannazzaro, o alle Odi di Orazio. Ma un altissimo riferimento potrebbe essere Torquato Tasso, con la sua Gerusalemme liberata. Per quanto riguarda i temi filosofici, mi pare opportuno invece accostare questi vini all’opera di Giambattista Vico – prima fra tutte, naturalmente, la Scienza Nuova – alla sua scrittura barocca, alle sue pagine dense di pensiero.
(by Walter)

Taglio e incollo

"Quando ho visto Adriano Sofri, dieci giorni fa, mi aveva detto di stare male, e di non respirare più bene. "E’ il carcere", aveva confidato, "a togliermi il fiato". Ecco, dopo una difficile operazione all’esofago durata tre ore, io credo che di chiacchiere non ne vadano più fatte.
Si assegnino immediatamente i domiciliari a Sofri, prima dell’arrivo della grazia, sin troppo in ritardo. E si pronunci immediatamente il consiglio di Stato sulla mancata controfirma del guardasigilli al provvedimento di clemenza del capo dello Stato. Sul conto di Castelli, poi, la magistratura dovrà indagare: farsi scortare da energumeni che si definiscono "arruolati nella guardia nazionale padana" è, per la nostra Costituzione, un inammissibile reato. Sulla cui responsabilità, questa volta, gli italiani non avranno incertezze".

Esercizi spirituali

Ogni tanto, di domenica, recupero articoli. Questo di Armando Torno, per esempio mi era sfuggito. Vi si recensisce un libretto sui cento grandi filosofi dell’umanità e si fa così la scoperta che l’Italia è ferma a Machiavelli: più vicini nel tempo non ce n’è (nemmeno tra le riserve). Come se non bastasse, Torno aggiunge questo commento:
"Questo libretto di King spiega meglio di tanti discorsi la sorte che tocherà a quasi tutti i filosofi: sparire".
A me verrebbe voglia di sentirli, quei tanti discorsi, per capire se si tratta poi della sorte dei filosofi o dell’umanità in genere (in effetti, dovrebbero funzionare pure per i poeti e i matematici, i fantini e i giornalisti). Ma Torno torna poi agli italiani di oggi, in fondo l’oggetto della polemica è spicciolo:
"Si impara a riconoscere i filosofi. E ci si accorge che oggi essi, tranne qualche rarissima eccezione, sono dei cicisbei da salotto e disertano biblioteche e meditazioni per investire il loro tempo in trasmissioni televisive e cose simili [il blog!: sono spacciato]. In molti, forse troppi, si trascinano da un convegno all’altro, da un festival a un incontro, ripetendo sostanzialmente i medesimi concetti, senza stancarsi. Il risultato lo abbiamo visto nel libro di King: scompariranno subito [il libro di King è un instant book?]”.
 
Comunque Torno ha ragione da vendere. Però siccome secondo me teme di averne troppa, ecco come, dopo aver ricordato Le vite di Laerzio e le impertinenze dei filosofi verso il potere e le sue lusinghe, conclude il suo pezzo:
“Non scambiate il libro per un manuale che vi insegna a essere irriverenti o a gettarvi (ironicamente) ai piedi di chi può. Vi allenerà però a farlo mentalmente. La qual cosa procura dei grandissimi sollievi spirituali”.
Ma ho capito bene? Torno si esercita così, mentalmente (mentalmente, per carità), e, buon per lui, ne trae grandissimo sollievo.

