“Innumerevoli e diversissime sono le specie dell’uomo religioso. Si va da quello che furibondo e minaccioso ti dà appuntamento al giorno del giudizio, al mite e dolce che ti promette il perdono universale, in grazia, dice, dell’infinita misericordi divina (io preferirei dire, invece, di un opportuno divino buon senso e di una coerenza responsabile: ma a conti fatti, fa poi lo stesso). E poi c’è un’ulteriore varietà, non frequente ma neppure rarissima, che definirei dei religiosi delusi e perciò accuratamente nascosti, ammantati come sono di un rancore insuperabile per il divino che non si manifesta e non si rende loro accessibile. Essi in realtà lo pretendono e impiegano ogni cura nel mostrare e dimostrare che invece non si vede, che non c’è una straccio di ragione plausibile per questo mondo efferato e per il dolore che il vivere comporta; nel qual scopo impiegano tesori di ragione e di sottilissimo ingegno, o, quando sia il caso, quel sarcasmo che rese celebre Voltaire, quando diceva, non senza condivisibile motivo, che se qualcuno vuole convincerci che questo mondo, proprio questo mondo, è capillarmente e universalmente retto dalla provvidenza divina, ebbene bisogna rispondere a costui che è un gran sciocco o un gran birbone.
Questi specialisti del senso (cioè del non-senso) […] denunciano bensì la finitudine di ogni destino terreno, ma alla finitudine poi non si attengono davvero, poiché la confrontano con la mancanza di collegamento ‘comprensibile’ al suo opposto. Vivono, ma subito fanno notare che moriranno; godono, ma subito aggiungono che soffriranno, e insomma misurano ogni istante con la sua futura impermanenza, traendo motivo da ciò della sua insensatezza. Al che viene voglia di chiedere loro il perché: perché mai il finito, se davvero è tale, dovrebbe non finire, e perché mai il tempo del finito non può essere accolto nel suo limite determinato e costitutivo, ma deve subito essere appaiato, ‘mediato’, commisurato all’immagine del tempo futuro e dell’opposto prevedibile? Atteggiamento che ricorda quel tale che, dopo aver ben cenato gustando e delibando, si indignava e si adombrava, poiché l’oste, facendo la sua parte, gli presentava il conto”.
(Il testo è di C. Sini, dalla
prefazione a M. Fortunato,
Il mondo giudicato. L’immediato e la distanza nel pensiero di Rensi e di Kierkegaard, Mimesis 1998. In corsivo c’è la sola parola che mi dà da pensare: che vuol dire
accogliere?, si tratta semplicemente di
accettare, di
farsi consapevoli?, è questione semplicemente psicologica, o ci vuole qualche cosina in più? Per quella parola, non mi affretterei a pagare l’oste. E certo non sarò io a guastarvi le feste: mangiate pure).