Archivi del giorno: dicembre 1, 2005

Leggete fino al post scriptum, prego

Bella intervista de Il Foglio ad Alain Finkielkraut (= F.). C’è di tutto: vediamo.
 
In prima pagina, si annuncia il nuovo libro di F., “un viaggio controcorrente nelle idee dominanti del nostro tempo”. La colonna in prima si chiude sull’inquietante paradosso della “modernità tardiva”, in cui le promesse si sono trasformate in minacce. E qui comincia il problema: come mettere un freno all’autonomia del soggetto, “idea costitutiva della modernità”?
 
Cambiamo pagina, prima colonna: c’è la cultura greca e cristiana, che è una cultura del limite [in verità pensato in maniera un po’ diversa dall’una e dall’altra: vedi post scriptum], e poi ci sono i moderni, che di limiti non ne vogliono sapere. C’è lo sport antico, spazio di una realizzazione compiuta dell’umano, e c’è la parossistica caccia al record dello sport moderno. Marina Valensise a questo punto commenta: “sorprende l’affinità logica , gli stessi riferimenti intellettuali, la stessa preoccupazione per il ritorno a un’idea semplice e profonda come la verità [sott. mia], tra le tesi di un pensatore laico, ebreo senza Dio, come F., e le posizioni dell’ultimo Papa Wojtyla e del nuovo pontefice, Benedetto XVI”.
 
Sorprende, dice la Valensise. Poi cambiamo colonna, e leggiamo:
“Non dispongo di un concetto di natura”: Valensise, il Papa è d’accordo?
“Da qui a tornare a San Tommaso d’Aquino c’è un passo che non mi sento in grado di compiere”: il Papa è d’accordo? I riferimenti intellettuali sono gli stessi?
(Poi Valensise trova nuovo, postmoderno il modo in cui F. pensa la nascita della scienza, e quello le risponde: beh, nuovo, lo diceva Husserl giusto cent’anni fa).
 
Ma non finisce qua. Cambiamo colonna: “Il guaio è che noi moderni, adesso, stiamo vivendo un momento angosciante, in cui si eclissa il relativo della letteratura e dell’arte”. Valensise!!!, il Papa è d’accordo? Il Direttore è d’accordo? Si eclissa il relativo della letteratura e dell’arte! Il relativo! Una bestemmia sulle pagine de Il Foglio! Non poteva F. dire:
si eclissa un’idea semplice e profonda come la verità (assoluta)?
 
Poi F. prende la china che piace all’ateodevoto Direttore (china invero già preannunciata da quel ‘momento angosciante’). C’è il rap. Finkielkraut osserva: “Dicono [dicono chi?] che tutto è relativo, e poi dicono che il rap è bello”. È giusto: non puoi tenere i piedi in due scarpe. Non c’è né bello né brutto, se tutto è relativo. Ma non è vero affatto che per dire che il rap è brutto deve esserci il bello assoluto. Per questo, basta “il relativo della letteratura e dell’arte”, che non equivale affatto al tutto è relativo, benché non goda della verità assoluta.
 
Ultima colonna, la più impegnativa (forse l’unica che mette veramente conto di discutere). Valensise torna alla carica: il relativismo, non c’entra con l’uguaglianza, questa fissa dei moderni? E qui F. tira finalmente fuori il motivo per cui i francesi si incazzano con lui. Dice prima: “l’uguaglianza è il fondamento stesso della morale”, poi però: genera mostri (vedi comunismo), e soprattutto cose come la scuola democratica, in cui tutti possono discutere di tutto, permanentemente, e tutto è livellato. Uguaglianza sì, livellamento culturale no; fine delle differenze no, sane discriminazioni (cioè differenziazioni) sì. E l’incapacità di dire no, di discriminare e differenziare fa sì che non possiamo dire no (ad esempio) al matrimonio omosessuale senza passare per omofobi. Ha ragione F.? La risposta al prossimo post.
 
(Solo ora mi sono ricordato che non devo fare post troppo lunghi).
 
P.S. Tutto quello che F. dice è abbondantemente compatibile con il ritorno al paganesimo. Anzi: va meglio col paganesimo che non col cristianesimo.

Allergie

Letto il pezzo di Marco Beccaria su Leftwing (Tommaso e la forma della verità), costatogli una squalifica di sei mesi, gli ho scritto: senza sbavature, ma contiene tutto ciò cui sono allergico in filosofia. Mi ha chiesto perché, ed ecco (a malincuore, perché il post riesce lungo, e non si dovrebbe, perché nonostante la lunghezza riesce insufficiente – preciserò, se occorre, nei commenti – e perché non vorrei che le mie allergie passassero per errori altrui, che non è).
 
