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secondo giorno qui] A nanna poco prima dell’una mi sveglio alle tre. Leggo in bagno dalle tre alle cinque. Dormo fino alle sei e trenta. Mi sveglio di nuovo. Fuso orario, caffè o preoccupazioni non so: negli ultimi trentotto anni, quando vado a dormire dormo, in un tempo più piccolo di un tempo scelto a piacere.
Però sono le preoccupazioni. Decido di dedicare la mattina alla relazione per il pomeriggio. Il problema è il seguente: per tre quarti non dico nulla di particolarmente originale: l’eurocentrismo, la fenomenologia e l’Europa, Derrida. Nell’ultimo quarto tento di raccogliere l’esigenza posta da Derrida di inventarsi un gesto diverso. E torno a Spinoza. Ora, io tengo all’ultimo quarto, ovviamente, ma ci arriverò? Riuscirò a stare nei tempi? Forse è meglio se lo taglio, e faccio una cosa piana e comprensibile. Non parlo a filosofi, ma agli italiani d’America e alle gentili signore che ruotano intorno all’
Istituto italiano di Cultura. Ho mandato il testo (senza l’ultimo quarto) al prof. Pascale, che ha apprezzato, perché confacenti al pubblico, i riferimenti all’attualità. Dovrei tagliare, allora. Si vedrà. (Lo schema della relazione, non letto, e l’inizio, dal
capodivisione)
Trascorro la mattinata un po’ intontito nei dintorni di
Bleecker Street, percorrendo la Sesta, oppure la
Houston Street. E recitando come un doloroso mea culpa per aver gettato una mattinata un testo che a stringere a stringere non riesco a tenere sotto i 25 minuti. Verso mezzogiorno con Vitiello andiamo in sopralluogo all’Istituto, che sta sulla
Park Avenue.
Park Avenue, che scenografia! Ma ci sono film in cui l’inseguimento della polizia si conclude con l’auto che termina la sua folle corsa infrangendosi sul muro di grattacieli che chiude la strada?
Con Vitiello si chiacchiera sul tempo: non quello metereologico, ma quello di cui ragiona la filosofia. Anzi: non quello di cui ragiona la filosofia, che non è mai volgare, ma proprio di quello volgare. Ci sarà pure la temporalità autentica, ma da dove spunta fuori quella volgare? Gli chiedo di Deleuze. Apprezza, ma non si sbilancia.
A pranzo mangiamo alla
trattoria Spaghetto, gestita da un abruzzese. Fusilli Vitiello, linguine io. Al dente: perfetti. Caffè e vino: meno di sessanta dollari. Poi, di nuovo in camera.
Dormo meno di un’ora. Mio fratello è in camera. Abbiamo appuntamento con Vitiello alle 16.45. Alle 16.15 ho già la cravatta, e ho ripreso a passeggiare. Stavolta, sulla Settima.
All’
Istituto giungiamo puntualissimi, e veniamo ricevuti dal Direttore. E chi ti fa il direttore a New York? Ma è
Claudio Angelini, il quirinalista del Tg1! O meglio: lo stesso più dieci chili e una faccia un po’ gonfia, che ci racconta come è finito in quel posto. (Pascale ci dirà che si dà da fare molto più del suo predecessore, riempie l’Istituto di eventi, ma non si sa se rimarrà al suo posto in caso di vittoria del centrosinistra). Rimarrò alquanto sorpreso quando aprirà la serata leggendo il breve testo di presentazione in inglese dopo aver introdotto in italiano. Ma allora potevo anch’io parlare in inglese!
Sta il fatto che c’è la traduttrice simultanea. Che vorrebbe farci domande prima di cominciare, ma nessuno le dà retta (ed è un peccato…). Io, peraltro, ho mandato il testo per Pascale il quale mi ha assicurato di averlo girato a colei. Ma non è vero, come saprò a fine serata, dopo aver visto la traduttrice annaspare su alcuni passaggi un po’ più ostici.
Affluisce un po’ di gente. Arriva
il Nunzio, l’Archbishop Celestino Migliore, molto cordiale, si comincia. Introduce Pascale (Vitiello, il più grande filosofo italiano…), poi Angelini, poi il Nunzio (
geopolitica morbida, i valori, questa bella famiglia di nazioni), poi Vitiello. Vitiello è categorico. Rinuncia programmaticamente alla sostanza delle sue argomentazioni (come so avendo già letto il suo testo), e fa bene. Il cristianesimo è questo, la filosofia è quest’altro, l’Europa ce la fa se fa questo. Scandisce con autorevolezza, non gesticola. Piace, perché dice che non c’è tutta questa opposizione fra ragione e fede, e perché distingue cristianesimo storico e cristianesimo ‘invisibile’ (non dice proprio così), Paolo e Gesù (questa cosa piace sempre: Vitiello sa bene che gli obiettano ma è una cosa che si diceva nell’ottocento, però funziona).
Passano i minuti e io capisco che Spinoza ci sta come un pesce fuor d’acqua.
Inizio l’intervento. Dopo 5 minuti Pascale mi passa un biglietto: finisci subito perché il Nunzio vuole porre una domanda a Vitiello, ma deve andare via. Ma come cavolo faccio? Procedo mentre mi domando come dare senso compiuto a una cosa del genere, ma dopo altri 5 minuti il Nunzio va via. Meglio così: decido che mi prendo almeno un altro quarto d’ora.
L’esito: è la prima volta che parlo con traduzione simultanea, e non ho i tempi. All’inizio cincischio con ‘umanità’ e ‘tutti gli uomini’, la traduttrice strabuzza un po’ gli occhi (ed è un peccato…). Quando arrivo a Spinoza, dopo aver sfrondato il testo di molte citazioni husserliane, taglio corto: niente logica dell’infinito, niente argomenti. Dio è il tavolo, Dio è questo bicchiere. Mi butto sull’etico a fini di edificazione: se l’infinito è qui, non getti via il finito per guadagnarti un premio, e dunque non fai il terrorista. Sarà l’unica parte della relazione che, nei commenti del dopo-partita, mi parrà apprezzata.
Rinfresco, cordialità, dovete tornare. Vitiello è la star, c’ha pure il fisico (da filosofo, intendo). Io ho con me qualche entusiasta signora. Poi si va a cena. L’aria fredda della sera, mentre a piedi raggiungiamo il locale, produce su di me l’effetto migliore: con Pascale facciamo progetti, parliamo in dialetto, dedichiamo un pensiero maschile alla traduttrice. Per il resto, riesco a tenere perfettamente la conversazione senza dare alcuna importanza a quello che dico o ascolto, mentre guardo la città, guardo il cielo fondo, guardo mio fratello fingere anche lui di discutere con attenzione con il Presidente della Camera di Commercio a New York (o qualcosa del genere), guardo Vitiello camminare a passo lungo e decisivo con Padre Giuseppe al fianco. Guardo le luci dei semafori e delle auto e rimpiango di avere negli occhi le lentine, e di non poter vedere le luci sfumare lievitando in grossi palloni rossi sospesi nel buio, con la stessa lievemente euforica leggerezza che sospinge me.