Su Lipperatura si legge un bell’articolo di De Michele su Deleuze e Pasolini. In quattro punti, che commentano quattro proposizioni di De Michele, ho aggiunto qualche brevissima considerazione. Il quinto ancor più brachilogico e criptico punto si legge solo qui, perché non c’entra più con De Michele Deleuze e Pasolini.
1. “Il linguaggio sarebbe una sorta di staffettista che informa, cioè passa i contenuti da un parlante a un ascoltatore”.
Il linguaggio non è semplicemente una forma in cui passa senza che nulla gli capiti il contenuto: d’accordo.
2. “È proprio Pasolini a fornire gli argomenti decisivi nelle sue analisi su Dante”
Beh, questa è un po’ forte: è ‘anche’ Pasolini, magari.
3. “il linguaggio non va da un percepito a un detto, ma da un dire a un dire”
Questa proposizione è quella filosoficamente più impegnativa. La domanda è: c’è un percepito di qua, e c’è un detto di là? No. Non basta dire che si va da un dire a un dire, senza capire come ci si ficchi dentro il percepito. E tutto sarebbe perduto, se il percepito rimansse al di qua, e a nulla servirebbe moltiplicare i livelli linguistici. Se De Michele osserva giustamente al punto 1 che il linguaggio non si limita a passare i contenuti, qui bisogna pure che osservi che il ‘percepito’ non si limita ad essere il contenuto amorfo che il linguaggio veicola. L’impegno ‘critico’ sul linguaggio deve insomma riguardare anche quello che De Michele chiama il ‘percepito’. E infatti Pasolini interessa a Deleuze, mi permetto di aggiungere, perché i suoi segni non stanno sul piano esangue (e già irregimentato) di un codice linguistico, ma sono la realtà stessa (“la lingua della realtà”) “non linguisticamente formata […], ma semioticamente, esteticamente, pragmaticamente formata” (G. Deleuze, L’immagine-tempo).
C’è un sistema delle immagini e dei segni “indipendentemente dal linguaggio in genere” (ibid.); c’è una semiotica più ampia della semiologia, che studia i segni senza ricondurli a determinazioni “già relative al linguaggio". La realtà ‘parla’: e questa parola non è una parola.
4. “Non c’è bisogno di rimasticare oscure frasi di un filosofo tedesco coi calzoni alla zuava per sapere che dove c’è pericolo, là c’è anche ciò che salva: basta leggere Pasolini”. Questa proposizione serve forse per concludere ad effetto, ma serve solo a quello.
5. Ma poi la realtà, di sotto ai linguaggi e alle istituzioni che la imbrigliano, ‘parla’? Bisogna che parli, e bisogna davvero dargli la parola? (Prego di fare attenzione: la realtà che non parla non è il ‘percepito’ di qua, di contro al detto di là: ma è casomai ciò che di là – noi siamo già sempre transitati di là, nella parola – resta pur sempre di qua. E tace. E a volte accusa. A volte splende. A volte s’inabissa e scompare, in-differente al detto)