Archivi del giorno: dicembre 8, 2006

Lexicon

Il philosopher’s lexicon curato da Daniel Dennett è uno strumento molto utile e brillanti. riporto alcune voci, particolarmente riuscite:

a rortiori, adj. For even more obscure and fashionable Continental reasons
austintatious, adj. Displaying in a fine sense the niceties of the language. "I’m not sure what his point was, but his presentation was certainly austintatious."
 
derrida. From a old French nonsense refrain: "Hey nonny derrida, nonny nonny derrida falala."
deweyite, adj. Full of vague and impractical but well-intentioned ideas.
dreyfus, n. (from "dry" & "fuss") An arid ad hominem controversy. "What began as an interesting debate soon degenerated into a dreyfus."
 
gadam, v. To expound the meaning of abstruse writings, dreams, arcane and necromantic symbols, and the rest of the universe, in ways pleasing to the humanist. Hence, gadamer, n. one who gadams. Hence, also the adjective, gadam, gadamer, gademest, of or pertaining to the activity of gadaming. "I done my gadamest."
 
habermass, (from the Middle High German halber Marx; cf. ganzer Marx) n. A religious ceremony designed to engender an illusion of understanding through chants describing socio-economic conditions. Hence also, habermass, v. "He habermassed Einstein; he attempted to deduce the special theory of relativity from the social structure of the Zurich patent office." "Nothing but a gadam habermass" – H. S. Truman.
heidegger, n. A ponderous device for boring through thick layers of substance. "It’s buried so deep we’ll have to use a heidegger."
 
hintikka, n. A measure of belief, the smallest logically discernible difference between beliefs. "He argued with me all night, but did not alter my beliefs one hintikka."
 
jaspers, n. The hours when darkness returns; a time for self-examination, and meditation upon the human condition
 
kripke, adj. Not understood, but considered brilliant. "I hate to admit it, but I found his remarks quite kripke."
 
lacanthropy, n. The transformation, under the influence of the full moon, of a dubious psychological theory into a dubious social theory via a dubious linguistic theory
 
marcuse, v. To criticize vehemently from a Marxist perspective. "Je marcuse!" – J. P. Sartre.
Mi fermo alla lettera emme, ma lo spasso continua.

Ermeneutica e diritto

…Altro scaffale: filosofia del diritto. Mi cade l’occhio su un volume collettaneo recente, Diritto e interpretazione (Laterza), curato da Viola e Zaccaria. Purtroppo è escluso dal prestito e non posso portarmelo a casa. Allora lo sfoglio un po’. Poi vedo che i due autori hanno curato anche un più svelto manuale per Il Mulino, Le ragioni del diritto (in una collana in cui è uscito un Manuale di retorica di O. Reboul, da me adottato negli anni scorsi a Retorica e stilistica su richiesta della Facoltà – che è quanto di più impoverente si possa leggere in materia). Per far presto, dò un’occhiata ai paragrafi che i due autori (che mi sembrano essere la punto di lancia di questa teoria ermeneutica del diritto) dedicano al nostro problema (pp. 215 e ss.):
 
"Ne consegue, se tutto questo è fondato, la caduta di ogni distinzione, nel caso del diritto e dell’interpretazione giuridica, di ogni distinzione tra interpretazione e applicazione".
E’ il punto che ho dscusso: si può criticare l’ermeneutica da un punto di vista esterno. Tuttavia, da un punto di vista interno, che è quello da me adottato, ce n’è tuttavia abbastanza per considerare queste vere e proprie aberrazioni. Gli autori citano poi classicamente Hart, e la distinzione tra "nucleo di significati chiari e zone di penombra", che non viene rifiutata, ma si aggiunge:

"Non è evidentemente possibile sapere aprioristicamente quali sono le formulazioni normative il cui significato sia equivoco e desti perplessità, proprio perché solamente la complessità e la ricchezza dell’esperienza giuridica sono in grado di precisare se il significato delle regole sia chiaro e non controverso: sono le circostanze a renderlo tale. Insomma, si può sapere compiutamente se un caso è chiaro o scuro, facile o difficile, solo
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D(["mb","dopo l’interpretazione e non prima di essa. Di conseguenza la teoria dell’interpretazione di Hart va rieltta abbattendo ogni confine tra interpretazione e applicazione del diritto"

n

Anche questo passaggio è abusivo e scorretto, e di nuovo: lo è all’interno di una prospettiva ermeneutica (ovviamente, è chiaro che se uno sta con Kelsen lo è ancor più, ma mi pare che il punto fosse quello di battere in breccia simili prospettive sul loro stesso terreno)n.

