Archivi del giorno: aprile 11, 2007

Improvvisa popolarità (epopea/6)

Ma l’epopea, poi, come si è conclusa? Che ho cenato principescamente all’Hotel Jolly di Segrate, e principescamente ho dormito (ma quello so farlo in qualunque condizione e su qualunque superficie). Che il giorno dopo ho potuto egregiamente studiare sotto gli alberi a Milano 2, in una tranquilla giornata primaverile. Che poi sono tornato in aereo a Napoli, e da Napoli a Salerno in auto con mio fratello. Il quale è tornato utile quando, sceso dall’auto e messomi in cerca delle chiavi della mia macchina, tra borse libri penne e cellulare, ho pensato bene di far cadere quest’ultimo per terra. Siccome però ho i riflessi prontissimi, ho fatto in tempo a frapporre fra l’asfalto e il cellulare la mia famosa testa di moro. Il calcio assestato ha spedito il cellulare dieci mietri più in là, sotto un auto che non era semplicemente parcheggiata lungo la strada che costeggia la collina, ma incollata ad essa. Prima ho provato con un ramo, poi con una scopa gentilmente prestatami da un garagista, ma senza successo. C’è voluto che il fratello (protettivo assai) scavalcasse l’auto, mettesse le spalle contro la collina e si calasse lentamente tra gli sterpi in modo da toccare terra, e pure il telefonino.

Poi sono entrato in macchina. E quando ho attraversato la città, non era l’improvvisa popolarità a far sì che tutti si girassero a guardarmi nel traffico, e neppure le scarpe testa di moro, che nuovissime e pulite stavano nascoste sui pedali, ma le duecento cacche di uccello, di più e non di meno, che decoravano graziosamente la carrozzeria della mia piccola Saxo, rimasta un giorno all’addiaccio.

Un greco anonimo

Di questi tempi, non ci sono mica solo i 300 opliti spartani: c’è anche un greco anonimo, che non ne vuole sapere. (E un’altra piccolissima cosa).

