Archivi del mese: febbraio 2006

Avverbi difficili

Il Papa ha ieri "ricevuto in udienza i partecipanti all’Assemblea Generale della Pontificia Accademia per la Vita e al Congresso Internazionale sul tema L’embrione umano nella fase del reimpianto”, e ha detto: "L’amore di Dio non fa differenza fra il neoconcepito ancora nel grembo di sua madre, e il bambino, o il giovane, o l’uomo maturo o l’anziano. Non fa differenza perché in ognuno di essi vede l’impronta della propria immagine e somiglianza. Non fa differenza perché in tutti ravvisa riflesso il volto del suo Figlio Unigenito". 

La cosa sta (comprensibilmente), su molti giornali. A me però piace riportare quest’altro passaggio, a proposito dell’origine della vita umana, "un mistero il cui significato la scienza sarà in grado di illuminare sempre di più, anche se difficilmente riuscirà a decifrarlo del tutto".

Difficilmente? Quindi il Papa non esclude che la scienza possa decifrare del tutto? Pensa che è difficile, ma che in fondo ce la si può fare? Il mistero non è allora detto che sia davvero tale? Insomma, che genere di prudenza c’è, dietro quest’avverbio? Cosa c’è che non va nell’affermazione: la scienza non potrà mai, ecc. per cui il Papa non ha osato pronunziarla? Cos’è, linguaggio politically correct?

(Fonte: Fides)

Left Wing: una frase in più

A causa dei problemi di connessione (il tecnico Telecom se n’è andato: in centrale ci sono 24 DB, alla prima presa di casa 20, alla presa alla quale è collegato il modem 18,5. Con 18,5 DB la connessione non cade mai: e voi, quanti DB avete?), non ho potuto inviare domenica una versione corretta dell’articolo uscito su Left Wing (Pera e gli zingari di Husserl), che per questo motivo riproduco qui. Siamo alla fine del pezzo, la frase che avevo aggiunto per maggiore chiarezza è qui riportata in neretto:

"Nel corso del ’900, la filosofia (dico la filosofia, perché Husserl lottava per la filosofia) ha portato con coraggio allo scoperto questo rovescio poco nobile della ratio occidentale. E ha considerato questa capacità di critica e di autocritica una sua forza, non una sua debolezza: la forza necessaria, per esempio, per evitare di costruire bastioni spirituali, che per gli europei stessi si sono già rivelate prigioni. È vero che la critica dell’eurocentrismo non può rimanere prigioniera del suo cieco rovesciamento; è vero che dell’Europa non deve restare solo un atto di dolore, ma serbare memoria del dolore rimane la più alta conquista di civiltà che l’Europa abbia raggiunto.
Ma ormai i promotori dell’appello si sono stufati. Gli zingari vagabondi per l’Europa stiano attenti: Pera li ha avvisati.
 
La goccia è Voltaire: quando ci vuole ci vuole

Per gentile concessione di

Solo per dire che non ho la connessione.

D'Orrico Moresco e il Novecento

 D’Orrico dice, sul Magazine del Corriere:
 
"Nell’estate del 2004, ‘improvvisamente’, lo scrittore Sebastiano Vassalli si è reso conto ‘che i grandi autori del secolo precedente: i Kafka, i Joyce, i Musil, i Céline, i Gadda, pur continuando a dirci molte cose della condizione umana, avevano cessato di essere ‘moderni’. Benvenuto nel Club, caro Vassalli, di quelli che più o meno improvvisamente si sono accorti che qualcosa non va più, che quegli autori, grandissimi, appartengono a un’altra dimensione e, in un certo senso, non sono più nostri contemporanei"
 
Antonio Moresco su Il primo amore, cita e replica:
 
"E’ una cosa piccola piccola, ma significativa. Finalmente l’hanno detta fuori dai denti, hanno mostrato quello che li rode! Hanno fatto un passo avanti davvero chiaro, dopo un uso tanto grottesco delle pagine culturali e delle loro sinergie, che va avanti da tempo. E’ qui che si voleva arrivare, a far fuori l’ingombro della grande letteratura che ci precede, la sua incontrollabilità e la sua forza di precognizione e di spostamento".
 
Poi aggiunge:
 
"C’è anche chi difende "Kafka & Co", (come Claudio Magris […]) ma con una postura umanistica e testimoniale rivolta soprattutto al passato, senza mostrare a fondo cosa c’è oggi, cosa succede oggi, di cosa c’è bisogno oggi, senza vedere quanto il nostro ruolo non debba esaurirsi nella difesa di un patrimonio culturale del passato, ma come sia qualcosa che continua ad avere ancora e sempre la sua necessaria e disperata urgenza”.
 