n

Ancora:

n

"Ogni caso che nella pratica si presenti è in un certo senso nuovo e diverso da tutti quelli che l’hnno fino a quel momento preceduto".

n

Questo è il manifesto dell’errore, il proton pseudos che i due autori vengono commettendo in queste pagine. Per farla breve, se è manifesto che in un certo senso, ecc., è manifesto pure che in un certo senso non è affatto nuovo né diverso. Ed è manifesto altresì che in tutti i casi in cui è possibile, è il senso in cui il caso non è affatto nuovo che va tenuto in considerazione. Se poi i due autori volessero qui obiettare: già, ma cosa significa ‘in tuti i casi in cui è possibile’? Non significa proprio, come noi sosteniamo, che non lo si può sapere nprima di prendere in considerazione il caso? Risponderei così: ma nient’affatto. Che io non possa fornire prima il criterio generale in base al quale distinguere tutti i casi che dovranno presentarsi in futuro secondo che siano ‘nuovi e diversi’ oppure no (altrmenti: secondo che si presentino come chiari secondo il diritto oppure in zona di penombra) non significa affatto che io non sappia distinguere nprima facie il caso nuovo e diverso da quello che nuovo e diverso. Significa anzi giusto il contrario. Proprio perché so distinguere, e so distinguere in forza della regola, non ho bisogno di una metaregola per l’applicazione della regola – e di valori che ispirino la mia applicazione. (Aggiungo che a mio parere, in sede teoretica è questo il punto che è possibile acquisire leggendo non superficialmente Wittgenstein. Di cui peraltro i due autori ricordano in queste pagine la discussione del n”,1]
);

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dopo l’interpretazione e non prima di essa. Di conseguenza la teoria dell’interpretazione di Hart va rieltta abbattendo ogni confine tra interpretazione e applicazione del diritto"

Anche questo passaggio è abusivo e scorretto, e di nuovo: lo è all’interno di una prospettiva ermeneutica (ovviamente, è chiaro che se uno sta con Kelsen lo è ancor più, ma mi pare che il punto fosse quello di battere in breccia simili prospettive sul loro stesso terreno). Ancora:
"Ogni caso che nella pratica si presenti è in un certo senso nuovo e diverso da tutti quelli che l’hnno fino a quel momento preceduto". Questo è il manifesto dell’errore, il proton pseudos che i due autori vengono commettendo in queste pagine. Per farla breve, se è manifesto che in un certo senso, ecc., è manifesto pure che in un certo senso non è affatto nuovo né diverso. Ed è manifesto altresì che in tutti i casi in cui è possibile, è il senso in cui il caso non è affatto nuovo che va tenuto in considerazione. Se poi i due autori volessero qui obiettare: già, ma cosa significa ‘in tuti i casi in cui è possibile’? Non significa proprio, come noi sosteniamo, che non lo si può sapere prima di prendere in considerazione il caso? Risponderei così: ma nient’affatto. Che io non possa fornire prima il criterio generale in base al quale distinguere tutti i casi che dovranno presentarsi in futuro secondo che siano ‘nuovi e diversi’ oppure no (detto altrmenti: secondo che si presentino come chiari secondo il diritto oppure in zona di penombra) non significa affatto che io non sappia distinguere prima facie il caso nuovo e diverso da quello che nuovo e diverso. Significa anzi giusto il contrario. Proprio perché so distinguere, e so distinguere in forza della regola, non ho bisogno di una metaregola per l’applicazione della regola – e di valori che ispirino la mia applicazione. (Aggiungo che a mio parere, in sede teoretica è questo il punto che è possibile acquisire leggendo non superficialmente Wittgenstein. Di cui peraltro i due autori ricordano in queste pagine la discussione del
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D(["mb","follow the rule, e ricordano pure la lettura di Saul Kripke, Wittgenstein su regole e linguaggio privato, a cui mi sono ispirato anch’io, ma mancano il punto essenziale: quando Wittgenstein arriva alla ‘forma di vita’ che sostiene la regola, vi arriva proprio per negare che vi sia sempre bisogno di interpretare, per negare che ogni applicazione della regola è un’applicazione della regola. Insomma: gli fanno dire il contrario di quel che vuole dire).n

n

 

n

Un ultimo punto molto ad hominem (p. 241):

n

"Mentre la tesi portante del giuspositivismo affermava lo stare in se stesso del diritto positivo il cui senso – inteso come dato di fatto – restava perciò identificato senza residui con i testi giuridici caratteristica fondamentale degli orientamenti ermeneutici è invece la delegittimazione di tale pretesa di autoconsistenza del diritto positivo".n