Lager italiani

Mi piacciono i titoli delle storie: Questa è la verità, Il rovescio del sangue, Lo strappo del Corano, Deserti, Male Nostrum. Ancor più mi piace che i titoli abbiano i nomi di coloro di cui Marco Rovelli raccoglie la testimonianza: Carlos, Abdelali, Samir, Sajjad, Montassar. Io credo che, in un qualche senso, i nomi abbiano sempre ragione. Nessuno può immaginare che sia fatta giustizia, senza che i giusti siano chiamati per nome, e senza che sia fatta in nome di qualcuno, a cui la giustizia restituisce anzitutto, nel nome, la memoria.
Quel che Lager italiani descrive, può essere riassunto in queste righe:
“Annullati. Fino al riconoscimento stesso del proprio essere. Incarcere, almeno, qualche diritto lo si detiene. Per quanto la pena sia lunga, per quanto il carcere sia un carnaio, non si cessa di essere una persona. Dire che qualcuno è una persona equivale a dire che ha dei diritti. Ma in un CPT [= Centro di Permanenza Temporanea], sebbene si sia detenuti peggio che in carcere, non si ha diritto neppure a dirsi detenuti. Il giudice e la guardia si sentono offesi, se tu dici di essere detenuto. Non sei un detenuto, ti dicono, sei unospite. Tienilo bene a mente, tu sei un ospite. Qui sei trattenuto, non sei ristretto. Non è possibile essere presi, catturati,vinti più di così. Privati perfino del riconoscimento della cattura.”
Cominciando dal nome, Marco comincia col suo libro a restituire qualcosa, a chi viene vinto fin nelle parole. E leggendo queste storie, non si può non dare ragione a Carlos, ad Abdelali, a Samir, a Sajjad, a Montassar, a tutti coloro nel cui nome si raccontano queste storie di immensa infelicità e sventura. Io penso così: non c’è bisogno di prove, non occorre accumulare documentazioni al riguardo, non importa la dimensione del fenomeno, cosa sia oggi l’immigrazione, quali politiche siano in grado di farvi fronte, cosa si debba fare con i Centri, perché accadano queste cose, di chi sia la colpa, quanto ci sia di colpa in queste cose, cosa sia più grave e intollerabile. Questo nugolo di problemi non sfiora nemmeno quei nomi: può darsi che aiutino a capire, a giustificare o ad accusare, ma l’istanza di giustizia che è avanzata nel nome, e proprio nel nome, rimane intatta e intangibile. Carlos ha ragione, Abdelali ha ragione, Samir ha ragione, Sajjad ha ragione, Montassar ha ragione. Marco dona il suo sguardo, le sue letture, la sua solidarietà: a me piace pensare che con più di una di queste persone abbia bevuto una birra, passeggiato a lungo, magari suonato insieme. Che abbia ascoltato molto più che domandato. E che poi abbia scritto lentamente: l’istanza di giustizia che viene avanzata è così immensa, così indiscutibile, che non ha bisogno di fretta né di furia o di grida. E perciò queste storie mi sembrano raccontate piano, e bene. A bassa voce, con frasi brevi e dolenti: non spezzate né interrotte, ma piene di silenzi.
Quel che faccio ora è un piccolo torto al libro. Non alle storie che vi sono raccontate, ma al libro. Il libro si compone di due parti e di un’appendice (e ha una prefazione di Erri De Luca e una postfazione di Moni Ovadia). La prima parte s’intitola All’altezza degli occhi, e sono le storie racconte nelle pause tra due sguardi: Marco e Carlos, Marco e Abdelali, Marco e Samir. La seconda parte si compone di Note deperibili e contengono tutto quel che c’è da sapere sui CPT: come nascono, cosa sono, chi vi è trattenuto, quanti sono, in che condizioni sono. Di questa seconda parte il fulcro è costituito dalla rappresentazione di una realtà giuridica paradossale: la denuncia non riguarda dunque solo le condizioni in cui di fatto sono tenuti i migranti nei diversi CPT presenti nel nostro paese, ma quelle di diritto, che non riescono ad assicurare protezioni legali accettabili a coloro che sono raggiunti punitivamente dalle leggi di contrasto all’immigrazione clandestina. L’appendice s’intitola invece Il campo come forma della modernità: sono poche pagine, ma formulano, con l’aiuto di Hannah Arendt e di soprattutto di Giorgio Agamben, la tesi che il campo, uno strano ibrido in cui il diritto e il fatto si presentano indiscernibilmente sovrapposti, è ormai “il paradigma biopolitico della modernità”. Questa tesi chiude il libro fondamentale di Agamben Homo sacer. Homo Sacer reca, nell’ultima sezione del libro, tre tesi:
  1. La relazione politica originaria è il bando […]
  2. La prestazione fondamentale del potere sovrano è la produzione della nuda vita […]
  3. Il campo e non la città è oggi il paradigma biopolitico dell’occidente
