Archivi del giorno: novembre 25, 2005

Campagne

Dopo aver letto questo fondo dell’Elefantino, mi sono convinto che fin da domani l’ateo-devoto Direttore si lancerà nella più spettacolare campagna che mai giornale abbia condotto per l’uso di contraccettivi. Massiccia, martellante, anticlericale.

La carica dei centoundici

Io ho sempre pensato che il tasso di coscienza civica di un paese (parlo proprio di paese) si misura anche dal numero dei medici impegnati nell’amministrazione. (Si misura in ragione inversa, ovviamente). A Baronissi il sindaco è un medico, il vicesindaco è un medico, il presidente del consiglio comunale è il responsabile di un’associazione di volontariato che (tra le altre cose) manda in giro le ambulanze, e il capogruppo di maggioranza è un medico. Due di questi sono nel mio partito. In maggioranza ce ne sono almeno un altro paio. Sono tutte ottime persone, per carità, il che però non cambia la sostanza della cosa.

Che a Messina si illustra magnificamente. Straordinaria performance, quella dei messinesi, che nelle liste elettorali di medici ne hanno mesi 111. Centoundici. Chapeau.

i diritti dell'uomo e Gilles Deleuze

Le vie della rete sono infinite, e così uno stralcio dell’abecedario di Deleuze sui diritti umani, apparso su Alias di sabato, giunge fino a me, grazie a pirobutirro (e a tomm, che me l’ha segnalato). Ora, cosa dice Deleuze? Questo:
"I diritti dell’uomo: invochi i diritti dell’uomo e che cosa significa? Significa dire ai turchi che non hanno il diritto di massacrare gli aremeni [Deleuze si riferisce in realtà al conflitto tra armeni ed azeri nel Nagorno-Karabahk: siamo nel 1993]. D’accordo, non ne hanno il diritto, e allora? Siamo forse andati avanti, così? Sono veramente degli ottusi. Oppure sono talmente ipocriti, questi teorici dei diritti dell’uomo, e filosoficamente sono il nulla. E’ la creazione del diritto, non sono le dichiarazioni dei diritti del’uomo, è la creazione della giurisprudenza. Ecco cosa esiste. Quindi, lottare per la giurisprudenza".
(il resto del ragionamento di Deleuze lo trovi qui, a commento della visita di Bush in Cina).
 
Perfetto. Lottiamo pure per la giurisprudenza. Cioè, mi pare di capire: perché si dia una situazione in cui gli armeni non siano più massacrati dai turchi, o perché i turchi non siano effettivamente in grado (o messi in condizione di) massacrare gli armeni. Quel che però non capisco, è perché i turchi non debbano più massacrare gli armeni.
La dottrina dei diritti dell’uomo immagino voglia fornire una risposta a questa domanda. Ma il punto è che qualunque sia questa risposta, quella dottrina o un’altra, uno potrebbe replicare come Deleuze: invochi questa dottrina e che cosa significa?. Dici che questa cosa non si può fare, d’accordo: e allora? E se la faccio (la fanno) lo stesso? Sarà mica perché i tuoi principi dicono no, che io (loro) mi sto (si stanno) fermo/i e buono/i.
Però ora devo aggiungere: in un certo senso Deleuze ha ragione. Ma solo in un certo senso. Deleuze dice una cosa che un tempo si diceva così: uno fa una cosa, e le ragioni (i diritti) vengono dopo. Figuriamoci se possono essere presi per un fondamento filosoficamente valido. Filosoficamente sono il nulla. E certo, ma politicamente no. Perché le società democratiche hanno nel loro funzionamento, nel loro ‘concatenamento’, questa finzione, che si debbano dare prima ragioni su cui fondare la giurisprudenza: persino i massacratori invocano da qualche parte il relativo diritto. E’ una finzione che ha la sua efficacia, e questa efficacia non mi dispiace. Non ci scommetto sopra una filosofia del diritto, ma scommetto che se strappo la finzione, i turchi massacrano gli armeni con qualche facilità in più.

