Collegio dei Docenti, Roccadaspide, anno del Signore 1999 (che i muri ancora se lo ricordano). Siamo chiamati a decidere sull’organizazione dell’insegnamento di Educazione Fisica. È in corso una lotta furibonda: basta professori per classi o corsi, un docente si tenga tutti i maschietti, un altro le femminucce.
Favorevole contrario contrario favorevole contrario favorevole mi astengo…
Come ti astieni? Mi astengo. E perché? Ma, sto qui da pochi giorni, l’anno prossimo non ci sarò, vedo che ci sono problemi logistici, però d’altra parte.. mi astengo, insomma.
Favorevole contrario favorevole contrario…
Colegio spacato a metà come una mela: ics favorevoli, lo stesso numero contrari, un astenuto. lo.
Ora, questa cosa della
spaccatura a metà fa una certa impresione. (Gli analisti fanno oh). Mi domando, per cominciare: 51 a 49, il paese è spaccato a metà? 52 a 48? Con quali numeri il Paese non è spaccato a metà? Se andava come per certi sondagi, o come gli exit poll nell’ipotesi estrema (quella trionfale per l’Unione), 54 a 46, avremmo letto: paese spaccato a metà? Se 13664 elettori in più rispetto alla metà avesse votato a sinistra (centrosinistra), avremmo avuto, più o meno, 54 a 46: il Paese non sarebbe stato spaccato a meta? Non avremmo più avuto una meta del Paese che, eccetera eccetera? Ma cosa sono meno di un milione e mezo di elettori su poco più di 34 milioni e mezzo di elettori (il corpo elettorale del Senato, mi pare: alla Camera è più ampio, mentre gli italiani tutti sono molti di più)? Politicamente quel numero è di sicuro una bella grandezza, in grado di determinare – come si dice – magioranze nette in entrambe le Camere, ma poiché le analisi tracimano dallo spazio politico e divengono analisi sociologiche, culturali, addirrittura antropologiche, la domanda è:
non vi accorgete che qualunque esito ragionevole del voto, più o meno prevedibile, dal 50 a 50 al 54 a 46, avrebbe spaccato grosso modo a metà l’Italia?
Secondo. Nel 2001 mi risulta che la CdL ha vinto le elezioni. Mi pare di ricordare che in termini di voto popolare la CdL era avanti anche nel 1996, e nel 1994. Succede questa cosa che l’Unione vince di stretissima misura (in termini di voto popolare è anzi indietro al Senato, almeno nei confini del territorio nazionale) e tutti a chiedersi, a sinistra, come diavolo è potuto accadere. Com’è possibile che ci siano 17 milioni di elettori che votano la CdL. Violando un certo costume, ho dedicato ben due post all’insulto berluconiano agli elettori che votano contro il loro interesse (cioè: irragionevolmente) per la sinistra, ma vedo che per molti, a sinistra, il voto per la CdL è proprio il voto dei coglioni, o di coloro che sono instupiditi dalla televisione, oppure dei furbi che però si vergognano di dirlo ai sondaggisti. In ogni caso, un voto indifendibile razionalmente e moralmente e culturalmente. Non è granché, come analisi.
Terzo. Giulio Mozzi ha
formulato l’ipotesi: facciamo che ciascuno ha espresso ragionevolmente il proprio voto. L’ipotesi mi pare corisponda a quanto suggerisco anch’io al punto 2 e di cui sono passabilmente convinto (ovviamente non dico che ciascuno e tutti hanno espresso un voto libero, meditato, serio, responsabile e informato, ma dico che queste sono più o meno le caratteristiche del voto del paese tutto, e in generale del voto nei paesi liberaldemocratici). Però Giulio aggiunge: fatta questa ipotesi, ne verrebbe che la divisione non è meramente elettorale, ma antropologica, fra questa e quella metà della popolazione. Nego consequentiam. E osservo:
a. che questa e quella metà ci sono anche con un risultato di non quasi perfetta parità, e ci sono da un pezzo;
b che tolto il feticismo dei numeri e la quasi perfetta parità, questa e quella metà ci sono in un mucchio di paesi: tutti antropologicamente divisi?
c. che può ben darsi sia, antropologicamente parlando, più profonda per esempio la divisione tra chi vota e chi non vota (nonché altre divisioni che attraversano il corpo elettorale senza disporsi secondo lo schema Unione/CdL);
d. che un sistema maggioritario ‘produce’ risultati elettorali di due metà intorno al 50%: dobbiamo allora rassegnarci ad essere sempre un paese antropologicamente diviso, oppure lo siamo solo quando la divisione si fa prossima alla quasi perfetta parità?
