Caro Direttore,
è per me motivo di non poco imbarazzo leggere gli ultimi articoli di Emanuele Severino sul suo giornale. Sono tra quelli che riconosce a Severino il merito di avere scritto libri fondamentali per la comprensione dei problemi della filosofia; tanto più mi rammarico oggi perché uno dei maggiori filosofi teoretici viventi scrive articoli così superficiali e inutili. In quello apparso venerdì 5 gennaio (non online), egli si propone di mostrare la debolezza degli argomenti contro la pena di morte. Severino comincia col richiamare, su base storica, il fatto che “la comprensione giuridica della pena capitale è determinata dal contesto politico”. Ora, Severino sa che sulla base storica che utilizza non può dimostrare nulla di incontrovertibile circa la natura di queste determinazione, e nulla di incontrovertibile lui stesso può suggerire circa l’attuale contesto politico e la conseguente comprensione giuridica della pena. Sin qui, il suo articolo è dunque, rispetto alle tesi che sostiene, semplicemente inutile.
L’articolo prosegue. Severino ricorda un venerando principio; che il tutto è prima delle parti; ricorda come in politicis questo abbia significato che lo Stato viene prima degli individui; ricorda infine come questo abbia comportato che si considerasse giusto e legittimo mettere a morte un individuo quando fosse in pericolo lo Stato. Di queste posizioni che “sin dall’inizio” (ma non è affatto inizio, quello che Severino così chiama) appartengono alla nostra civiltà, Severino non offre la minima discussione, mentre il principio in questione non va affatto da sé, non va da sé l’idea che lo Stato costituisca una totalità, e neppure va da sé che per questo sia necessaria o comunque ben fondata la pena capitale. Però Severino discute la posizione abolizionista di Cesare Beccarla. Richiamata brevemente la costellazione illuminismo-contrattualismo alla quale Beccarla apparterebbe non senza ambiguità, Severino osserva che è errata l’idea di Beccarla, secondo la quale la pena di morte è in contrasto con il patto sociale che sarebbe secondo lui all’origine dello Stato: “Rousseau aveva già mostrato che tale contrasto non sussiste”. Può darsi, come può darsi di no. Di certo, non è una citazione del nome di Rousseau a risolvere la faccenda, e sotto questo aspetto l’articolo di Severino è decisamente sbrigativo e superficiale.
Ma Beccarla propone, a rincalzo, l’argomento secondo il quale non è vero che la pena di morte avrebbe un effetto deterrente massimo. Ancora oggi, ricorda Severino, Amnesty International si appella all’opinione maggioritaria secondo la quale la pena di morte non ha affatto questo effetto di deterrenza. Cosa ha da dire al riguardo Severino? Che “se la morte non è la pena più temuta da chi compie il massimo dei delitti, cioè l’omicidio, ne viene che la morte è una delle pene che sono più adatte a punire i delitti minori”. E, poi, che se c’è un’opinione maggioritaria ce n’è anche una minoritaria, e dunque perché non erogare la pena di morte, sia pure in un numero minore di casi, tenendo proporzionalmente conto anche di questa opinione?
