Archivi del mese: aprile 2006

Comunicazione di servizio con mossa

Nuovo numero di Left Wing. Con un titolo alla De André, Le nuove librerie della città vecchia. La goccia è strettamente legata al pezzo, ed è Ivan Illich. Ma tutto il numero è da leggere.

E a proposito di Left Wing, Camillo segnala il pezzo della settimana scorsa sull’Euston Manifesto, con queste parole: "Quattro o cinque italiani hanno aderito (conosco Daniele Capezzone, Mario Ristoratore e io medesimo). I giornali italiani si accorgeranno (non di me Capezzone ecc) ma del fatto che nel mondo esiste una sinistra diversa? A me risulta che ne abbia scritto, criticandolo, soltanto la rivista on line Left Wing (che è quel genere di sinistra italiana che fa sempre la mossa blairiana e poi basta)".

La mossa. Bah.

(Il blog resta chiuso per un altro po’).

Chiusura

Questo blog chiude per un po’

Le cose belle della vita

Il caffé, la pasta col pomodoro, per esempio. Ma nessuno si sogna di versare il caffé sulla pasta col pomodoro. Altro esempio: la filosofia, il pallone. Ma nessuno si sogna di spandere la filosofia teoretica sul gioco del calcio.

Invece sì! C’è qualcuno che lo fa! Dell’articolo di Sini su Schiaffino mi ero già occupato qui, ma ora Husserl (non proprio lui, credo, ma uno che ne porta il nome) nei commenti mi segnala un’intera rivista di scienza calcistica dove si trova: Massimo Donà, In principio (e alla fine) fu il pallone, Maurizio Ferraris, Nelle descrizione ci vuole un po’ di rigore, Sergio Givone, Il calcio è bellissimo. Sì, ma perché?, Franca D’Agostini, Le grandi domande giocano a calcetto, Corrado Sinigallia e Giulio Giorello, L’arbitrio dell’arbitro, e altri ancora.

A questo punto, tre sono l’ipotesi.

la rivista in questione paga molto, ma molto bene; i filosofi, lasciateli divertire; i filosofi non sanno più che pesci pigliare. (Nulla impedisce, peraltro, che siano vere tutte e tre).

P.S. Nell’ultimo numero, il caso Del Piero.