Il Foglio e le eterne questioni

L’incipit è quasi eroico:
"Chi ci legge da anni ha incontrato con un certo anticipo in queste colonne le questioni eterne di cui oggi, nell’attualità del tempo che si muove si perde e si annuncia, tutti discutono con passione".
Il senso del fondo è: siccome le questioni sono eterne (ma ovviamente nessuna delle questioni citate da Ferrara è eterna), come vi permettete di ridurre tutto a misoginia oppure clericalismo oppure moralismo oppure…? Si potrebbe in verità dire che misoginia clericalismo moralismo sono eterni almeno quanto le questioni eterne che (in anticipo, beninteso) il Foglio discute. Ma siccome nel seguito il Direttore dice (giustamente) che l’ironia ci può stare, però è troppo facile buttarla sempre in ironia, voglio stare all’orgogliosa dichiarazione di Ferrara:
"Il nostro è un giornale che cerca di definire razionalmente i fatti in un tempo in cui la ragione flette sotto il peso del pensiero negativo e delle più evanescenti interpretazioni".
Forse a causa del pensiero negativo che mi flette (ma non mi genuflette), che l’eterno faccia il paio con la definizione razionale dei fatti al mio orecchio suona un po’ retrò. Questa ‘definizione razionale dei fatti’, peraltro, non so bene cosa sia. Anche perché Ferrara fa l’esempio non di fatti, ma della coraggiosa difesa da parte del giornale di due parole: ‘peccato’ e ‘matrimonio’ (cui ovviamente non corrisponde nessuna questione eterna), sicché viene da pensare che ‘definire razionalmente i fatti’ significhi per lui chiamare le cose con il loro nome, cioè con il nome che gli dà lui. (Il senso politico di questo ‘chiamare le cose con il loro nome’ con il quale le opinioni altrui fanno automaticamente la figure di sofistiche fumisterie ognuno lo vede da sé).
E se appena uno domanda se poi sia veramente quello il nome, se il loro nome sia il nome che le cose portano scritte su di sé, o il nome che qualcuno assegna loro, o un po’ una cosa e un po’ l’altra, sono sicuro che Ferrara sospetterebbe “evanescenti interpretazioni” in questa domanda. Ma a proposito di ‘peccato’, qual è il fatto? Una certa categoria di atti, pazienza se nel corso del tempo almeno alcuni di essi son mutati? E in generale, ‘peccato’ non è qualcosa che è chiamato così dentro una certa tradizione? Bene, ma allora dov’è l’eterno? E a proposito di ‘matrimonio’ (la faccio un po’ più lunga) Ferrara si riferisce al rito, all’istituzione, alla figura definita dal codice canonico o dal codice civile, o a tutti e due, oppure alla mera congiunzione carnale di uomo e donna? Siccome oggi il diritto di famiglia è cambiato un pochino, e si può divorziare, e non c’è più il pater familias, e si può scegliere il regime dei beni, e non c’è più lo ius primae noctis e nemmeno il ripudio, cosa è che sta come un fatto sotto tutti questi cambiamenti? Forse il fatto è l’accoppiamento dei sessi? Ferrara intende dunque che il matrimonio è l’accoppiamento dei sessi (ma ovviamente non ogni accoppiamento)? Ferrara vuole fondare etica e diritto sull’etologia o proprio sulla zoologia?  
Sono l’etologia e la zoologia che gli procurano i fatti per le sue questioni eterne? E’ lì che si attesta la definizione razionale del matrimonio?

De minimis

 Non mi pare che se ne sia parlato molto, ma a me ha colpito l’articolo di Sergio Luzzatto, sparato sul Corsera con un gran titolo sul negazionismo all’italiana, in cui si leggono insieme le vicende di Irving (arrestato in Austria per apologia del nazismo), e Canfora (il cui ultimo libro un editore tedesco si è rifiutato di pubblicare. Il testo dell’articolo potete leggerlo  grazie a Riccardo de Benedetti (che mette in rete anche un precedente articolo di Luzzatto sul libro di Canfora). Dice De Benedetti che chi attacca da sinistra la democrazia gode di una franchigia di cui altri non godono. Credo sia vero. Dice Luzzatto che gli piacerebbe proprio che Canfora andasse a processo: non come l’Irving arrestato per le sue opinioni indecenti (Irving che è peraltro del tutto screditato come storico, mentre Canfora gode di meritata considerazione), ma come l’Irving che qualche anno fa fece causa (perdendola) a chi gli dava del nazista. Ecco: se Canfora facesse causa a chi gli dà dello stalinista, per il fatto che, a proposito dei gulag, continua a fare distinguo e a minimizzare i crimini del comunismo, forse si potrebbero mettere finalmente in luce le molte, ancora troppe reticenze della sinistra su socialismo reale e dintorni.
 
Io non saprei dar torto a Luzzatto. Mi chiedo però se il solo fatto di distinguere, il solo fatto di dire ad esempio che nazismo e comunismo non furono la stessa cosa equivalga a una minimizzazione degli orrori del socialismo reale. Forse no, anche se – ripeto – nei fatti Luzzatto ha ragione.