Si può considerare nel merito l’opinione di Severino. Ma prima sarebbe opportuno segnalare che siamo giunti alla fine dell’articolo, e Severino ha ormai concluso che ci vogliono argomenti più forti di quelli discussi (s’è visto quanto approfonditamente) senza nulla aver detto circa l’essenza della pena, circa l’idea del diritto e della giustizia, circa tutto quello da cui si può far discendere o non discendere la legittimità e la liceità della pena capitale. Esclusa l’ignoranza, io mi chiedo come sia possibile che Severino non trovi tra gli argomenti degli abolizionisti e nel dibattito filosofico-politico contemporaneo nulla che discenda da una certa idea del diritto, della giustizia, della morale o della politica, nulla non dico che dimostri alcunché ma che perlomeno meriti la confutazione da parte di Severino. E se è probabile che nessun abolizionista crederà di portare argomenti così forti da essere logicamente incontrovertibili, è altrettanto probabile che i fautori della pena di morte non dispongano a loro volta di argomenti di una simile forza. Severino potrebbe considerare che sul piano dell’incontrovertibilità logica i due partiti dunque si equivalgono, ma questo non significa che si equivalgano sotto tutti i punti di vista. E in ogni caso, sarebbe materia di un articolo che Severino non solo non ha scritto ma a cui non ha nemmeno alluso. Eppure Kant, eppure Hegel – per dirne due con cui Severino non si dispiacerà di essere messo a pari – di simili cose hanno discusso, senza limitarsi alle superficiali considerazioni di Severino. (Se poi si obiettasse che Severino ha scritto su un quotidiano, osserverei, in primo luogo, che non si sta facendo un complimento al quotidiano e ai suoi lettori; in secondo luogo, che quando si propongono argomenti alla maniera di Severino, dovrebbe contar poco la sede in cui si espongono; e in terzo luogo che Severino stesso in altre circostanze non ha disdegnato di affrontare su questo giornale questioni di stretta attualità con un armamentario concettuale affilato, ove necessario rinviando ai suoi scritti maggiori. Questa volta non ha fatto nulla del genere, e si è dunque accontentato di essere superficiale).
Rimane il merito. Lascio perdere Beccarla e la coerenza del suo testo, e domando se sia vero quanto Severino scrive, che cioè, non essendosi dimostrato incontrovertibilmente che la pena di morte non ha una capacità di deterrenza superiore ad altre pene, non c’è motivo di escludere assolutamente la pena capitale dall’ambito del sistema penale. Severino ragiona come se l’erogazione di una pena, la sua entità, dipendesse solo dalla sua capacità di deterrenza: così, posto per ipotesi che la capacità di deterrenza della pena di morte è minima, perché non applicarla a reati minimi? Poiché non solo Severino, ma anche Beccarla e il sottoscritto sono in grado di vedere che in questa conclusione qualcosa non va – come non va qualcosa nella conclusione che si potrebbe trarre qualora si dimostrasse che nessuna pena ha capacità di deterrenza: ne verrebbe forse che il sistema penale andrebbe abolito? – è ben chiaro che, se non si discute della concezione filosofica e giuridica della pena soggiacente, tutte queste sono parole inutili. E’ quello che imputo a Severino: avere discusso in maniera del tutto sbrigativa e superficiale, avere finto di non vedere che l’argomento di Amnesty prende in considerazione l’opinione di chi fonda la legittimità della pena di morte sulla deterrenza, solo per mostrare che il nesso in questione è tutt’altro che dimostrato. Ma Amnesty, e gli abolizionisti in genere non sostengono che, qualora fosse dimostrato che la pena di morte ha l’efficacia deterrente maggiore di tutte le altre pene, allora andrebbe applicata.
Severino mette in premessa al suo articolo che mostrare le debolezze degli argomenti degli abolizionisti non significa essere favorevoli alla pena di morte. Allo stesso modo, mostrare la sostanziale inutilità della discussione di Severino non significa essere abolizionisti (e neppure disprezzare il Severino filosofo: tutt’altro). Non significa neppure considerare meglio fondata quella tal concezione della vita giuridica e politica di un paese, quella tal idea di morale, di diritto e di giustizia da cui discenderebbe una parola contro la pena di morte. Il fatto è che nulla di tutto ciò è entrato nell’articolo di Severino, e la presente lettera intende solo esprimerLe, caro Direttore, il rammarico per il fatto che Severino metta il suo nome e sprechi la sua intelligenza per discutere in questa maniera di ciò che meno rileva nell’ambito di una questione così urgente ed attuale. Se dunque c’è motivo per titolare l’articolo di Severino: Le tesi deboli contro il patibolo, come ha fatto il Suo giornale, Le assicuro che ce n’è almeno altrettanto per titolare: Di come si discuta inutilmente del patibolo.
Con stima,