Risposta a Girolamo de Michele

Non sono sicuro di essere riuscito a individuare bene il punto di disaccordo con Girolamo de Michele, che riprende su Liberazione l’articolo di Luisa Muraro al quale mi sono applicato anch’io. Vediamo.
De Michele dedica una prima parte del suo articolo ad una distinzione importante e utile, che non era oggetto delle mie considerazioni. La distinzione passa tra la negazione pura e semplice di un dato di fatto, che è passibile di accertamento storico (e che dunque pone solo i problemi che pone l’effettiva ricerca storica), e il suo inserimento dentro un’interpretazione, un’ipotesi esplicativa, un discorso politico, ecc. (che pone invece problemi di altra natura, e teorica e politica, proprio perché non sempre ci si libera di una cattiva interpretazione attraverso il semplice accertamento storico del dato). Credo che in questo modo de Michele voglia situare correttamente la questione più generale sollevata dall’articolo della Muraro, che potrebbe essere riassunta così: fin dove può spingersi il relativismo delle società liberal-democratiche, e se esso, lasciato a se stesso, non degeneri in un preoccupante indifferentismo.
De Michele distingue fra relativismo e indifferentismo. Per relativismo de Michele intende “il riconoscimento della caduta (del disvelamento della menzogna) dei valori, e al tempo stesso il punto di partenza per quella pratica costituente della verità cui allude”.
A prima vista, questa definizione suona problematica. Il relativismo, nell’interpretazione di de Michele, ha a che fare con la caduta dei valori, ma non con la caduta della verità (anzi è il punto di partenza per). Se poniamo mente a Nietzsche, che qualche parte in questa faccenda l’ha avuta, dobbiamo chiedere a de Michele se qui non debba dire qualche parola in più sull’idea di verità, che lascia sopravvivere alla caduta dei valori. Io provo a intendere la definizione di de Michele così (mi dirà lui se sbaglio): il relativismo non è una posizione di principio che si assuma su un astratto terreno logico, ma è il frutto di un determinato processo storico, che ha portato al tramonto di un certo e determinato set di valori (e, nel caso della verità, bisognerebbe forse aggiungere: di una certa e determinata interpretazione della verità)[1]. Che certi valori siano dubbi e anzi menzogneri lo ha dimostrato la storia, non un logico; o meglio: se oggi abbiamo una ‘logica’ che ci consente di mostrare il carattere dubbio e menzognero di quei valori, se oggi possiamo pensare questo pensiero mentre non possiamo più pensare, per dirla con Foucault, certi altri pensieri segnati dalla tradizione metafisica occidentale, è perché siamo dove e nel tempo in cui siamo. (Si potrebbe persino dire: questa è la ‘verità’ del nostro tempo). In questa interpretazione, la logica non è più, se mai lo è stata, la sede in cui ne va della verità di un pensiero[2].. Che certi valori siano dubbi e anzi menzogneri lo ha dimostrato la storia, non un logico; o meglio: se oggi abbiamo una ‘logica’ che ci consente di mostrare il carattere dubbio e menzognero di quei valori, se oggi possiamo pensare questo pensiero mentre non possiamo più pensare, per dirla con Foucault, certi altri pensieri segnati dalla tradizione metafisica occidentale, è perché siamo dove e nel tempo in cui siamo. (Si potrebbe persino dire: questa è la ‘verità’ del nostro tempo). In questa , la logica non è più, se mai lo è stata, la sede in cui ne va della verità di un pensiero.
Bene, io ho posto in corsivo in quest’ultimo, lungo capoverso – in cui spero di non aver troppo frainteso, riportandolo nei miei termini, il pensiero di de Michele – la parola interpretazione, solo per segnalare qui che ovviamente sono al corrente (ma anche de Michele immagino lo sia) di quel che un filosofo della riflessione potrebbe obiettare, abbassando al rango di mera interpretazione la storia di De Michele, la sede che lui indica come luogo di costituzione della verità (e che io ho detto genericamente storia, ma che mi pare de Michele pensi più determinatamente: in che modo, qui non rileva). Ne sono al corrente, ma poiché credo di essere d’accordo con de Michele.nel ritenere che la sede logica, astratta e formale, nella quale ogni interpretazione è in linea di principio ugualmente legittima, non sia affatto la sede in cui ne va della verità, e sia oltretutto ben legata a determinate condizioni di emergenza storica, per tutto ciò io non proporrò una simile obiezione, neppure ad hominem. Resta tuttavia importante tenerla presente, poiché una volta che quella sede sia destituita, bisognerà fronteggiare comunque l’obiezione di chi dirà allora che la sede ‘storica’ è solo una delle molte sedi possibili, e che anzi proprio questo dimostra la storia di de Michele, che si sono moltiplicate le sedi, o le storie. E il confine tra relativismo e indifferentismo rischierà di sfumare irrimediabilmente[3]..
Ma, ripeto, faccio conto di aver fronteggiato questa obiezione, poiché sono d’accordo con de Michele sulla tesi[4], e mi domando: dov’è allora il disaccordo? , e mi domando: dov’è allora il disaccordo?