n

Ma attenzione! Se c’è una cosa che Gadamer (di cui Viola e Zaccaria sembrano pieni sino all’orlo) ha detto chiaro e tondo, è che l’enunciato giuridico ‘sta in se stesso’! E’ proprio perché si mantiene così, che si offre all’interpretazione. In fondo, qui Gadamer cercava di correggere quel primato dell’oralità che circola dappertutto nelle pagine di nVerità e Metodo. Cf. La verità della parola, saggio compreso in H. G. Gadamer, Linguaggio (a cura di D. Di Cesare, Laterza 2005, p. 26):

n

"Che l’interpretazione di una tale parola o di un tale testo [sc.: l’enunciato giuridico] rappresenti un peculiare compito creativo nell’ambito del diritto, non cambia in nulla né la pretesa dell’enunciato, che vuole essere in sé univoco, né la sua obbligatorietà giuridica". In breve, questo significa (persino per Gadamer): la parola giuridica è la parola che ‘fa testo’, e proprio perciò si offre all’interpretazione. Ma nessuna interpretazione può fare testo in luogo dell’enunciato.n

n

 

n

Ho finito. Spero che questi miei appunti siano per lei di qualche utilità. Ho preso in biblioteca un paio di libri, poiché, ripeto: so bene che lei vuole che giochi in casa mia, ma a mia volta voglio, impegnandomi in questo dialogo, che sia proficuo anche per me. E non potrei seguirla se non fossi un po’ a conoscenza dello status quaestionis. Mi dica lei se preferisce comunque che io mi tenga sulle mie, o mi consenta queste incursioni. Il fatto è che il mio primo interesse è cercare di mettere in evidenza come, proprio adottando un punto di vista ermeneutico, non c’è alcun bisogno di addivenire a conclusioni del tipo non c’è distinzione tra applicazione e interpretazione. Dopodiché, c’è probabilmente anche un discorso sui fondamenti che può e deve essere fatto, ma questo mi pare che deve muovere da eventuali sue indicazioni, per essere frutuoso: se cioè lei fosse interessato a discutere n”,1]
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follow the rule, e ricordano pure la lettura di Saul Kripke, Wittgenstein su regole e linguaggio privato, a cui mi sono ispirato anch’io [altrove], ma mancano il punto essenziale: quando Wittgenstein arriva alla ‘forma di vita’ che sostiene la regola, vi arriva proprio per negare che vi sia sempre bisogno di interpretare, per negare che ogni applicazione della regola è un’applicazione della regola. Insomma: gli fanno dire il contrario di quel che vuole dire).

Un ultimo punto molto ad hominem (p. 241): "Mentre la tesi portante del giuspositivismo affermava lo stare in se stesso del diritto positivo il cui senso – inteso come dato di fatto – restava perciò identificato senza residui con i testi giuridici caratteristica fondamentale degli orientamenti ermeneutici è invece la delegittimazione di tale pretesa di autoconsistenza del diritto positivo". Ma attenzione! Se c’è una cosa che Gadamer (di cui Viola e Zaccaria sembrano pieni sino all’orlo) ha detto chiaro e tondo, è che l’enunciato giuridico ‘sta in se stesso’! E’ proprio perché si mantiene così, che si offre all’interpretazione. In fondo, qui Gadamer cercava di correggere quel primato dell’oralità che circola dappertutto nelle pagine di Verità e Metodo. Cf. La verità della parola, saggio compreso in H. G. Gadamer, Linguaggio (a cura di D. Di Cesare, Laterza 2005, p. 26):

"Che l’interpretazione di una tale parola o di un tale testo [sc.: l’enunciato giuridico] rappresenti un peculiare compito creativo nell’ambito del diritto, non cambia in nulla né la pretesa dell’enunciato, che vuole essere in sé univoco, né la sua obbligatorietà giuridica". In breve, questo significa (persino per Gadamer): la parola giuridica è la parola che ‘fa testo’, e proprio perciò si offre all’interpretazione. Ma nessuna interpretazione può fare testo in luogo dell’enunciato.

Recensioni

La recensione più interessante al libro di Ferraris sotto citato è quella di Roberta De Monticelli. L’intero lotto delle recensioni è qui. Non mi fanno venire voglia di comprare il libro, ancor meno di leggerlo. In compenso, dialogo ai massimi livelli fra Odifreddi e Ferraris.

(Oggi, tutti a San Rufo, a caccia di cinghiali)