Scienza e filosofia

tu dici che non capisci questa cosa dell’impossibilità di definire le parole prima di usarle (come se definire le parole non fosse un modo di usarle). io invece questa cosa di definire le parole prima di usarle non la capisco. Forse vale solo per i linguaggi interamente formalizzati, e per le parole il cui significato viene stipulato proprio grazie alla definizione. Ma più in generale, e di nuovo, io capisco bene che definire le parole, eliminare le ambiguità, rigorizzare l’uso dei termini sia di grande giovamento alla conoscenza scientifica: capisco bene che sia efficace, ma in filosofia, semplicemente, non basta. O meglio: suppone un mucchio di cose, una certa ontologia, una certa idea della verità, l’idea che in nessun punto il mondo sia intramato di parole, e le parole invischiate con le cose, l’idea che si possa tagliare il cordone ombelicale con l’essere naturale dal quale l’attività simbolizzatrice proviene e approdare ad una lingua perfetta, ecc. ecc. Ora mi dirai che queste mie ultime espressioni sono evocative: in effetti, non ti ho definito né essere né verità né altro, però confido che tu mi abbia inteso comunque. E per colmo di oscurità aggiungo qui un’immagine: l’idea sottesa è che le parole stiano dirimpetto alle cose, e in qualche maniera vi corrispondano senza ‘toccarle’, e invece io penso che il loro rapporto con esse sia laterale, ambiguo fino all’equivocità, sfuggente, e non per un malaugurato difetto delle lingue naturali che il rigore scientifico impone di eliminare, ma per essenza. (Il che non vuol dire che la scienza non faccia bene quel che fa, né saro io a insegnargli quel che deve fare).
per conoscenza in senso forte intendo quel che intendeva Platone, e in generale intendono i filosofi, e che opportunamente modificato in senso fenomenologico potrei dire così: è conoscenza quel sapere che concerne l’ente nel suo senso d’essere. Non è che avessi in testa una cosa del genere quando ti ho risposto, caro Filter, poiché mi interessava solamente farti osservare che l’idea della conoscenza come ‘credenza giustificata’, che tu esponi, contiene una restrizione del senso di ciò che è conoscenza – che è ovviamente legittima, ma che non impedisce che in filosofia si ponga il problema di ‘ciò’ cui quelle restrizioni volgono le spalle. E’ chiaro che io non ho esposto le basi di una conoscenza forte, ma solo il problema. Dirò di più: io ho dato della conoscenza in senso forte una (pseudo)-definizione che intendo abbia un senso puramente formale: poiché io una conoscenza del genere non ce l’ho. Ho la dimensione che però il problema di una conoscenza del genere mi apre.
Che del resto in filosofia non si riesca a far volare gli aerei o a sintetizzare molecole ti prego di credermi: i filosofi lo sanno. Ma che il sapere scientifico sia più efficace del sapere filosofico (che resta per me – come si sarà compreso – del tutto problematico) non toglie all’interrogazione filosofica circa il senso dell’essere nulla del suo carattere di domanda, e non è che la mancanza di una risposta ’scientifica’ o l’aspetto di pseudo-problema che questa domanda ha agli occhi dello scienziato che vuole fatti e definizioni toglie un’oncia del suo peso alla domanda filosofica. Che la domanda filosofica (e il sapere che ‘in idea’ gli corrisponde) non abbia senso scientifico significa solo che non può essere spesa entro le condizioni che la scienza (del tutto legittimamente) definisce come proprie del suo metodo (e della sua idea di conoscenza); poiché però quelle condizioni sono oggetto di domanda, non è in base ad esse che si decide ultimamente il non senso dell’impresa filosofica.
Alla tua seconda domanda (se io intenda che sia problematica la conoscenza scientifica) credo di aver risposto: no, non intendo questo. Intendo che, nel quadro da te esposto, io non riesco a trovar posto per la distinzione fra conoscenza filosofica e conoscenza scientifica. Mi pare (ma forse mi sbaglio) che tu possa dare posto solo alla conoscenza scientifica, e semmai ad una conoscenza filosofica ausiliaria e del tutto ancillare, sicché nel tuo quadro proprio non è problematico cosa sia la conoscenza scientifica: io lo accettavo allora per ipotesi, e mi domandavo che ne è della filosofia in un tale quadro, e perché tu parli di conoscenza scientifica e di conoscenza filosofica quando poi affermi che il conosciuto è uno, e una la conoscenza in senso proprio).
