Archivi del giorno: novembre 6, 2005

Al Foglio remano contro (uno scoop mancato)

Pagina de Il Foglio (a firma di Giuseppe Scaraffia) dedicata a Denis Diderot. Per quanto sia ben scritta, non ho proprio capito perché Diderot sarebbe il padre illuminista dell’ateismo devoto, come dice il titolo della pagina. (Se lo fosse, sarebbe uno scoop!)

Comunque, devo supporre che sia perchè nell’Entretien d’un philosophe avec Mme la Maréchale de ***, "vertice del suo [= di Diderot] pensiero etico", La Marescialla chiede: "siete voi quello che non crede in niente?". E Diderot: "proprio io". La Marescialla: "Però la morale è quella di un credente"; Diderot: "Perché no, quando si è un uomo onesto?"[…]. "Insomma, cosa ci guadagnate a non credere?". Diderot: "Proprio niente, Signora: si crede forse perché c’è qualcosa da guadagnare?".

Ora, non so se Scaraffia abbia ben compreso la citazione di Diderot, ma se l’ha ben compresa, ha giocato davvero un brutto tiro al suo ateodevoto Direttore. Perché quel che Diderot dice è press’a poco: la religione non mi serve per essere un uomo onesto. La virtù trova premio in se stessa. La stessa cosa pensavano Socrate, Pomponazzi e Spinoza, e nessuno dei tre mi pare sia un campione dell’ateismo devoto (della devozione con o senza ateismo, direi). Se poi uno legge anche il resto della citazione – la Marescialla che confessa che sì, lei è credente, e "presta a Dio per ricavarne un utile", mentre Diderot "dà a fondo perso" – vi trova pure l’affermazione della superiorità della morale laica rispetto a quella cristiana (ovviamente, dal punto di vista del credente, vi trova magari l’orgoglio luciferino della ragiona autonoma).

Se l’ateo devoto deve fare come se Dio credesse perché conviene (è il senso immediato della scommessa di Pascal, richiamata a questo proposito da papa Ratzinger), il testo di Diderot dice esattamente il contrario, che, convenga o meno ("dò a fondo perso", dice), bisogna fare quel che bisogna fare. Il testo di Diderot dice: la religione non mi serve. Non ho bisogno della religione per essere quello che sono.

Ma Scaraffia (o Ferrara) hanno forse letto le parole di Diderot, parole come "senza credere ci si comporta quasi come se si credesse" e hanno preso il contenuto senza riflettere sul suo senso. Diderot sta casomai dalla parte di Bayle, dell’ateo virtuoso, non dell’ateo devoto. E se il contenuto della morale razionale coincide per lui, in termini di virtù, con quello della morale religiosa, è perché è razionale, non perché è religioso. L’ora in cui si dovessero separare (l’ora di Giordano Bruno), chi volesse avere Diderot per padre illuminista, seguirebbe senza difficoltà la ragione, non la religione. Convenga o meno

Ricordi

E’ domenica, e c’è tempo per un paio di sciocchezze. Anch’io non ho resistito. I miei compagni di liceo, al quinto anno, erano solo tredici (in quarta ginnasio partimmo in ventinove, e in primo liceo ci furono quattro nuovi ingressi). Ricordo nome e cognome di tutti e tredici (non ci vuol molto, in verità). Cerco su google, tra virgolette: prima il nome e poi il cognome. Compaiono in sette (più una, di cui non so nulla e perciò non sono sicura che sia lei): due giudici, due medici, un segretario comunale, un gornalista, una dirigente di conservatorio. Tutti compaiono in ragione della loro professione, senza nessuna nota personale. La qual cosa mi deprime un po’.

Negli anni del liceo, elessi senz’altro, allora e per sempre, a verso più triste di una canzone questo di De André (Un malato di cuore): "e mai poter bere alla coppa d’un fiato ma a piccoli sorsi interrotti" (a proposito del giochino circolato in rete: verso, non canzone intera).

Infine, ho provato a estendere la ricerca a compagni delle scuole medie. Uno in particolare, nato nella stessa clinica salerniatana in cui nacqui io, lo stesso giorno, lo stesso mese, lo stesso anno. Dell’ora, non eravamo sicuri, se fosse nato prima lui o prima io. Ho cercato su Google. E’ morto l’anno scorso in un incidente stradale, cadendo dalla moto, perdendo il casco, sbattendo la testa, slittando sull’asfalto, e finendo travolto da un auto che sopraggiungeva. Faceva il sommelier, e ora c’è un premio in suo ricordo.