Fin qui starei con Moresco. Che poi però ci mette pure questo:
 
"Qui [in D’Orrico] invece si parla chiaro: "in Kafka & Co c’è qualcosa che non va più, appartengono a un’altra dimensione." Ben detto! Con questa idea mediocre, lineare, riduttiva e autoconsolatoria dello spazio e del tempo. E invece non solo "Kafka & Co", ma anche "L’Iliade", Dante, Shakespeare, Dostoevskij, Melville, Balzac ecc… ci sono infinitamente vicini".
 
E qui non sono più d’accordo. Primo: non mi pare sia problema di grandezza di Tizio o di Caio, del passato o del presente. Polemizzare su questo è mancare l’oggetto. Secondo: il problema è che Kafka & Co. per D’Orrico non sono più nostri contemporanei proprio perché non sono Shakespeare o Dostoevskij, Melville o Balzac (i quali sono sicuro che a D’Orrico appaiono più contemporanei di Kafka o Musil). Terzo: mettere insieme, in quanto grandi, Melville e Balzac, e Kafka e Musil, significa essere molto vicini, volens nolens, alla postura umanistica di Magris. Se invece si deve riconoscere a Kafka & Co la loro forza di spostamento è anche perché si sono spostati da Melville e Balzac (credo).
Sicché mi trovo a non essere d’accordo con D’Orrico (e come potrei esserlo? Musil non è più nostro contemporaneo? Che faccio, ridenomino il blog?), ma nemmeno con Moresco, che secondo me, aspri toni polemici a parte, finisce col non far vedere dove stia la forza di spostamento della letteratura del ‘900.
 
(grazie anche a georgiamada, dove ho trovato il pezzo di Moresco)

La crisi dell'Occidente e la tecnica dispiegata

Mi devo scusare, ma un guasto a non so cosa mi ha reso molto difficolto connettermi fino ad ora. E’ dall’inizio della settimana che la connessione va e viene. L’altroieri, al telefono con un operatore Wind che mi comunicava che mi era stato sospeso il servizio e che si erano rivolti a un’agenzia recupero crediti e che però non sapevano dirmi per quale credito poiché le bollette risultavano tutte regolarmente saldate (anche perché pago tramite addebito bancario) – l’altro ieri, quando l’operatore mi ha suggerito di chiamare io direttamente (io direttamente????) l’agenzia per sapere a quali crediti vantati da Wind si riferisse la loro azione di recupero, ho infilato la più scientifica serie di insulti che abbia mai profferito. All’invito dell’operatore ad essere cortese gli ho fatto osservare che lui era cortese per contratto, mentre io – visti i tristi precedenti – mi proponevo deliberatamente di offendere se non lui personalmente almeno la sua compagnia nella speranza di essere denunciato, portato in tribunale, arrestato dalla polizia postale o qualunque cosa mi consentisse di vedere in faccia un responsabile che sia uno del disservizio erogato (poiché nessun operatore è responsabile di alcunché, né ha mandato di mettere il cliente in contatto con un qualunque responsabile di qualunque cosa). Mi ha detto che questo non sarebbe mai successo. Ho detto purtroppo. Ma intanto, mentre mi diceva che avrebbe inoltrato il reclamo – che gli ho dettato nei termini più sprezzanti possibili e che in una successiva telefonata ho scoperto essere stato inoltrato con almeno sei ore di immotivato ritardo – scoprivo pure che da qualche parte sulla linea c’era un guasto. Ed eccoci qua, con tempi di connessioni la cui durata media è di circa 25 secondi.

(Io poi ci metto del mio, perché ho provveduto a disinstallare il modem interno del computer, e a perdere il relativo disco, in modo da rendermi impossibile la connessione tramite modem analogico).