Nell’articolo, io mi sono proposto di smontare una vecchia convinzione kelseniana (che è al contempo ormai una communis opinio), che cioè la democrazia è possibile solo se si rinuncia alla verità. La mia idea è che non è vero affatto che i paesi a costituzione liberal-democratica diano cittadinanza a ogni e qualunque interpretazione. La mia idea considera cioè quei regimi nella loro determinatezza ‘storica’, proprio come vuole de Michele: non ogni pensiero si pensa in quei regimi. Mi sembra però che de Michele dia un giudizio diverso proprio su quella costituzione liberal-democratica, che io mostro di considerare solidale con il processo di costituzione della verità, mostro cioè di considerare come una sede abilitata a secernere verità storica, e de Michele invece mi pare che ritenga piuttosto solidale ai processi in cui si dispiega, nella nuova dimensione imperiale del capitalismo post-moderno, piuttosto la menzogna che la verità.
Ma anche questo punto di disaccordo devo circoscriverlo, poiché io, nel mio pezzo, scrivevo, a proposito delle società liberal-demoratiche, “quando funzionano”, e a sua volta de Michele, nel ricordarmi quel che mi ricorda, scrive “non sempre” – cioè mi ricorda ciò di cui mi ero ricordato: che non sempre le società liberal-democratiche funzionano.
E tuttavia il disaccordo rimane. Se “non sempre” non è solo una concessione retorica, se cioè de Michele non pensa piuttosto “mai, o quasi mai”, mi chiedo se il disaccordo non stia comunque (e semplicemente) nel diverso giudizio che rendiamo sulla società nella quale oggi viviamo. A scanso di equivoci perciò domando: ritiene de Michele che le nostre società liberal-democratiche non camminino verso la verità? Oppure ritiene che per puntare verso la verità quella forma costituzionale (in senso largo) non sia in generale e per principio adeguata?[5] E qual è la forma adeguata, che non tradisca il carattere contingente e relazionale della verità di cui parla Luisa Muraro? Soprattutto, c’è – e se c’è qual è – una forma di transizione verso quella forma adeguata che non tradisca anche solo provvisoriamente il carattere contingente e relazionale, cioè (mi par di capire) non autoritario né violento della verità? E non crede de Michele (ma mi scuso per il carattere molto artificioso della domanda) che mettere la verità da un’altra parte rispetto all’orizzonte attuale è un’operazione di per sé violenta, magari di una violenza necessaria (“pura”?) ma comunque violenta (e sospetta proprio perché violenta per principio), visto che richiede necessariamente l’abolizione dello stato di cose presente? E qual è la forma adeguata, che non tradisca il carattere contingente e relazionale della verità di cui parla Luisa Muraro? Soprattutto, c’è – e se c’è qual è – una forma di transizione verso quella forma adeguata che non tradisca anche solo provvisoriamente il carattere contingente e relazionale, cioè (mi par di capire) non autoritario né violento della verità? E non crede de Michele (ma mi scuso per il carattere molto artificioso della domanda) che mettere la verità da un’altra parte rispetto all’orizzonte attuale è un’operazione di per sé violenta, magari di una violenza necessaria (“pura”?) ma comunque violenta (e sospetta proprio perché violenta per principio), visto che richiede necessariamente l’abolizione dello stato di cose presente?
(Perché ora la mia posizione non suoni troppo continuista, prego chi volesse obiettarmi di stolido continuismo di considerare due cose:
– che il mio non è un atto di fede. Proprio perché siamo scesi su un terreno storico, io non intendo affatto escludere che le società liberal-democratiche possano evolvere, anzi involvere, in un senso che ne mortifichi il carattere aperto, contingente e plurale;
– che continuo e discontinuo sono concetti ben relativi, a meno che non si ritenga che discontinuità si produca solo tra l’uno, il continuo, e l’assolutamente altro. Questa, però, è teologia).
Infine: scesi come siamo sul terreno sul quale possiamo vedere la determinatezza storica delle società liberal-democratiche, nelle quali (come del resto – aggiungo – in ogni società) non si pensano certi pensieri, non crede de Michele che io abbia ragione almeno su un punto, nel chiedere alla Muraro e alla sinistra di lasciar perdere il fantasma del relativismo, questa trita canzonetta, poiché quale che sia il giudizio che diamo sulle società liberal-democratiche nella loro storica determinatezza, di esse si potrà dire tutto, ma non che siano semplicemente indifferenti alla verità, cioè che diano spazio a ogni e qualsiasi interpretazione, visto che in esse non tutti i pensieri si possono pensare (in esse e in ogni altra società, come ho già aggiunto)?
Se su quest’ultimo punto concordiamo, concordiamo almeno, ferma restando la diversità di interpretazione dell’attuale quadro storico, sul punto che mi stava a cuore e sul quale concludevo il mio articolo su Left Wing.
[1] Mi pare di capire peraltro che quel che ho chiamato qui, un po’ immaginificamente, una “posizione su un astratto terreno logico” sia proprio ciò che De Michele dice essere (o ciò che ha a che fare con l’) indifferentismo.
[2] E di conseguenza il carattere dubbio e menzognero di un pensiero non si dovrebbe misurare più (o forse soltanto) in termini di vero/falsità.
[3] Qui sta a mio avviso un certo lavoro teorico che deve interessare anche l’idea di verità, ovviamente, ma questo ora non può certo essere ripreso qui.
[4]Se mi leggerà, De Michele potrà anche togliermi una curiosità: si era avveduto di questo primo e importante accordo? Io credo di no, ma temo per colpa mia, poiché su questo punto il mio articolo è abbastanza reticente, o forse contiene troppi impliciti.
[5] C’è un poco di veleno in questa domanda, in ciò che metto: “in generale e per principio”…

