Prima si spiega che la fede cristiana ha "l’esigenza strutturale" di incontrarsi con la ragione; poi si spiega che anche la ragione ce l’ha, "a meno che essa, la ragione, non decida di restringere il suo ambito ed il suo uso; a meno che non decreti un’autolimitazione del suo esercizio al verificabile nel senso stretto del termine". E’ un discorso che il cardinal Caffarra fa scendere dritto e filato dalle parole del Papa a Ratisbona (via rubytuesday).
Ora, io posso ben evitare di restringere l’esercizio della ragione al verificabile in senso stretto e tuttavia non incontrare affatto, né sentire l’esigenza strutturale di incontrare, la fede cristiana. Ma: passi. Quel che non capisco è come la ragione faccia questo: "decidere", "decretare". Son cose razionali, queste? Sembrerebbe di no, per Caffarra (non lo vedo sostenere che la ragione fa bene a decidere e decretare di autolimitarsi). E allora come fa la ragione a farle, queste cose, e ad essere ancora ragione? La ragione che decide di restringersi è invece una ragione già traviata – traviata già prima del restringimento (proprio perciò, oplà: si restringe). Non è, sin dall’inizio, una vera ragione. Si crede così di vincere una partita avendo imposto prima i ruoli in cui ciascuno deve giocare. E non vi è nulla di razionale – o perlomeno non si dimostra nulla – nel discutere dell’incontro tra fede e ragione presupponendo un certo concetto di ragione, e sostenendo previamente (ed implicitamente) che la ragione che non si incontra con la fede e non è all’altezza di questo concetto ha qualcosa di guasto.
(Per indicare questa autolimitazione Caffarra scrive: "possiamo accettare che la ragione umana non giudichi, non verifichi la verità della risposta ai grandi interrogativi propriamente umani?". Beh, certo che possiamo: non è che siccome un interrogativo mi urge deve poter ricevere risposta. Mi sembra anzi piuttosto irragionevole ritenere il contrario. Però Caffarra prosegue dando a intendere che senza queste risposte per gli uomini è un bel guaio, e un bel guaio è inaccettabile).
La seconda lezione ha uno iato impressionante tra la domanda di senso – va bene: falla, non voglio negartela – e la risposta. Caffarra potrebbe lasciarsi sfiorare dal dubbio che non è razionale rispondere a una domanda solo perché è scandaloso che non vi sia risposta? La terza lezione invece dimostra che la risposta – il fatto cristiano – è credibile e deve essere creduta. E’ credibile quanto una testimonianza: Caffarra spiega che si tratta di credere non a fatti, ma a chi dice che i fatti sono: Cristo è risorto. Il che significa che la credibilità ‘morale’ di chi testimonia supera infinitamente la natura di ciò che è testimoniato. A voler tutto concedere: è razionale, questo? (Quanto a ciò che deve essere creduto, si tratta della percezione del valore di quel che è creduto, ossia: mi va bene (va bene all’uomo). Qui Caffarra dovrebbe mettere in campo l’antropologia. Non lo fa, sicché c’è poco da discutere).