(E come se non bastasse devo scrivere ancora la relazione per il 6 marzo, la settimana prossima ci sono ancora lezioni, c’è Massimo Donà a Napoli, e ho entrambi i figli con una fastidiosissima stomatite)

Cordially invite you

Region of Campania                                                                
Migrantes Foundation   
Italian Cultural Institute 

                    The Origins of Europe: Philosophy and Christianity 

Monday, March 6, 2006 at 6 p.m.
The Italian Cultural Institute of New York
686 Park Ave
R.V.S.P.  212 879 4242 Ext : 363

The round table will focus upon the question posed by Professor Vitiello
Special guest:
H.E. Archibishop Celestino Migliore
Permanent Observer of the Holy See to the UN

Prof. Vincenzo Vitiello.
Professor of Philosophy, University of Salerno

Prof. Massimo Adinolfi,
Professor of Hermeneutic, University of Cassino,

Introduction:
Prof. Vincenzo Pascale
Clinical Assistant Professor, Fordham University,

C'è grossa crisi

Ma c’è anche l’appello per l’Occidente. Poi me lo leggo con calma, ma confesso che con l’appello del Presidente Pera ho avuto sorprese fin dalle prime due, tre righe. L’Occidente è in crisi? E io che mi pensavo che quelli come Pera ce l’avessero solo con la debolezza europea! No: è in crisi pure l’America di Bush! Neanche l’America di Bush è "capace di rispondere alla sfida"! Pure l’America di Bush è "minata dall’interno"!

"Attaccato dall’esterno…minato dall’interno"! Ma qualcuno mi ricorda chi parlava così? Come è, come non è, ho paura che Il Presidente Pera, la Fondazione Magna Carta abbiano fatto di me una mina dell’Occidente!

 

 

VmatX, ovvero: dove non c’è una cosa mica deve esserci per forza uno spirito

Torno su un post di Angelita, Polemiche su Dennett, in cui sono discusse e criticate la recensione dell’ultimo libro di Dennett apparsa sul NY Times, Breaking the Spell: Religion as a Natural Phenomenon,e un paio di considerazioni da me riprese (non dalla suddetta recensione, ma da Maverick). Prima di prendere in considerazione le osservazioni di Angelita, preciso che quando ho scritto che sto, a naso, col recensore, mi riferivo al brano d’apertura della recensione segnalato da Maverick e da me citato.
Ma questo, come si dice, per la precisione.
Vengo ora ai punti in discussione.
1. Maverick ha osservato che se si vuol rendere ragione di una credenza, occorre che si cominci presentando la credenza così come la descriverebbe il credente (che ovviamente non significa assumere che ciò che il credente crede sia anche vero). Io ho scritto che questa osservazione mi sembra impeccabile. Se io credo che un asino voli ora sopra la mia testa, mi pare che chiunque voglia dare ragione di come mi sia potuta formare questa credenza debba spiegare proprio questo: che io credo (o dico di credere): che un asino vola. La sua spiegazione potrà pure dimostrare che quel che io credo sia un asino che vola è invece una mosca, oppure che io non credo propriamente che sia un asino volante, ma provo solo qualcosa come un senso di oppressione ‘dall’alto’ che descrivo malamente come un asino volante – qualunque cosa: ma dopo. Proprio perché, come scrive Angelita, si tratta anzitutto di caratterizzare l’oggetto di studio (la credenza religiosa), mi pare metodologicamente scorretto prendere le mosse da altro che non sia il modo con il quale il credente dettaglia la propria credenza. (Aggiungo: se così non fosse, il credente dirà che Dennett è stato bravissimo a spiegare…un’altra cosa). L’explicandum non è l’explicans, e va preso per quel che è.
2. Dennett – osserva Angelita – sta solo caratterizzando l’oggetto del suo studio quando dice che il credente crede in un agente supernatural. Infatti. Ma come si vede al punto 1, questa caratterizzazione non è adeguata. Ovviamente, nessuno impedisce a Dennett di dire che vuole spiegare questo genere di credenza, ma nessuno impedisce allo storico della religione di osservare che non è in questi termini che si presenta la credenza religiosa, e che dunque quel che Dennett spiega meravigliosamente è un’altra cosa.
Per il resto, né io né Angelita abbiamo letto il libro di Dennett, e quindi non sappiamo in che modo questa caratterizzazione intervenga nella teoria di Dennett. Ma faccio un esempio. Poniamo che Dennett ragioni così (so bene che non ragiona così: è un esempio). La credenza religiosa è credenza in un agente soprannatturale. Agenti soprannaturali non esistono. La credenza religiosa è una credenza irrazionale in ciò che non esiste e non può esistere. È, perciò, una patologia. Di essa bisogna dare conto al modo in cui si dà conto dell’insorgere di patologie come le allucinazioni. Dunque, ecc. L’esempio vuole mostrare solo che una certa caratterizzazione dell’oggetto di studio può orientare (e credo che orienti) l’ipotesi scientifica che deve darne conto.
3. Non io né Maverick ma il recensore del NY Times, Wieseltier, sostiene che se la ragione è un prodotto della selezione naturale, allora è tolto ogni credito all’argomento da essa ragione addotto a favore della selezione naturale. Credo che con ciò Wieseltier voglia dire: l’argomento in questione non sarebbe ‘vero’, ma sarebbe solo l’argomento ‘selezionato’ dall’evoluzione. D’altra parte Wieseltier osserva pure che anche qualora Dennett riuscisse a dimostrare l’origine naturale della credenza religiosa, non avrebbe per ciò stesso dimostrato che tale credenza è infondata. Angelita osserva: una volta Wiseltier sembra dunque considerare che lo scavo genealogico infici, un’altra volta invece che non infici ciò di cui dimostra le origini naturali.
L’osservazione di Angelita mi pare fondata. Tuttavia mi domando se Angelita e Dennett ritengano che una spiegazione naturalistica della credenza religiosa dimostri alcunché quanto al contenuto di quella credenza e se per loro una tale spiegazione infici o non infici quella credenza. Adottiamo provvisoriamente, a titolo di spiegazione naturalistica, quella esilarante di Dean Hamer: c’è un gene, il Vmat2, selezionato nel corso dell’evoluzione, responsabile delle “attività cerebrali di tipo religioso”. Individuato il gene, potremmo anche essere in grado di indurre credenze religiose. Fatto ciò, la domanda è: dovremo ritenere che è compromessa quella credenza quanto al contenuto intenzionato? Poniamo che sia così. A questo punto, però, qualcuno potrebbe mettersi in cerca del gene VmatX, selezionato nel corso dell’evoluzione, responsabile delle attività cerebrali di tipo scientifico: con quel che segue. Se invece non inficia, la domanda è: di quale metafisica (poiché è chiaro che la scienza avrebbe fatto tutto quel che aveva da fare), di quale metafisica abbiamo bisogno per considerare che il contenuto logico di una credenza sia indipendente dal modo in cui quella credenza si forma?
Io credo che questa sia una questione filosofica. Credo che la scienza potrebbe ben dire: cosa vuoi di più? Ho trovato il gene, ti ho mostrato come e perché l’evoluzione lo ha selezionato, ora sono persino in grado di attivarlo o disattivarlo, non ti pare che quel che tu chiami contenuto di una credenza sia un mero fantasma, un ente fittizio di cui non c’è alcun bisogno? Ma se è così, che succederà quando troveremo il gene VmatX?
 