Euston, abbiamo un problema

Sembra Apollo 11, ma è invece il titolo del pezzo su Left Wing (l’oggetto è questo manifesto qua). Con la goccia torna il vecchio Carlo Marx, perché vinte le elezioni noi di Left Wing non facciamo prigionieri

Lunedì di Pasqua

"Non è empio colui che nega gli dei del volgo, ma colui che attribuisce agli dei i sentimenti del volgo" (Epicuro)

Domenica di Pasqua

"E Cristo non è stato risuscitato, vana è la vostra fede" (ICorinzi 15,17).

E’ così. Oggi ho sistemato il giardino, domani è Pasquetta e qui sformiamo le pizze. Undici bambini presenti. Ma perché Paolo dice: vana è la vostra fede? D’accordo dice che vana è la nostra predicazione, dice che Cristo è apparso a lui, ma perché dice vana è la vostra fede? Oggi, per Renata, uovo di Pasqua Disney Le principesse, e per Enrico Winnie The Pooh. Per me, stasera il pezzo per Left Wing, e se mi riesce un po’ di Marzial Guieroullt, Spinoza, Dieus.

Auguri a tutti.

Finché i filosofi non saranno re, o i re filosofi..

"If, like me, you are in the business of ideas, the presidency of George W. Bush is a dream come true. That is not because the president is fond of the product I produce; on the contrary, he may be the most anti-intellectual president of modern times, a determined opponent of science, a man who values loyalty above debate among his associates".

Così comincia l’interessante recensione di Alan Wolfe, apparsa su The Cronicle Review,  di due libri critici ‘da destra’ verso l’Amministrazione Bush: quello di Francis Fukuyama e quello di Bruce R. Bartlett. Al di là del contenuto dei libri, si tratta propro del personale rapporto che Mr. President ha con le idee, e con le ideologie.

Vento dall'ovest (pensiero pasquale)

"Se chiedessi perche Dio ammonisce gli uomini, si risponderebbe facilmente che Dio potrebbe aver deciso dall’eternità di ammonire in un certo modo le donne e gli uomini di cui vuole la salvezza, affinche si convertano. Se chiedessi inoltre se Dio avrebbe potuto salvarci anche senza quell’ammonizione, risponderemmo che non avrebbe potuto*. Forse mi potresti chiedere di nuovo perche allora non li salva a quel modo. Risponderei dopo che tu mi avrai deto perche Dio non rende praticabile il mar rosso senza un forte vento dall’ovest”
 
Spinoza, Cogitata metaphysica
 
* Nell’Etica, Spinoza su questo ‘avrebbe potuto’ si cimentera un bel po.

Radical Thinkers

I problemi dei radical thinkers: primo, il gergo. Mentre pensatori come Fukuyama e Ignatieff li capiamo tutti quanti (bella forza), questi thinkers qua si capiscono fra di loro. Secondo, la teoria. Invece di predisporre analisi, la teoria serve solo ad esprimere il proprio dissenso da usi e abusi del potere (esempio: Paul Virilio). Terzo, l’irrilevanza. Questi dicono di parlare per dare voce a coloro che non hanno voce, ma non fanno granché per mettersi nella loro prospettiva. Parlano ancora e sempre della cultura occidentale in tutte le sue forme, ma è roba che è un bel po’ familiare ai cultural studies da qualche decennio (esempio: Slavoj Zizek).

In sintesi: i radical thinkers si parlano un po’ addosso (e non di rado si applaudono).

Gli analisti fanno oh

Collegio dei Docenti, Roccadaspide, anno del Signore 1999 (che i muri ancora se lo ricordano). Siamo chiamati a decidere sull’organizazione dell’insegnamento di Educazione Fisica. È in corso una lotta furibonda: basta professori per classi o corsi, un docente si tenga tutti i maschietti, un altro le femminucce.
Favorevole contrario contrario favorevole contrario favorevole mi astengo…
Come ti astieni? Mi astengo. E perché? Ma, sto qui da pochi giorni, l’anno prossimo non ci sarò, vedo che ci sono problemi logistici, però d’altra parte.. mi astengo, insomma.
Favorevole contrario favorevole contrario…
Colegio spacato a metà come una mela: ics favorevoli, lo stesso numero contrari, un astenuto. lo.
 