e. che dalla quasi perfetta parità, razionalmente espressa da elettori responsabili, non si deduce affatto una divisione antropologica, come se un elettore responsabile, che quest’anno ha votato Udeur, non possa la prossima volta cambiare parere (rimanendo un individuo razionale e responsabile) e votare UdC o Forza Italia;
f. che la divisione antropologica, posto che gli elettori siano tutti individui responsabili che hanno espresso razionalmente il proprio voto, è dedotta, se è dedotta e deducibile, non dalla quasi perfetta parità del risultato espresso ma dall’idea che i due schieramenti per i quali s’è votato siano non semplicemente diversi, ma opposti e contrapposti. Ma questo e piuttosto quanto e da dimostrare: il carattere opposto e contrapposto dei due schieramenti non viene infatti dimostrato dal fatto che il voto serio e responsabile dell’elettorato ha diviso il Paese a metà. Non solo non è dimostrato ma, a mio parere (ma questo è solo un parere qui non motivato), non è vero.
Quarto. All’ipotesi di Giulio Mozzi,
Andrea Inglese risponde: se pero ci mettiamo a ragionare con quest’ipotesi, che fine fa un ottimo ferro del mestiere come la critica dell’ideologia? Inglese scrive: “Tutto quello che una persona pensa, sente e crede e “vero” per il semplice fatto che lo ha “veramente” pensato, sentito e creduto. Accettare questo principio significa voler ignorare una parte della realtà. Significa ignorare il grado di manipolazione della realtà che può essere perpetrato attraverso canali diversi”.
Andrea Inglese ha ragione, anche se qui non discuto se ha poi ragione nel dettaglio, quando accenna alla capacità di manipolazione di Berlusconi e più in generale quando traduce tutto ciò che va criticato in termini di manipolazione – ma immagino sia una semplificazione richiesta dalla brevità. (Aggiungo en passant che trovo peraltro insopportabile ridimensionare il peso della televisione, e al contempo lottare come matti per occupare ogni spazio televisivo possibile). Ma osservo:
il principio che Inglese trova inaccettabile è certo inaccettabile sul piano metafisico, sul piano dell’analisi sociologica, e su molti altri piani (ivi compreso, a volte, il piano delle più banali relazioni interpersonali), ma lo spazio politico delle liberal-democrazie e costruito proprio su quella base di principio o, se si vuole, su quella finzione giuridico-politica. Perche non appaia una finzione odiosa, perché tutto lo spazio politico liberal-democratico non appaia una generale manipolazione (come peraltro può apparire e appare, in certe prospettive critiche radicali, sia a sinistra che a destra) io aggiungo che quella finzione mi pare al momento quanto di meglio abbiamo per costruire (idealmente, non domattina) un individuo libero, serio e responsabile. Altre strade per ora non hanno dato buona prova. Potrei aggiungere qualcosa sulla caratteristica di questa strada, ma non e la cosa in discussione. Faccio solo notare ancora che adottare la prospettiva di una critica dell’ideologia può essere persino salutare, sul piano scientifico come sul piano sociale e su chissà quali altri piani, ma questo non vuol dire che salutare sia sempre e su ogni piano, e per esempio che lo sia su quello politico, dove la delegittimazione dell’ideologia (non ho dificoltà a chiamarla così) liberal-democratica non sarebbe indolore. Aggiungo infine e ripeto che a mio avviso una tale delegittimazione sarebbe cosa buona e giusta qualora non si ritenesse che la costruzione di individui liberi e responsabili passi – idealmente, e sul terreno politico – attraverso quella finzione, ma che anzi quella finzione la ostruisca irrimediabilmente, come per esempio ritiene oggi un guru molto ascoltato dalla sinistra radicale, Slavoj Zizek).
Quinto. Credo che Giulio Mozzi abbia scritto
Sfuggire al paradigma volterriano anche per approfondire meglio certi aspetti della sua ipotesi che erano venuti fuori dalla discussione. Il ‘paradigma volterriano’ suona com’è noto così:: “
non condivido le tue idee, ma mi batterò fino alla morte perché tu possa esprimerle”. Giulio domanda: è valido questo paradigma? Ci sono molti modi per dire: le tue idee sì, ma fino a un certo punto (oppure: il paradigma di Voltaire sì, ma a certe condizioni). Alla domanda di Giulio rispondo,
horribile dictu: dipende. Se Giulio mi chiede se per me è valido universalmente, sempre, in ogni luogo e in ogni forma di relazione umana e interpersonale gli rispondo che no, per me non è valido in un simile modo (modo per il quale per me non è valido un bel nulla, se posso dire semplicemente). Se qualcuno mi chiede: ora che ne hai limitato la validità come farai a dire chi decide quando e come limitare e perché, ecc. ecc., a chi così mi chiede dò la seguente risposta: lo dirò caso per caso (dove i casi possono essere grandi come epoche storiche, o piccoli come individui singoli). A chi mi dice: ma questo è relativismo! Peggio: è relativismo con un sobbalzo decisionistico del tutto arbitrario, perché poi alla fine occorre decidere, ecc. ecc., a costui dovrei fare un discorso lungo che vengo facendo spesso e che però qui riassumo soltanto, così:
1. ho scritto ‘dirò caso per caso’, ma la prima persona singolare è un modo per far presto: A volte a dirlo è la storia, oppure il costume di un paese, oppure ecc. ecc.: dipende.
