E’ vero che non sono un esperto di diritto processuale, ma se è per questo non lo è neanche l’attuale Ministro di Giustizia, e dunque mi sarà consentito avanzare la mia personale idea di riforma della giustizia.
Che muove da questa elementare considerazione: è un principio di civiltà giuridica, a garanzia del cittadino, che sia fissato per legge il termine entro il quale debbono essere svolte le indagini. Lo stesso dicasi per la perseguibilità di un reato. Come non si può rimanere sotto indagine per una vita, così non si può essere mandati a processo a distanza di decenni dai fatti imputati (fatte tutte le eccezioni che volete). Ciò considerato, non si vede perché non debba rientrare tra i diritti elementari di un cittadino quello di conoscere anche la durata certa del processo al quale è sottoposto. È più civile un paese che tiene i suoi cittadini sotto processo per anni, o peggio per un tempo indeterminato, oppure un paese che dica prima al cittadino: ti processo in tot giorni (e che eventualmente rinunzi ad alcuni processi per l’impossibilità di rispettare tempi ragionevoli)? Questo significa che al momento del rinvio a giudizio, le parti, l’accusa e la difesa, concordano – entro termini minimi e massimi stabiliti dalla legge – quanto ritengano che debba durare il processo, carte alla mano (valutato cioè il numero di udienze di perizie di testimoni necessari per lo svolgimento del rito). Le parti concordano innanzi a un giudice, che decide qualora l’accordo non venga trovato. Ora non fatemi scendere nei particolari: è chiaro ad esempio che si potrebbe senza difficoltà tutelare il diritto delle parti di ricorrere avverso le decisioni del giudice, così come è chiaro che incidenti processuali potrebbero modificare ragionevolmente la durata (ad esempio: cause di forza maggiore, nuovi elementi di prova, nuove fattispecie di reato che dovessero emergere nel corso del procedimento). Quel che sarebbe importante stabilire, è il principio della certezza della durata del processo (magari sono solo ignorante, e il principio c’è già. Magari c’è in altri paesi, e non funziona).
Da questo principio discende una cosa della massima importanza: la procura o il singolo magistrato potrebbero non chiedere il rinvio a giudizio per mancanza di tempo (poiché è chiaro che il primo intervallo di tempo per il quale dovrebbe essere stabiliti dei limiti massimi, fatto salvo un margine di discrezionalità del giudice, è quello che trascorre da un’udienza all’altra). Ora invito tutti a ragionare con freddezza: l’obbligatorietà dell’azione penale, che vige adesso, nei fatti non c’è, per la quantità di procedimenti che gravano su ogni singolo ufficio. Il che significa che è il capo dell’ufficio a decidere quali pratiche mandare avanti. Dunque, non è quello il problema, Ma la si potrebbe persino mantenere formalmente, se proprio si vuole: l’azione penale potrebbe essere avviata, e sarebbe responsabilità di chi l’ha istruita mettere indicazione espressa del perché non la si è condotta sino al processo, quando appunto vi si rinunzi. Potrebbe dipendere da carenza di organico, o di strutture, come anche da elementi soggettivi, tipo l’inerzia del magistrato, o da scelte di politica della giustizia (anche queste, invito a pensarci: di fatto ci sono già). Non m’importa adesso stabilire pure chi dovrebbe avere la responsabilità di compiere quelle scelte (il singolo magistrato, il presidente di una corte, il capo di una procura, il CSM, il Ministro, il Parlamento): quel che mi importa, è che per questa via si potrebbe non soltanto mettere sotto controllo il fattore tempo – quello decisivo – ma si avrebbe anche un sistema di valutazione passabilmente oggettivo del lavoro dell’ufficio. Capite l’importanza?
Aggiungo ancora due cose. La prima: la mia riforma suppone, per ovvi motivi, la separazione delle carriere. Il giudice, infatti, interviene su un aspetto troppo sensibile dell’intero corso della giustizia per lasciare che sia più vicino a una delle due parti (e comunque, indipendentemente dalla mia idea di riforma, io sono per la separazione).
La seconda. Al primo che mi dice che è troppo macchinoso calcolare quanto tempo ci vuole per questo o per quello, risponderò: tu una riforma non la vuoi fare. O non sai come si fa. È una malattia formalistica tutta italiana quella di non voler mai confidare nella ragionevolezza delle persone (che siano chiamate a giudicare assumendosi la responsabilità del loro giudizio). Per come la vedo io, più è ampio il margine di decisione del giudice sui tempi, e meglio è; per come la vedo io, tutti sono in grado di vedere quale procura lavori meglio e di più e in quale direzione e quale di meno. E poi, se ad esempio devo scrivere un saggio, e mi impegno con un editore a consegnarlo, è evidente che fornisco una stima ragionevole del tempo che credo di impiegare. Potrò sbagliarmi, ma questo non impedisce che nel contratto che stipulo io accetti che siano incluse penali, se per esempio il contratto prevede anche un congruo anticipo perché io inizi subito a lavorare. Insomma, tutti noi calcoliamo il tempo delle nostre azioni a spanne, assumendoci il peso delle conseguenze nel caso di calcoli errati. Ma se, come dice Pascal, non lavorassimo per l’incerto, non lavoreremmo mai. Non vedo dunque perché non lo si possa fare per l’organizzazione dei processi.
(È inutile che vi dica che è il processo di calciopoli che mi ha fatto pensare alla cosa. Tutti a dire che i diritti della difesa in quel caso sono stati compressi dall’esigenza di far presto. Ma questo non c’entra nulla con la mia proposta, che coinvolge la difesa nello stabilire quei tempi, convinto come sono che non c’è imputato innocente (ma anche colpevole) che non abbia innanzitutto interesse a sapere quando arriverà la sentenza).
P.S. Il presente post non è tutelato da copyright, e quasi me ne spiace. Comunque, se è il caso, avvertite Clemente. O almeno Giuliano Pisapia, che mi pare persona intelligente.