Ora, questa cosa della spaccatura a metà fa una certa impresione. (Gli analisti fanno oh). Mi domando, per cominciare: 51 a 49, il paese è spaccato a metà? 52 a 48? Con quali numeri il Paese non è spaccato a metà? Se andava come per certi sondagi, o come gli exit poll nell’ipotesi estrema (quella trionfale per l’Unione), 54 a 46, avremmo letto: paese spaccato a metà? Se 13664 elettori in più rispetto alla metà avesse votato a sinistra (centrosinistra), avremmo avuto, più o meno, 54 a 46: il Paese non sarebbe stato spaccato a meta? Non avremmo più avuto una meta del Paese che, eccetera eccetera? Ma cosa sono meno di un milione e mezo di elettori su poco più di 34 milioni e mezzo di elettori (il corpo elettorale del Senato, mi pare: alla Camera è più ampio, mentre gli italiani tutti sono molti di più)? Politicamente quel numero è di sicuro una bella grandezza, in grado di determinare – come si dice – magioranze nette in entrambe le Camere, ma poiché le analisi tracimano dallo spazio politico e divengono analisi sociologiche, culturali, addirrittura antropologiche, la domanda è:
non vi accorgete che qualunque esito ragionevole del voto, più o meno prevedibile, dal 50 a 50 al 54 a 46, avrebbe spaccato grosso modo a metà l’Italia?
 
Secondo. Nel 2001 mi risulta che la CdL ha vinto le elezioni. Mi pare di ricordare che in termini di voto popolare la CdL era avanti anche nel 1996, e nel 1994. Succede questa cosa che l’Unione vince di stretissima misura (in termini di voto popolare è anzi indietro al Senato, almeno nei confini del territorio nazionale) e tutti a chiedersi, a sinistra, come diavolo è potuto accadere. Com’è possibile che ci siano 17 milioni di elettori che votano la CdL. Violando un certo costume, ho dedicato ben due post all’insulto berluconiano agli elettori che votano contro il loro interesse (cioè: irragionevolmente) per la sinistra, ma vedo che per molti, a sinistra, il voto per la CdL è proprio il voto dei coglioni, o di coloro che sono instupiditi dalla televisione, oppure dei furbi che però si vergognano di dirlo ai sondaggisti. In ogni caso,  un voto indifendibile razionalmente e moralmente e culturalmente. Non è granché, come analisi.
 
Terzo. Giulio Mozzi ha formulato l’ipotesi:  facciamo che ciascuno ha espresso ragionevolmente il proprio voto. L’ipotesi mi pare corisponda a quanto suggerisco anch’io al punto 2 e di cui sono passabilmente convinto (ovviamente non dico che ciascuno e tutti hanno espresso un voto libero, meditato, serio, responsabile e informato, ma dico che queste sono più o meno le caratteristiche del voto del paese tutto, e in generale del voto nei paesi liberaldemocratici). Però Giulio aggiunge: fatta questa ipotesi, ne verrebbe che la divisione non è meramente elettorale, ma antropologica, fra questa e quella metà della popolazione. Nego consequentiam. E osservo:
a. che questa e quella metà ci sono anche con un risultato di non quasi perfetta parità, e ci sono da un pezzo;
b che tolto il feticismo dei numeri e la quasi perfetta parità, questa e quella metà ci sono in un mucchio di paesi: tutti antropologicamente divisi?
c. che può ben darsi sia, antropologicamente parlando, più profonda per esempio la divisione tra chi vota e chi non vota (nonché altre divisioni che attraversano il corpo elettorale senza disporsi secondo lo schema Unione/CdL);
d. che un sistema maggioritario ‘produce’ risultati elettorali di due metà intorno al 50%: dobbiamo allora rassegnarci ad essere sempre un paese antropologicamente diviso, oppure lo siamo solo quando la divisione si fa prossima alla quasi perfetta parità?
e. che dalla quasi perfetta parità, razionalmente espressa da elettori responsabili, non si deduce affatto una divisione antropologica, come se un elettore responsabile, che quest’anno ha votato Udeur, non possa la prossima volta cambiare parere (rimanendo un individuo razionale e responsabile) e votare UdC o Forza Italia;
f. che la divisione antropologica, posto che gli elettori siano tutti individui responsabili che hanno espresso razionalmente il proprio voto, è dedotta, se è dedotta e deducibile, non dalla quasi perfetta parità del risultato espresso ma dall’idea che i due schieramenti per i quali s’è votato siano non semplicemente diversi, ma opposti e contrapposti. Ma questo e piuttosto quanto e da dimostrare: il carattere opposto e contrapposto dei due schieramenti non viene infatti dimostrato dal fatto che il voto serio e responsabile dell’elettorato ha diviso il Paese a metà. Non solo non è dimostrato ma, a mio parere (ma questo è solo un parere qui non motivato), non è vero.
 
