Ieri sono riuscito a seguire qualche minuto di Otto e mezzo (mentre i formaggini cadevano e il secondogenito aveva la febbre e concludeva il lauto pasto vomitando). Mi pare che Ferrara chiedesse a Vauro in nome di cosa si consentiva ogni genere di sberleffo verso le religioni tutte. Vauro ha risposto: è un riflesso pavloviano. Più o meno: vedo una tonaca e mi scappa una pernacchia. Allora Ferrara si intestardiva: non vuole capire (e non s’accorgeva dell’en jeu, oppure faceva il furbo). Ferrara voleva una ragione, e Vauro non gliela dava. Proprio come Socrate e Trasimaco, nel primo libro della Repubblica. E sia chiaro: sto prestando per una volta a Ferrara i panni di Socrate. Trasimaco: giusto è l’interesse del più forte. Socrate: ok, ma il forte dovrà pur sapere qual è il suo interesse. Più forte della forza è dunque il sapere che deve dirigerla. E’ del sapere che si fa forte il forte, ed è in suo nome (cioè: in quanto sa quel che sa), che il forte persegue il suo interesse. Trasimaco è confutato?
Manco per niente. Poiché a tessere le fila del dialogo è Platone, e gli riesce allora di imbrigliare Trasimaco (addirittura di farlo arrossire: lui, il lupo Trasimaco!), facendogli dire che sì, il forte sa. Ma ieri mi pare che nessun Platone dettasse le risposte di Vauro, che giustamente negava a Ferrara ogni ragione (atenzione: non affermava di avere ragione, si rifiutava di fornire ragioni). Se è in nome di qualcosa che la satira fa i suoi sberleffi, ciò in nome di cui li fa non può mai essere toccato dallo sberleffo. Ma così il diritto alla satira conosce un limite, e la satira deve arrestarsi almeno dinanzi a questa tonaca. E dunque niente: riflesso di Pavlov.
(Vedete un poco: metto a Ferrara i panni di Socrate per poi dare ragione (ragione?) al sofista contro il filosofo! Però il filosofo qui è Socrate, sì, ma il Socrate di Platone. E forse la filosofia non è tutta platonica).
Sulla vicenda delle vignette in Danimarca, segnalo Jimmomo e Reporters: si è capito come la penso, credo)