In ricordo di Sergio Cotta

Il ricordo di Sergio Cotta steso dall’allievo Francesco D’Agostino su Il Foglio è molto ben scritto. Sono ben spiegate le ragioni del distacco da Bobbio e da un’interpretazione formalistica del diritto incapace, secondo D’Agostino, di opporsi davvero alla violenza in nome della giustizia. Bobbio si rassegnò a pensare che la guerra è un concetto forte e la pace un concetto debole, con tutto ciò che ne consegue nei termini di una fondazione del diritto senza bene e senza verità.
Poi D’Agostino ricorda come Cotta sia stato tra i protagonisti delle battaglie contro il divorzio e contro l’aborto, e aggiunge: benché cattolico, lo fu da laico. Con ragioni tutte laiche, laicissime. Ecco il passaggio che mi piace riportare:
 
“Cotta non combatteva per l’indissolubilità del vincolo matrimoniale in quanto vincolo sacramentale, né si poneva come difensore della vita umana prenatale, adottando argomentazioni teologiche o para-teologiche, come quelle che si riassumono nell’espressione sacralità della vita. Per lui, nell’uno come nell’altro caso, si trattava di difendere non valori religiosi, ma principi giuridici, condivisibili da credenti e non credenti, purché consapevoli che il vincolo giuridico esiste per difendere le reciproche spettanze dei soggetti e non per avallare le pretese del loro arbitrio individuale. Non è la fede, ma è il diritto a istituire il matrimonio come reciproco impegno di vita comune senza termini e senza condizioni”.
 
Ho sottolineato io la parola condivisivili. Per domandare ora a D’Agostino: e che si fa se, ammesso che siano condivisibili, non siano tuttavia condivisi? Immagino si ricorra alla forza. Magari prima alla persuasione, ma poi alla forza. Certo, D’Agostino dirà che in questo modo la forza è fondata in diritto (sopra un diritto naturale: il che significa che la forza sarà esercitata senza incertezze, visto come la si pretende fondata), ma ora vorrei capire: dov’è la differenza con il seguente ragionamento: “Diritto è ciò che io decido per il bene di tutti, e che dunque mi aspetto che condividiate. Non vi va? Vi costringerò: in forza del diritto, beninteso”?
Siccome non vi è alcuna differenza formale tra questo ragionamento e quello di D’Agostino/Cotta, bisogna che la differenza, se ve n’è una, stia dal lato del contenuto. Bisogna cioè che il fondamento giuridico esibito nella filosofia di Cotta per costringere entro condivisibili ragioni e principi chi quelle ragioni e quei principi non condivide sia più saldo e più razionale del mio ‘io decido’ (e anche di ‘decide il mio gruppo’, oppure: decidiamo noi, i filosofi illuminati, o qualunque altra variante vi piaccia di immaginare). Può darsi che lo sia, non lo escludo. Ma in una paginona intera D’Agostino non dice una sola parola a questo riguardo, come se non fosse questo il punto decisivo. E invece si ragiona (anche D’Agostino ragiona) sempre nella stessa maniera: si mostrano i limiti di una certa visione (per esempio, qui: della visione formalistica del diritto, mancante fondamentalmente di una legittimità ultima in termini di giustizia e di bene) e se ne deduce che dunque la visione che critica questa visione mancante e manchevole il fondamento ce l’abbia, semplicemente in virtù del fatto che ha criticato quella. Quando però si tratta di esibirla, quando però il fondamento razionale si tratta di metterlo in buona luce: niente. Ma niente niente niente.

10 risposte a “In ricordo di Sergio Cotta

  1. mi pare che tu parli della “forza” come di una cosa intimamente negativa, che necessita perlomeno di una giustificazione. questa però è un’idea un poco “naturale”, non ti pare? se la gente non la condividesse e preferisse la forza tout court, che resterebbe da fare? combattere per difendere la necessità che la forza sia giustificata. e combattere come, se non con la forza?

  2. Non io parlo come se la forza, ma D’Agostino/Cotta. Io dico allora: d’accordo, ma la sola critica della forza non trasforma automaticamente la vostra critica in una fondazione, ecc.

  3. quindi secondo te l’uso della forza non richiede alcuna forma di legittimazione?

  4. Secondo me non esiste una forza assolutamente priva di legittimazione, e una legittimità priva di forza. E ho difficoltà anche a mettere il prima e il poi: prima c’è la forza, poi c’è la legittimazione, o viceversa.

  5. presto ci saranno altri messaggi, ma la tua risposta non mi sembra soddisfacente. non che uno pretenda la risposta definitiva, ma un’opinione più definita si. i modelli delle cose sono più semplici delle cose, e parlando di modelli non te ne puoi uscire con queste cose, come “non c’è un prima e un dopo”: nel modello ci sono, ci devono essere, perchè altrimenti il modello non serve: se è insensato e caotico come la realtà, che ce ne facciamo? la realtà c’è, e non c’è bisogno di farne un duplicato mentale, in cui non si può predicare nulla di nulla. è chiaro che nel mondo le cose sono infinitamente complesse, e non solo il potere e il bene e il male, ma persino una mica di pane: questo non ci fa fare alcun passo avanti.

  6. questo commento, caro dhalgren, non sembra uscito dalla tua penna. Che la filosofia (ammesso che di questo si tratta) debba proporre modelli per fare passi avanti è un’idea che non mi ha mai sfiorato. Quanto al duplicato mentale, se è conseguenza del fatto che non vedi che cosa ce ne si possa fare di un ‘modello’ così poco attraente, mi tengo il duplicato, benché, mancando il prima e il dopo, non direi mai che il modello è un duplicato. (Anche questa risposta è passsabilmente inutile).

  7. (Quindi un commento un po’ più utile): proprio invece perché le cose sono ingarbugliate nella realtà, ma anche con le idee, non è inutile pensare. Ovviamente, pensare non significa qui spiegare alla realtà (o più modestamente agli uomini) come si debba comportare, cme si metta su uno Stato (perfetto o no che sia), e via di questo passo.

  8. ho la strana impressione che tu stia facendo solo un giochetto. magari un giorno spiegherai in dettaglio cosa pensi della forza e della legittimazione. ma se lo farai senza un modello razionale, la tua spiegazione non sarà diversa dal verso di un merlo. e anche questo rientra nell’ordine delle cose, che si paghi della gente per divertirci.

  9. Può darsi tu abbia ragione. Ma può darsi anche tra il verso del merlo e una spiegazione razionale che districhi il rapporto tra forza e legittimazione in maniera che l’una sia linearmente prima dell’altra (o viceversa) e così ti soddisfi, ci siano di mezzi più cose di quanto qui non sospettiamo.

  10. Il punto è nel vedere se c’è o meno un fondamento della giuridicità relativamente all’uomo. Cioè se il diritto si possa tenere dentro l’orizzonte della struttura ontologica dell’uomo come fonte dalla quale proviene (e senza indebolirne la sua consistenza formale). Se sì, il punto della prassi come produzione materiale del diritto e la sua fondazione “normativistica” restano filosoficamente “ingiustificate”, perciò erronee. Ma cosa salva il non condiviso del condivisibile? Non si dimentichi che una buona antropologia termina l’analisi sull’uomo con un discorso che resta necessariamente aperto…
    Cordialità.

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