Segnalo infine, last but non least, la mia distanza da Wieseltier: io trovo che il gene Vmat2, o VmatX, non sia la risposta – filosofeggiando: nessuna ‘cosa’ risponde a una domanda –, ma trovo che non essendo una cosa la risposta alla domanda, io non debbo per forza pensare che dove non c’è una cosa allora c’è una spirito, una mens sive ratio, la ragione metafisica di Wieseltier.
 

Scherzi a parte

Robert Kagan, uno dei più influenti neo-conservative, l’autore di Paradiso e potere, che il Foglio del direttore (straussiano) Giuliano Ferrara pubblicò a puntate mi pare nell’estate del 2002, lui, non è uno straussiano. Non ci pensa proprio: non ha mai capito una parola di Leo Strauss. Non è una mia critica, ma quello che lui afferma su Weekly Standard.
 
Kagan era un giovanotto che seguiva il papà, uno storico, nelle sue discussioni con Allan Bloom (Allan Bloom è quello a cui Saul Bellow ha dedicato Ravelstein, è l’autore di The closing of American Mind, il libro indispensabile per capire l’ideologia neo-con, ed è il più famoso allievo di Strauss).
 
Kagan seguiva il papà che con Bloom discuteva di Platone. Bloom non ha mai capito Platone, secondo Kagan padre e figlio. Le discussioni riguardavano la Repubblica. Kagan padre prendeva molto sul serio la Repubblica, mentre Bloom sosteneva che Platone non parla seriamente nella Repubblica (an ironic city). 
 
E così Kagan capì una cosa, che questa idea che i grandi pensatori non intendono veramente ciò che dicono ma stanno a scherza’ – “is the core principle of straussianism”. (Un giorno capitò pure che un amico di Kagan, Al Bernstein, disse a Bloom che dunque lui pure stava a scherza’, che lui pure non voleva sostenere veramente quel che diceva!).
 
E così io ho capito una cosa: che c’è un lato almeno per il quale sono straussiano pure io. Anch’io scherzo sempre (e l’ironia è una cosa seria).