Prendete allora come un punto di partenza, dice Marco, che per Tommaso Dio esiste e la ragione non può divergere dal revelatum: punto di partenza, non d’arrivo. Quel che ora Tommaso dice partendo di qui “acquista una sua autonomia”. E cosa dice? Dice Tommaso che “esiste il vero assoluto, non esiste un’assoluta, completa, incontrovertibile conoscenza umana di esso”. (Poi Marco prosegue, e fa vedere che l’ermeneutica viene da qui).
Ora, la prima considerazione ovvia è che non vedo come abbia acquistato una sua autonomia il primo membro di questa proposizione: esiste il vero assoluto. E se non ha acquistato autonomia il primo membro, il punto di partenza s’è rivelato punto d’arrivo: cioè non si è fatto un passo oltre l’orizzonte da cui muove (e proviene) il pensiero tomista.
Ma questo è il meno (per me; per molti basta già), perché io non ho mica difficoltà a concedere a Marco che esiste il vero assoluto, a condizione di comprendere cosa significhi ‘vero assoluto’. (Allo stesso modo, io non ho difficoltà a concedere che Dio esiste, a condizione di comprendere cosa significhi).
L’allergia viene allora dal fatto che questa storia della verità e dell’approssimazione infinita della verità è sostanzialmente moderna, piantata com’è sul soggetto che, maledizione!, perduta l’evidenza cartesiana non acchiappa mai la verità. Ma da dove viene questa storia, com’è che si sia allestita questa scena, rimane del tutto impensato. E invece bisogna pensarlo, tanto più che in una scena come questa il ‘vero assoluto’ non ci può stare (Hegel direbbe: se sta di là, solo di là, non è assoluto).
L’allergia viene dal fatto che qui riesce tutto troppo facile: la verità di là, e io di qua che m’arrabbatto. Ma là, dove? Ma chi ha posto – e come – questo di qua/di là?
L’allergia viene dal fatto che così non viene pensato proprio nulla, ma proprio ciò che deve essere pensato viene saltato. Si fa credere che il problema è come avvicinarsi, mentre il problema – per il pensiero – è come c’è saltata in mente tutta questa roba. 
C’è un ad infinitum, ed è – al solito, in filosofia – un cattivo infinito. Perché delle due l’una: o la distanza che ci separa dalla verità è ‘vera’ essa stessa, e allora bisogna pensare ad una verità che tenga dentro questa distanza e non che sia a incolmabile distanza, oppure è ‘falsa’ (fittizia, illusoria, soggettiva: sta fuori dello statuto della verità) e allora non è affatto infinita, l’abbiamo già percorsa tutta per stabilire che essa distanza cade fuori dal vero.
Tutto ciò cui sono allergico in filosofia, ho detto. Il sottinteso è, ahimè, di tipo socialfascista (si scherza, eh!). Perché in filosofia io sono continentale, cioè, per la vulgata, ermeneutico. Io – urka!: lo dico con le parole del Papa: sono per una “razionalità diversa”. Il che significa che questa roba, che tutto è interpretazione (tutto cosa?), mi dovrebbe piacere, mi dovrebbe riuscire affine, familiare, congeniale.
Proprio perciò me ne debbo guardare bene. (Debbo guardarmi bene pure dal Papa, si capisce).
 
P.S. Marco scrive che la sua è una "considerazione storica". La mia, no.

Incursione e riflessione

Dopo l’incursione e regressione, vedo Valerio Magrelli mettere Comunque bella di Battisti al secondo posto della sua personale playlist (primo Giovanni telegrafista di Jannacci), e aggiungere:
"la poesia è ginnastica a corpo libero, la canzone ha bisogno di un attrezzo che è la musica" (sul magazine del corriere, due o tre settimane fa)
 
Detto altrimenti: la ricerca di un puro gheriglio poetico dentro il guscio musicale è sviante, e cade da sé
 
(L’originale è di S. Givone, in Dostoevskij e la filosofia, a proposito della questione se sia possibile leggere filosoficamente Dostoevskij, estrarre dai suoi libri un sistema filosofico. Givone scrive che nei romanzi “è sempre qualche particolare di per sé insignifcante sul piano logico che inton e quindi determina il senso delle affermazioni e degli accadimenti […]. La ricerca di un puro gheriglio concettuale è sviante, e soprattutto cade da sé”)