2. questo genere di risposte appare insoddisfacente solo a chi vuole una regola valida sempre e comunque, e a chi non riesce a capire che una regola valida per lo più è comunque una regola (anzi: così sono tutte le regole: valide per lo più. Infatti:);
3. è nella natura della regola la possibilità della sua disapplicazione;
4. è nella natura della regola non contenere tutti i casi della sua possibile applicazione (su questi punti, Wittgenstein docet);
5. che una regola si applichi – per dir così – da sé è una finzione. Se la regola è la regola del gioco democratico, che vada da sé significa solo (ma è tanto) che, lo dico in breve, il paese nel quale è adottata è un paese maturo dal punto di vista democratico. Con l’espressione ‘paese maturo’ mi riferisco all’insieme di condizioni non formali che permettono alla regola democratica di ‘andare da sé. Tra queste condizioni non formali metto questa (non è l’unica, ovviamente, ma è importante): che il paese si rappresenti come un paese maturo. (En passant, è da paese maturo, nel senso che così si rappresenta, quel paese in cui l’esito delle elezioni è accompagnato dall’ammissione della sconfitta da parte dello sconfitto, o almeno da chiare espressioni di fiducia nelle procedure con le quali il voto è contato, certificato, proclamato);
6. se qualcuno mi chiede di elencargli, una volta per tutte, tutte le condizioni che rendono maturo un paese, vorrà dire che non mi sono spiegato;
7. analogamente, se qualcuno mi chiede di dirgli una volta per tutte quando bisognerà impedire a qualcuno di esprimere le sue idee invece che battersi alla morte, vorrà dire che non mi sono spiegato. Aggiungo solo che oggi, in Italia, il paradigma per me vale eccome;
8. se qualcuno giudica che allora le regole del gioco democratico non sono mica ben fondate, vuol dire a parer mio che non ha meditato abbastanza sul punto 2 di questo elenco
9 se qualcuno giudica che allora la democrazia è solo una finzione, che io sarei pronto a strappare quando la vedessi in pericolo, ma è troppo comodo perché a decidere se strappare la finzione sarei solo io, vuol dire a parer mio che non ha meditato abbastanza su questo elenco, nonché su quanto trova sotto ‘Quarto’.
Sesto.
Nei commenti Girolamo de Michele trova che il paradigma volterriano sia “una delle più stringenti definizioni di democrazia”. E pensa che è “perfettamente democratico” avversare chi non la condividesse: non c’è da battersi fino alla morte perché possa esprimere le sue idee Tizio che pensa che va sgozzato colui il quale non condivide le sue stesse idee. Domando a GDM: crede lui che bisogna battersi fino alla morte perché possa esprimere le proprie idee Caio che pensa che non c’è da battersi fino alla morte perché l’altro possa esprimere le proprie idee? Senza pensare che gli altri che non sono d’accordo con lui vadano sgozzati, Caio mostra di non condividere la “metaregola” della democrazia: è ‘automaticamente’ fuori dallo spazio democratico? Gli tocca di esprimere le sue idee, oppure va censurato? C’è uno spazio ampio che va da Tizio sino a Caio: come lo regoliamo? Se io fossi Caio, questo mio post andrebbe censurato? C’è una regola per decidere quando la metaregola è violata?
(En passant, sono molto contento che GdM rifiuti lo scherzetto ratzingeriano della ‘dittatura del relativismo’, ma non ho ben capito se la rifiuta per motivi formal/procedurali, perché la considera una mera scorrettezza logica, o per altro. Quanto a me, io propendo per altro).
Settimo. Dopo un attimo di sconcerto e il tentativo del Preside di farmi esprimere comunque una preferenza, il Collegio tornò a votare… capita. Io riuscii ad attirare prima la stupefazione, poi l’aperta ostilità di entrambe le fazioni in lotta, a causa della mia impertinenza. E imparai che ti può riuscire di passare per antropologicamente superiore tuo malgrado, anche se non soprattutto quando ti senti semplicemente non adeguato alla cosa e non presente ad essa.