Lancia anche tu un appello!

Amica elettrice, amico elettore, il 9 aprile si rinnovano le Camere: sei pronto al più solenne degli appuntamenti ai quali in una democrazia sia chiamato un cittadino? Hai individuato  "il vero discrimine fra le forze elettorali nella prossima campagna"? Pensi ad esempio che esso stia nella "difesa dell’Occidente, della nostra tradizione giudaico-cristiana, dei nostri principi e valori"? Non sarai mica un ateo senza Dio? Non vuoi mica "nascondere la nostra identità giudaico-cristiana"? Non sei mica un relativista culturale? Non sei mica di quelli che hanno ridotto il continente a "un panino di burro che si perfora con un dito"? Ce li hai o no i cosiddetti?

Amica elettrice, amico elettore: l’ora è venuta. Lancia anche tu come il Presidente Pera un appello in difesa dell’Occidente! O almeno unisciti al Suo appello nella difesa della nostra irrisa dignità di europei. Della nostra tradizione, dei nostri principi. Ce li hai i principi, o sei una donna (un uomo) senza principi? Dio me ne scampi! Butta via, prima che sia troppo tardi, i libri di Spinoza, non leggere Nietzsche, non farti sorprendere con le Ricerche filosofiche sotto il braccio! Lascia perdere Derrida! E, permettimi, c’è un sacco di arte, di letteratura, di filosofia da debosciati in giro. Butta via tutto! Leggi Ruini, Leggi Ratzinger, leggi i libri del Presidente Pera!

 

(Lo ammetto: non ho tempo. Quando non ho tempo, un’intervista a Pera torna sempre utile)

Jack Bauer e Guantanamo

E’ uscito Left Wing

Certe notti

Bollettino: Renata: 39,8°, Enrico 38,9°. (Ieri Renata era alla stessa ora a 40,3°).

Dennett e una definizione inadeguata

Mentre grazie a Malvino faccio la conoscenza con il biologo molecolare Dean Hamer e il suo esilarante Vmat2, il gene "responsabile delle attività cerebrali di tipo religioso", Maverick Philosopher comincia l’esame dell’ultimo libro di Daniel C. Dennett, Breaking the Spell: religion as a Natural Phenomenon (Viking 2006), cominciando dalla definizione di religione fornita da Dennett:

"social systems whose participants avow belief in a supernatural agent or agents whose approval is to be sought. This is, of course, a circuitous way of articulating the idea that a religion without God or gods is like a vertebrate without a backbone".

L’osservazione di Maverick mi sembra impeccabile: se vuoi definire la religione in termini di credenza, devi dettagliare questa credenza dal punto di vista del credente. (E il filosofo Baggini, sul Guardian: "you have to do more than explain something in order to explain it away"). Dennett dice supernatural, e ha già deciso la partita, non essendovi per lui altro che la natura e le sue leggi. Maverick osserva: "In plain English, God is not in nature so he cannot violate any law of nature. It follows that a participant in a religion need not affirm the existence of a supernatural agent in Dennett’s sense of ‘supernatural.’ Dennett’s definition is inadequate". (Qualcun altro potrebbe invece osservare che il concetto scientifico di natura non è l’unico disponibile in natura) 

(Sempre Maverick segnala l’attacco della recensione al libro di Dennett apparso sulla New York Times Book Review (per utenti registrati). Questo ve lo traduco: "La questione del posto della scienza nella vita dell’uomo non è una questione scientifica. E’ una questione filosofica. Lo scientismo, l’idea che la scienza possa spiegare ogni condizione e ogni espressione dell’uomo, sia mentale che fisica, è una superstizione, una delle superstizione oggi dominanti; dirlo, non è insultare la scienza. Spiacente, ma il migliore esempio dello scientismo di oggi è il libro di Dennett, un lavoro di notevole interesse storico, poiché è una festosa antologia delle superstizioni contemporanee").

(Un’intervista di Dennett; Un’altra, più recente intervista di Dennett, su Salon; Azioneparallela e Dennett).

P.S. Solo ora mi accorgo che Angelita dei Fantastici Quattro ha segnalato ieri libro e recensione del NY Times. A naso, lei sta con Dennett, io col l recensore.