Quarto. All’ipotesi di Giulio Mozzi, Andrea Inglese risponde: se pero ci mettiamo a ragionare con quest’ipotesi, che fine fa un ottimo ferro del mestiere come la critica dell’ideologia? Inglese scrive: “Tutto quello che una persona pensa, sente e crede e “vero” per il semplice fatto che lo ha “veramente” pensato, sentito e creduto. Accettare questo principio significa voler ignorare una parte della realtà. Significa ignorare il grado di manipolazione della realtà che può essere perpetrato attraverso canali diversi”.
Andrea Inglese ha ragione, anche se qui non discuto se ha poi ragione nel dettaglio, quando accenna alla capacità di manipolazione di Berlusconi e più in generale quando traduce tutto ciò che va criticato in termini di manipolazione – ma immagino sia una semplificazione richiesta dalla brevità. (Aggiungo en passant che trovo peraltro insopportabile ridimensionare il peso della televisione, e al contempo lottare come matti per occupare ogni spazio televisivo possibile). Ma osservo:
il principio che Inglese trova inaccettabile è certo inaccettabile sul piano metafisico, sul piano dell’analisi sociologica, e su molti altri piani (ivi compreso, a volte, il piano delle più banali relazioni interpersonali), ma lo spazio politico delle liberal-democrazie e costruito proprio su quella base di principio o, se si vuole, su quella finzione giuridico-politica. Perche non appaia una finzione odiosa, perché tutto lo spazio politico liberal-democratico non appaia una generale manipolazione (come peraltro può apparire e appare, in certe prospettive critiche radicali, sia a sinistra che a destra) io aggiungo che quella finzione mi pare al momento quanto di meglio abbiamo per costruire (idealmente, non domattina) un individuo libero, serio e responsabile. Altre strade per ora non hanno dato buona prova. Potrei aggiungere qualcosa sulla caratteristica di questa strada, ma non e la cosa in discussione. Faccio solo notare ancora che adottare la prospettiva di una critica dell’ideologia può essere persino salutare, sul piano scientifico come sul piano sociale e su chissà quali altri piani, ma questo non vuol dire che salutare sia sempre e su ogni piano, e per esempio che lo sia su quello politico, dove la delegittimazione dell’ideologia (non ho dificoltà a chiamarla così) liberal-democratica non sarebbe indolore. Aggiungo infine e ripeto che a mio avviso una tale delegittimazione sarebbe cosa buona e giusta qualora non si ritenesse che la costruzione di individui liberi e responsabili passi – idealmente, e sul terreno politico – attraverso quella finzione, ma che anzi quella finzione la ostruisca irrimediabilmente, come per esempio ritiene oggi un guru molto ascoltato dalla sinistra radicale, Slavoj Zizek).
 