Nel suo libro, e non solo nell’appendice, Marco richiama, con tratti brevi e precisi, le prime due tesi, ma è alla terza che dedica maggiore attenzione. Non è una tesi che si possa prendere alla leggera: e non solo per ciò che sono i campi, ma per ciò che ne è della nostra stessa vita. Scrive Agamben: “Dai campi non c’è ritorno verso la politica classica; in essi, città e casa sono divenuti indiscernibili e la posibilitò di distinguere fra il nostro corpo biologico e il nostro corpo politico […]. E noi non siamo soltanto, nelle parole di Foucault, degli animali nella cui politica è in questione la loro vita di esseri viventi, ma anche, inversamente, dei cittadini nel cui corpo naturale è in questione la loro stessa politica”.
Orbene, vi sono fenomeni assai diversi che si prestano ad essere catturati da queste parole: non solo il trattamento riservato ai migranti nei centri di accoglienza, che è l’oggetto del libro di Marco Rovelli, ma anche, ad esempio, la ridefinizione oggi assai problematica dei confini tra pubblico e privato, o le questioni politico-giuridiche poste dai progressi tecnologici in ambito bioetico. Dico questo per riconoscere alle analisi che vengono proposte la capacità di misurarsi con problemi reali, e non semplicemente con vaghe costruzioni teoriche. Quel che però io ho cercato, nel libro di Marco, e non ho trovato, è una dimostrazione delle parole di Agamben che pure Marco cita. (Ecco il torto che faccio al libro: discutere la tesi che è esposta nell’appendice, come se la trovassi formulata in un saggio, e non appunto in un’appendice alle storie di Carlos, di Abdelali e degli altri. Si può dire che la risposta alla mia questione è Carlos, è Abdelali, è Samir: allora accetterei di avere torto, e abbasserei lo sguardo non potendo sostenere il loro).
Agamben dice: “Lo stato di eccezione ha anzi raggiunto il suo massimo dispiegamento planetario” e intende che lo abbiamo raggiunto oggi, non che lo si sia raggiunto con i lager nazisti. Più precisamente, si è ormai raggiunta, secondo Marco (che segue sul punto Agamben) “una soglia di indeterminazione fra democrazia e assolutismo”. Se il campo è la forma della politica contemporanea, democrazia e assolutismo appaiono come due varianti all’interno di una stessa forma, o di una stessa condizione, quella in cui “l’eccezione è diventata la regola”. Se infatti l’eccezione è diventata la regola con gli stati totalitari, “tale è rimasta dopo la loro scomparsa, e oggi la ritroviamo dispiegata su scala mondiale”.
Ora, di questa tesi io esigo dimostrazione. Non mi basta il mutamento in corso del quadro di diritto internazionale, o di quello interno; non mi basta Guantanamo né “lo stadio di Bari, in cui nel 1991 la polizia italiana ammassò provvisoriamente gli immigrati clandestini albanesi prima di rispedirlinel loro paese” (l’esempio è addotto da Agamben, in Homo sacer). Questi ultimi sono esempi, e per quanto esemplari, anzi proprio perché esemplari, mantengono ancora il carattere di esperienze-limite che non riversano necessariamente i loro inquietanti e preoccupanti connotati sull’intera vita giuridica del nostro paese (o dell’ordine giuridico internazionale).
Non ho tesi da contrapporre, al riguardo – men che meno tesi “senza ritorno”. Ma mi chiedo se, per sostenere che il campo è il paradigma biopolitico della modernità, un paradigma fondamentale, dinanzi al quale perde senso la distinzione tra democrazia e totalitarismo (una distinzione che io invece saprei tracciare sotto molti, per me non rinunciabili aspetti), non occorra qualcosa di più di Guantanamo o di Bari (o di Genova: anche Genova durante il G8 fu trasformata secondo Agamben in un campo). Mi chiedo perché non si debba mantenere l’idea che quella del campo sia solo una possibilità, per quanto da pensare come incombente per principio sui nostri sistemi giuridici, per ragioni costituive dell’intera compagine giuridica occidentale (che qui non discuto ma che andrebbero discusse in relazione alla prima tesi di Agamben riferita sopra) e per ragioni storicamente più ravvicinate, in relazione a fenomeni come i flussi migratori o l’emergenze di istituzioni di diritto sovranazionale che non siamo ancora preparati ad affrontare. Ma appunto una possibilità, un fantasma che può tornare a visitarci, non una realtà che occupi ormai l’intero spazio politico contemporaneo.
E così concludo. Il libro di Marco è un bel libro, un libro che lascia il segno. La mia passione per la filosofia è causa che infine abbia preso il sopravvento la discussione di una tesi che ha forse notevoli potenzialità euristiche, ma che attende di essere formulata e comprovata, per dir così, ‘dati alla mano’. I dati che però accompagnano le storie raccolte da Marco, e queste stesse storie, non consentono dubbi circa il fatto che il modo in cui finora l’Italia si è mossa sul fronte delle politiche dell’immigrazione denota, nel migliore dei casi, larga impreparazione, e nel peggiore…
E nel peggiore il grido di Carlos, il sangue di Abdelali, le pagine strappate del Corano di Samir, il pianto di Sajjad, il pestaggio di Montassar. E la confusa eco di tutti le voci, e delle lingue straniere che si mescolano nel campo senza riuscire quasi mai a intendersi.