Moscato passito di Pantelleria

(A grande richiesta torna Walter. Degustate, gente, degustate!)

Terra infinita in cui a più nodi s’intrecciano i saperi, quella di Sicilia. Ben lo sappiamo: nel richiamo mediterraneo del ‘logos’ greco resta inscritta la trama delle voci arabe, il tratto nordico dei normanni. Ed è quel che si scorge nelle tante contaminazioni dei profili, nelle geometrie delle architetture, fra i volti e i pensieri. Ne scaturisce sempre un senso acuto della differenza, come un esercizio della distanza in virtù del quale lo sguardo meglio s’adatta a penetrare le cose. Come l’occhio che si scopre dotato d’una innata attitudine metafisica, a voler sempre sogguardare l’urgenza d’un fondo nascosto. Direi che anche i vini di Sicilia conservano questa vocazione al trascendimento. E poi, se davvero – come amava dire Veronelli – il vino altro non è che “il canto della terra verso il cielo” quale terra mai potrà rivendicare a sé tale privilegio più d’ogni altra, se non quella di Sicilia? La Sicilia, poi, è anche terra di miti e culti misterici, sicché nell’indagare le origini di un vino come il Moscato passito di Pantelleria non si poteva che incontrare un mito. Un mito inquietante, peraltro, come quello orientale della dea Tanit, forse importato nell’isola dai fenici. Pare che proprio con le uve ‘zibibbo’ – da cui ancor oggi il moscato passito si produce – fosse ricavata la bevanda consumata durante i riti celebrati in onore della divinità, che per dispensare la fecondità esigeva sacrifici di sangue.
Fra le pietre vulcaniche dell’isola di Pantelleria, esposte al sole violento e fra muriccioli che ne proteggono la crescita dai venti dell’Africa, le viti basse dello zibibbo (nel nome ben s’indovina l’ascendenza araba) maturano donando agli acini una straordinaria concentrazione zuccherina ed una fitta tessitura d’aromi. Un vino che certo avrebbe potuto rivaleggiare con il nettare degli dei. Le tecniche attuali di produzione non si discostano molto dagli antichi procedimenti, quando dopo aver raccolto i grappoli maturi li si esponeva al sole su graticci, favorendone il lento appassimento. Divenuti secchi, gli acini venivano introdotti in giare e ricoperti di mosto, li si spremeva dopo alcuni giorni ricavandone un liquido cui veniva aggiunto il succo di altra uva fresca precedentemente esposta al sole. Infine si lasciava invecchiare il vino in vasi di terracotta. In una terra per tanti versi ostile come Pantelleria ci sono oggi vignaioli capaci – compatibilmente con gli ovvi mutamenti del tempo – di far rivivere questo lavoro arcaico, riuscendo così ancora a restituirci tutta la complessità di questo grande vino.
Il Moscato passito di Pantelleria mostra alla vista un profondo colore d’ambra, mentre i profumi sono ampi e avvolgenti, con note aromatiche che si possono definire senza dubbio seduttive (vi si colgono tra l’altro richiami olfattivi che si avvicinano alla frutta secca, ai datteri, alle albicocche). Il sapore è opulento, d’una dolcezza piena e persistente. Ha mediamente 16-17° di alcol e buona capacità d’invecchiare.
Veniamo agli accostamenti. Inviterei a bere il Moscato passito di Pantelleria – che può con onore essere annoverato fra i vini da meditazione – accompagnandolo con la ricerca delle tracce lasciate dalle religioni dei misteri (Eleusi, Dioniso, l’orfismo), e descritte ad esempio da Pausania nella sua ‘Periegesi della Grecia’. O comunque sarebbe suggestivo muoversi fra i miti – ricorrendo semmai alla Biblioteca di Apollodoro – riuscendo forse ad afferrare le origini orientali di alcune divinità greche arcaiche, riconoscere il volto di Tanit in Demetra e Persefone.
Con riferimento più esplicito alle letture filosofiche, proporrei ancora una volta un cammino che si concentri sulla soglia fra ‘sophia’ e ‘philo-sophia’. Dagli oscuri frammenti dei presocratici al divino padre Platone, soffermandosi su di un dialogo come il Simposio, ad esempio.
(by Walter)