A domani

I miei ventiquattro lettori che abbiano voglia di documentarsi per tempo, sappiano che per l’articolo di domani su Left Wing la notizia è il rapporto ONU su Guantanamo, ma il corposissimo spunto sarò offerto dall’articolo di Slavoj Zizek su Jack Bauer e gli Himmler di Hollywood

Nero d'Avola

Dalla sapienza dei primi coloni greci fino ai romani, ai normanni e agli aragonesi, la terra di Sicilia ha sempre saputo nobilitare la cultura della vite. Accostando all’ebbrezza del bere il potere misterico dei riti e delle divinazioni, ne ha intessuto la forza naturale con la voce del mito, col presagio del Sacro. È come se fin dalle origini quest’isola si fosse resa dimora privilegiata per render manifesta una vera simbiosi fra i due elementi primari della nutrizione, al fondo dei quali giacciono maschere di divinità: la secchezza della terra, la sostanza umida espressa dagli umori del vino. Nelle Baccanti di Euripide, per bocca di Tiresia, l’indovino cieco, se ne ascolta la lode: «Tra gli uomini…le cose fondamentali sono due: la dea Demetra, cioè la terra…costei nutre i mortali con l’elemento secco. Colui che venne dopo, il figlio di Semele, contrapposta a quello, inventò e diffuse tra i mortali l’umida linfa del grappolo d’uva. Questa libera gli uomini infelici dal dolore, quando si saziano del succo della vite, e dona loro il sonno, oblio dei mali di ogni giorno, né c’è altro rimedio alle fatiche». Dioniso diffonde la coltivazione della vite e la produzione del vino. Sarà suo figlio Oinopione ad educare gli abitanti dell’isola di Chio nell’arte della vigna. E proprio a Chio, per poi propagarsi in tutto il mediterraneo, prenderà vita il primo vino rosso. O a dir meglio: mélas, nero, in greco. Quale vino più indicato dunque, se non il siciliano Nero d’Avola, per evocare questa origine?
Ricca di materia zuccherina e di estratti, l’uva Nero d’Avola – che fu probabilmente impiantata nell’isola proprio dai greci – è capace di dar vita ad un vino di rara corposità, forte e potente. In passato, quando ancora se ne ignoravano le virtù ed era andato perduto il ricordo degli antichi, veniva per lo più utilizzata come uva da ‘taglio’, allo scopo di fornire vigore ad altri vini di corpo più debole. Per questa ragione se ne esportavano grandi quantità anche all’estero, col risultato che il Nero d’Avola finiva per impreziosire la stoffa anche degli acclamati vini francesi. Solo in tempi relativamente recenti si è iniziato a sperimentarne la vinificazione in purezza, ed oggi può essere senza dubbio indicato come il più celebre e pregiato prodotto dell’enologia siciliana, nonché come uno dei vini italiani di maggior pregio. La sua diffusione nell’isola supera oramai di gran lunga le altre uve, mostrando caratteristiche organolettiche differenti in base alle varie aree di coltivazione: più ‘spesso’ ed aggressivo il vino prodotto nelle zone occidentali dell’isola, più fine ed armonico quello delle aree orientali. Soprattutto nel suo territorio d’origine – entro l’area definita dalle località di Eloro, Pachino e Noto – fra paesaggi di rara bellezza ed antiche vestigia, dagli eleganti profili greci alle rigogliose forme barocche, questo vino giunge ad esprimere al meglio le sue qualità.  Ha carattere possente, rara concentrazione e ricchezza di frutto, mentre l’affinamento in legni pregiati ne rende ancor più intenso ed elevato lo spessore aromatico.
Il colore è di un brillante rosso rubino, dai riflessi violacei se il vino è giovane, e d’acceso granato con il procedere dell’invecchiamento. Quanto mai ampio il ventaglio olfattivo, ove agli accenti floreali (si sente la viola, soprattutto) s’intrecciano sentori di frutti di bosco (ribes nero, lampone, mora) e spezie orientali, ma anche sfumature balsamiche, cuoio, tabacco e cioccolato fondente. In bocca questo vino si espande con rotonda corposità, denso e carnoso, ben strutturato e di lunga persistenza.
Lo si beva con sottofondo di musiche della Grecia antica, ma anche apprezzando sonorità barocche. Un giusto connubio di lettura potrebbero essere gli Inni Omerici, o i frammenti dedicati alle religioni dei misteri, ma anche i mirabili affreschi della terra di Sicilia offerti dalle pagine di Verga e De Roberto. Si torni poi alla voce dei primi sophoi, celata fra i frammenti dei presocratici, e ancora una volta a Platone, alla ‘divina manìa’ evocata nel Fedro.
 
(L’autore è il giovane e già tragico filosofo Walter)