Copio e incollo un estratto di una lettera di Anna Maria Ortese, ripubblicata da Francesco Forlani (su Lipperatura). La lettera ha ad oggetto la comprensibile, giustificata e anzi sacrosanta resistenza della scrittrice a vedere trasformate più o meno indebitamente conversazioni telefoniche in interviste (non entro però nella vicenda raccontata da Forlani, che mi pare tuttavia – e purtroppo – assai indicativa, e mi scuso se prendo queste parole a pretesto per una modesta considerazione di altro segno):
"La gente, nemmeno sospetta la differenza tra parlato e scritto. Se io dico qualche cosa – non è lo stesso se la scrivo. Scritto, significa pienamente persona. Parlato, è la vita a onde che ci muove. Se io ho diffidenza del mio parlato (non lo trovo veramente – totalmente mio) che sarà mai quando questo parlato – recepito in modo confuso da un estraneo – diventa lo scritto di questo estraneo, e mi viene attribuito come un momento di verità? Una mascherata, nient’altro".
Ora, i blog. Non mi riesce di considerarli ‘scritti’, e nemmeno ‘parlati’. Sono uno scritto parlato, o un parlato scritto. E con ciò mi giustifico. In un certo senso, il blog non lo trovo veramente mio. Questo dovrebbe in quello stesso senso spiegare quello che scrivo, e anche quello che non scrivo. Ed è pure la ragione per cui con il cielo significa ci sto su a pensare.