(A questo proposito ti domando: cos’è un metodo di giustificazione che la filosofia abbia in proprio e che la scienza non abbia?)
Più sotto dici che la filosofia è conoscenza dei fatti. Certo, ma di nuovo, il punto è che cos’è un fatto: non pretendo mica (e nessun filosofo ha mai preteso, neppure l’oracolare Heidegger) che la filosofia sia puro (mero) gioco di parole. Ma su questo ho già scritto: faccio soltanto osservare che solo a condizione di aver precompreso cos’è che appartiene al novero dei fatti, puoi trovare che Heidegger si limiti a giocare con le parole, e non invece a mettere in questione quella precomprensione.
E questo credo contenga una risposta anche ai tuoi punti b) e c).
In breve: io non dico che la religione sia conoscenza di fatti pubblici, se per fatti pubblici intendi qualcosa come l’ebollizione a 100° dell’acqua, se cioè tutti i fatti pubblici (espressione che suppongo sia per te ridondante, dal momento che se vi fossero fatti privati non vedo perché non li si dovrebbe conoscere, e perché non sarebbe conoscenza quella che li concerne) siano fatti allo stesso titolo dell’ebollizione. Ma dentro la dimensione che ho prima ritenuto che sia aperta per la filosofia, escluso per certo che la religione sia conoscenza nel senso della tua conoscenza dei fatti pubblici, non posso escludere che sia conoscenza. D’altronde, il mito è per ogni antropologo che si rispetti una forma di conoscenza del mondo: perché non dovrebbe esserlo la religione? Né il mito né la religione mettono a disposizione fatti pubblici, ma il fatto pubblico è per te semplicemente il correlato oggettuale della conoscenza, e la conoscenza il correlato soggettivo del fatto pubblico (non hai detto forse che ti esprimi circolarmente? che pubblico significa ‘passibile di conoscenza’?), sicché se mito e religione non esibiscono di simili fatti è solo perché…sono mito e religione, e non conoscenza come conoscenza di fatti del tipo dell’ebollizione dell’acqua.
Quest’ultima battuta ti farà forse preoccupare, per la deriva relativistica che contiene. Non ci posso far molto, temo, però consentimi una riflessione ‘genealogica’ che si sgancia in ultimo da questa serie di commenti: perché si teme tanto una simile deriva? Cosa si teme veramente? Perché lo scienziato sente il bisogno di dire che il Sole è oggettivamente l’astro intorno a cui la ruota terra, e che l’oggettività di questa verità è assoluta – qualunque cosa ciò significhi, e quel che almeno significa è che va escluso come mero errore e superstizione che il sole si ferma quando Giosué dice ‘fermati!’? Crede davvero lo scienziato che senza mettere un simile punto fermo i filosofi o i profeti si metterebbero dai balconi a esclamare ‘fermati,o sole!’? Teme qualcosa del genere? Possibile? (Perché lo scienziato tiene di regola per stupido – o per illuso… – il filosofo che non riconosce come solo e unico il tipo di conoscenza che lo scienziato frequenta?) Perché pensa che le sue proposizioni sarebbero più forti, più efficaci, più inattaccabili, se pensassimo tutti che il sole sarebbe ed è esattamente quel corpo che l’astronomo dice che sia, anche se al mondo non ci fosse mai stato un solo uomo, e anche se non ci fosse mai stato un discorso scientifico uno sul sole? Perché – per dir meglio – se il filosofo dice che gli stati di cose cui si riferiscono tutte le proposizioni scientifiche sono ‘incurvati’ dal fatto che sono ‘detti’ tali in proposizioni, sono stati-di-cose-‘per’-proposizioni-scientifiche, lo scienziato sospetta subito derive relativistiche, idealistiche, prospettivistiche, come se questo significasse che il filosofo può inventarsi i suoi ‘stati-di-cose’ personali, altri e diversi da quelli accertati dallo scienziato? Perché teme che le prospettive si moltiplicherebbero, come se un giorno ad un congresso di astronomi possa mai presentarsi qualcuno che, senza uno straccio di metodo o di prova, affermi che il sole si ferma se lui gli grida di fermarsi? Il filosofo vede (crede di vedere) quella curvatura: può sbagliarsi, e può anche sbagliarsi a nel prenderne le misure, ma questo non significa che se ne possa liberare a piacimento, né che egli possa di punto in bianco dire quel che vuole del sole.
(Tra il dire in un solo modo com’è fatto il sole e il dire a piacimento c’è la lingua degli uomini).