Quinto. Credo che Giulio Mozzi abbia scritto Sfuggire al paradigma volterriano anche per approfondire meglio certi aspetti della sua ipotesi che erano venuti fuori dalla discussione. Il ‘paradigma volterriano’ suona com’è noto così:: “non condivido le tue idee, ma mi batterò fino alla morte perché tu possa esprimerle”. Giulio domanda: è valido questo paradigma? Ci sono molti modi per dire: le tue idee sì, ma fino a un certo punto (oppure: il paradigma di Voltaire sì, ma a certe condizioni). Alla domanda di Giulio rispondo, horribile dictu: dipende. Se Giulio mi chiede se per me è valido universalmente, sempre, in ogni luogo e in ogni forma di relazione umana e interpersonale gli rispondo che no, per me non è valido in un simile modo (modo per il quale per me non è valido un bel nulla, se posso dire semplicemente). Se qualcuno mi chiede: ora che ne hai limitato la validità come farai a dire chi decide quando e come limitare e perché, ecc. ecc., a chi così mi chiede dò la seguente risposta: lo dirò caso per caso (dove i casi possono essere grandi come epoche storiche, o piccoli come individui singoli). A chi mi dice: ma questo è relativismo! Peggio: è relativismo con un sobbalzo decisionistico del tutto arbitrario, perché poi alla fine occorre decidere, ecc. ecc., a costui dovrei fare un discorso lungo che vengo facendo spesso e che però qui riassumo soltanto, così:
1. ho scritto ‘dirò caso per caso’, ma la prima persona singolare è un modo per far presto: A volte a dirlo è la storia, oppure il costume di un paese, oppure ecc. ecc.: dipende.
2. questo genere di risposte appare insoddisfacente solo a chi vuole una regola valida sempre e comunque, e a chi non riesce a capire che una regola valida per lo più è comunque una regola (anzi: così sono tutte le regole: valide per lo più. Infatti:);
3. è nella natura della regola la possibilità della sua disapplicazione;
4. è nella natura della regola non contenere tutti i casi della sua possibile applicazione (su questi punti, Wittgenstein docet);
5. che una regola si applichi – per dir così – da sé è una finzione. Se la regola è la regola del gioco democratico, che vada da sé significa solo (ma è tanto) che, lo dico in breve, il paese nel quale è adottata è un paese maturo dal punto di vista democratico. Con l’espressione ‘paese maturo’ mi riferisco all’insieme di condizioni non formali che permettono alla regola democratica di ‘andare da sé. Tra queste condizioni non formali metto questa (non è l’unica, ovviamente, ma è importante): che il paese si rappresenti come un paese maturo. (En passant, è da paese maturo, nel senso che così si rappresenta, quel paese in cui l’esito delle elezioni è accompagnato dall’ammissione della sconfitta da parte dello sconfitto, o almeno da chiare espressioni di fiducia nelle procedure con le quali il voto è contato, certificato, proclamato);
6. se qualcuno mi chiede di elencargli, una volta per tutte, tutte le condizioni che rendono maturo un paese, vorrà dire che non mi sono spiegato;
7. analogamente, se qualcuno mi chiede di dirgli una volta per tutte quando bisognerà impedire a qualcuno di esprimere le sue idee invece che battersi alla morte, vorrà dire che non mi sono spiegato. Aggiungo solo che oggi, in Italia, il paradigma per me vale eccome;
8. se qualcuno giudica che allora le regole del gioco democratico non sono mica ben fondate, vuol dire a parer mio che non ha meditato abbastanza sul punto 2 di questo elenco
9 se qualcuno giudica che allora la democrazia è solo una finzione, che io sarei pronto a strappare quando la vedessi in pericolo, ma è troppo comodo perché a decidere se strappare la finzione sarei solo io, vuol dire a parer mio che non ha meditato abbastanza su questo elenco, nonché su quanto trova sotto ‘Quarto’.
 
Sesto. Nei commenti Girolamo de Michele trova che il paradigma volterriano sia “una delle più stringenti definizioni di democrazia”. E pensa che è “perfettamente democratico” avversare chi non la condividesse: non c’è da battersi fino alla morte perché possa esprimere le sue idee Tizio che pensa che va sgozzato colui il quale non condivide le sue stesse idee. Domando a GDM: crede lui che bisogna battersi fino alla morte perché possa esprimere le proprie idee Caio che pensa che non c’è da battersi fino alla morte perché l’altro possa esprimere le proprie idee? Senza pensare che gli altri che non sono d’accordo con lui vadano sgozzati, Caio mostra di non condividere la “metaregola” della democrazia: è ‘automaticamente’ fuori dallo spazio democratico? Gli tocca di esprimere le sue idee, oppure va censurato? C’è uno spazio ampio che va da Tizio sino a Caio: come lo regoliamo? Se io fossi Caio, questo mio post andrebbe censurato? C’è una regola per decidere quando la metaregola è violata?
(En passant, sono molto contento che GdM rifiuti lo scherzetto ratzingeriano della ‘dittatura del relativismo’, ma non ho ben capito se la rifiuta per motivi formal/procedurali, perché la considera una mera scorrettezza logica, o per altro. Quanto a me, io propendo per altro).
 
Settimo. Dopo un attimo di sconcerto e il tentativo del Preside di farmi esprimere comunque una preferenza, il Collegio tornò a votare… capita. Io riuscii ad attirare prima la stupefazione, poi l’aperta ostilità di entrambe le fazioni in lotta, a causa della mia impertinenza. E imparai che ti può riuscire di passare per antropologicamente superiore tuo malgrado, anche se non soprattutto quando ti senti semplicemente non adeguato alla cosa e non presente ad essa.

La palma della migliore analisi del voto

"I temi che abbiamo introdotto nella campagna elettorale con l’Appello per l’Occidente sono stati centrali e forse determinanti per la tenuta del centrodestra".

"La questione della nostra identità e delle nostre radici, l’anemia dell’Eurpa, i valori della vita e della persona, i temi etici, la crisi dei modelli di integrazione e i rischi del fondamentalismo terrorista, hanno costituito un corpus a cui gli elettori hanno mostrato di prestare grande attenzione al punti di farli pesare nell’urna"

Ma il Presidente Pera dove l’ha fatta la campagna elettorale? Forse sui bastioni di Lucca era tutto un parlare di valori e di crisi dei valori, però nel resto d’Italia non ce ne siamo accorti, e abbiamo sentito parlare piuttosto di tasse e cuneo fiscale, di ICI e legge 30 (e ovviamente dei comunisti).

