Siamo alla trentanovesima settimana. Può darsi che già martedì prossimo i figli siano tre, ma mentre la seconda veleggia senza intoppi verso i sei anni, il secondogenito ha un intoppo: è stitico.
Non è un po’ stitico, non si tratta di mera pigrizia intestinale, come dice la
Marcuzzi, no: si tratta di una svogliatezza cronica, totale, assoluta. Mio figlio mangia tutte le verdure di questo mondo, tutti i legumi che gli vogliate servire, e i biscotti e la pasta integrali, le fibre e la crusca. Mio figlio prende tutti gli sciroppi che le multinazionali del farmaco hanno inventato per regolarizzare gli intestini di tutto il mondo, mangia pere da quando è nato, ma da quando è nato, ormai quasi tre anni fa, non c’è giorno che Dio manda in terra che lo abbia visto andare di corpo con regolarità, con scioltezza, con elegante disinvoltura.
Mio figlio fa i clisterini, i microclismi: come li chiamate? Le pompette. Lo stomaco entro in subbuglio; lui, poveretto, scalcia come un mulo, e finalmente si libera. Fino a un paio di mesi fa, abbiamo atteso a volte tre, a volte quattro, una volta persino sei giorni prima di intervenire con il clisterino. Da un paio di settimane, esigiamo da lui che faccia cacca ogni giorno.
Telefono azzurro è sulle nostre piste.
La sera, dalle ore 21.00 alle ore 22.00 circa, va in scena per l’udito dei vicini
lo sgozzamento del maiale. Qui siamo in campagna, c’è ancora chi ricorda quali urla mandasse il secondo maiale dopo che ha sentito l’odore del sangue del suo compagno di porcile, e come scalcia quando lo si vuole legare per issarlo sul tavolaccio e scannarlo. Quelle urla si odono la sera. E pure quei calci. Fai la cacca, Enrico. Forza, fai la cacca. Enrico, fai la cacca. Spingi. Dai, spingi. Fai la cacca sennò domani esce dura. Fai la cacca sennò non ti racconto la storia. Fai la cacca per la mamma, fallo che lo diciamo a nonna. E falla, maledizione!
A volte mio figlio chiede la presenza dell’intero nucleo familiare in bagno; a volte prova a spingere ma proprio non ce la fa; altre volte si rifiuta ostinatamente. Poi chiede di farla sul vasetto, nel pannolino, nel lavandino, mentre lo tiene papà, mentre lo tiene mamma, mentre lo guarda Renata, da solo, in compagnia, prima, dopo, dopo che ha lavato i denti, dopo che ha dormito, dopo che gli ho raccontato la storia, dopo.
Quando esce, la cacca esce quasi sempre dura e preziosa come un diamante. Ultimamente un po’ meno, poiché stiamo cercando di fargli fare cacca ogni giorno, proprio per evitare che sia troppo dura, gli faccia male e lui si rifiuti di spingere. Ma è un’impresa titanica, che richiede una pazienza jobica, e molto tempo a disposizione. E siamo alla trentanovesima settimana.
(E perché il Kitsch, mi chiederete? Ma per le ragioni che teorizza Duque. Scrive infatti Milan Kundera: “E’ questa una parola tedesca nata nella metà del sentimentale diciannovesimo secolo e poi propagatasi in tutte le lingue. A furia di usarla, però, si è cancellato il suo significato metafisico originario: il Kitsch è la negazione assoluta della merda, in senso tanto letterale quanto figurato: il Kitsch elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell’esistenza umana è essenzialmente inaccettabile”).