Mammone

"A peculiarly Italian part of the problem is the stay-at-home son, or mammone". L’inchiesta di Time Europe, una settimana fa.

L'immagine nei secoli

Ieri sulla questione dell’immagine ho sentito discutere due tra i maggiori studiosi italiani di estetica in Italia, Pietro Montani e Paolo D’Angelo (invitati da Pina De Luca e Aldo Trione, padroni di casa). L’occasione era l’ultimo libro di Emilio Garroni, scomparso lo scorso anno. Io non ho letto il libro, e conosco poco anche l’opera di Garroni: il mio giudizio riguarda dunque solo il dibattito di ieri, che ha ruotato intorno a una nozione cardine dell’estetica di Garroni, quella di immagine interna – che si trova più o meno dove si trovava lo schema nell’opera di Kant: l’immagine interna non è una figura esteriore, e non è nemmeno un concetto.
Ora, mi ha molto colpito che gli autorevoli studiosi non dedicassero nessuna particolare riflessione al carattere terribilmente problematico di questa idea, che noi si abbia un’immagine interna. Tanto più che questa immagine interna, ben lungi dal fare problema, è chiamata a risolvere tutti i problemi che si presentano, per dir così, “all’esterno”. Ero pronto a domandare per esempio (per esempio, perché un nugolo di domande mi ronzava attorno): ma esistono figure interne? Se sì, come si distinguono dalle immagini interne?; se no, vi rendete conto che la coppia interno/esterno è solo uno strano trucco inventato secoli fa per fare quella distinzione che altrimenti non si saprebbe come fare?
 
Ero pronto a domandare questo, quando il telefono si mette a vibrare. Esco: "Massimo. Enrico sta piantando un piccio che non finisce più, non è che puoi venire? Non lo riesco a calmare". E così sono corso all’Isola di Peter Pan. Ma, giunto lì, vedo Enrico giocare allegro insieme agli altri bambini.
 
Me lo immaginavo.
 

Il ritratto nei secoli

Magiste riporta un bell’articolo di Lucetta Scarafia, che è andata a vedere Antonello da Mesina e ne scrive:

"questo imparegiabile maestro del ritratto ci fa quasi toccare con mano – nei sogetti sacri ma anche in quelli profani – come i suoi volti umani così intensi e speciali nascano dall’umanità dei suoi Ecce Homo e delle sue Madonne. Per interpretare il volto specifico e farci cogliere la sua personalità unica e irripetibile al di fuori di ogni tipizzazzione data da ruolo sociale ed età – operazione riuscita ad Antonello con una intensità forse ineguagliata – bisogna prima avere meditatto sul volto di Dio incarnato".

La tesi non è nuova (e Scarafia infatti comincia da Hegel): solo col cristianesimo, con il Dio che si fa uomo, con l’uomo ad immagine di Dio, "ogni essere umano nella sua unicità è anche infinitamente interessante e la sua vita, anche banale, assume un senso, e perciò Antonello e l’arte occidentale lo ritrae.

La domanda però è: quanti secolo ci vogliono perché dal Dio che si fa uomo si arrivi al ritratto (al ritratto dell’uomo "unico e irripetibbile" non del tipo del santo o dell’eroe), a "questa forma d’arte così poco diffusa al di fuori dell’Occidente, cioè dei paesi di matrice culturale cristiana – [che] nasce proprio da una tradizione religiosa che si fonda sull’Incarnazione, su un Dio che ha preso fattezze e debolezze umane"? Se ci vuole il cristianesimo per l’arte del ritratto, cos’altro ci vuole, visto che passano diversi secoli prima che quell’arte si affermi?

Si capisce allora che questa non è "un’altra prova, se ce ne fosse bisogno, che la cultura europea è impensabile senza l’apporto del cristianesimo e del suo Dio fatto uomo", ma è una prova, se ce ne fosse bisogno, che la cultura europea è impensabile senza molte cose, mica solo senza l’apporto del cristianesimo. Diciamo anzi: l’apporto del cristianesimo e un millennio e rotti anni di altra robba, perché si arrivi a ritrarre al naturale un uomo specifico e a cogliere la sua personalità unica e irripetibile.