Archivi del giorno: Maggio 27, 2007

Ma il dato naturale da solo non basta

Solo per il link all’articolo su Il Mattino, preannunciato qui (grazie a finOcchio che l’ha ripreso nel commento)

Pazienza

Uno dei maggiori filosofi francesi viventi, Jean-Luc Marion, cattolico, viene sentito da Le Figaro sul Gesù di Joseph Ratzinger. E Marion cita un passo di Giovanni (1,18: "Dio, nessuno lo ha mai visto. Ma il Figlio, che è nel seno del Padre, ne ha fatto l’ermeneutica" – il testo che noi solitamente leggiamo dice: "ma lui lo ha rivelato"), che mi aveva molto colpito quando lo trovai in Dio senza essere (bel libro). Perciò vi linko l’intervista (doppia, con Philippe Sollers, in francese).

Marion dice che intendere i Vangeli è comprendere perché Gesù fu crocifisso. E Gesù fu crocifisso perché era intollerabile (per certi ebrei e in un certo senso per ogni uomo) che Dio si fosse fatto uomo. Fosse stata solo la sua dottrina, fossero state solo le sue parole, non sarebbe stato crocifisso (e basterebbe la fioritura dell’umanesimo per venirne a capo).

Non so. E’ ovvio che si possono trovare molte ragioni (storiche, politiche, teologiche) del perché Gesù fu messo a morte. Il credente deve forse escludere per fede che fossero sufficienti? E davvero la fede cristiana si costituisce come tale senza l’evento pasquale tutto intero, cioè morte e resurrezione? Oppure la resurrezione soltanto dimostra che Gesù era veramente Dio fatto uomo? In effetti Marion dice alla fine proprio così: che "l’originalità radicale di Cristo non è la denuncia della morte o della sofferenza, ma il fatto di vincerle con la Resurrezione". Ma allora la cosa cambia. E se solo la resurrezione dimostra l’umanità di Dio e la divinità di Cristo, prima che risorgesse Gesù non poteva essere messo a morte per ciò che solo la morte e la resurrezione avrebbero dimostrato.

Ma essi non potevano neanche ammettere che fosse possibile. La sola possibilità era più grande di ciò che potevano sopportare. Quindi, anche in mancanza della resurrezione, cioè senza dimostrazione (senza rivelazione), crocifissero Gesù. Ma questo cosa vuol dire, che pensavano di dimostrare il contrario, con la morte di Gesù? Ecco, vedete, è morto: costui non era il Figlio di Dio. Ma se ciò che temevano era il fatto che fosse un Dio fattosi uomo, non doveva quest’uomo morire comunque? Misero a morte Gesù per impazienza, perché non ebbero la pazienza di aspettare che morisse di vecchiaia? Fosse morto di vecchiaia, non avrebbero potuto dire uguale (anzi, a maggor ragione): "ecco, vedete, è morto: costui non era il Figlio di Dio"? Se ciò che temevano era che fosse Dio fatto uomo, se ciò che non potevano ammettere era che fosse Dio fatto uomo, avevano forse da temere la resurrezione, e mettendolo a morte certo non la impedivano. (E ovviamente Marion non può intendere soltanto che fu messo a morte per la ragione troppo umana della bestemmia, per aver bestemmiato Dio essendosi detto il suo Filio unigenito).

(Io, poi, sono una persona paziente, e per questa via, l’evento della morte e resurrezione di Gesù non ha alcun senso per me). (E quanto alle ragioni in genere: per me, non c’è nulla che non sia inutile che possa avere valore teologico).

2+2=4

Quello che segue (Il vero rischio è abolire la distinzione tra i sessi), è l’intervento di Filippo Vari ospitato da Il Mattino ieri. Fortuna ha voluto che il giornale mi abbia consentito di replicare, in 2500 battute ("una fucilata, mi raccomando!"). La risposta sarà online dopo le 14, non so in qual pagina. Ma intanto, perché conosciate la materia del contendere…

(Avviso: leggo la citazione di Chesterton che apre l’articolo – che diamine!, due più due fa quattro, e insomma almeno i dati elementari della realtà! – leggo la citazione un giorno sì e l’altro pure, e soprattutto non passa giorno senza che illustri opinionisti come Luigi Amicone mi impartiscano la grande lezione del realismo cristiano (perché i laici, invece, relativisti e nichilisti, farebbero scandalosamente evaporare la realtà). M’è costato qualche centinaio di caratteri, ma ho dovuto per forza cominciare di lì, da 2+2=4, e da chi ne fece una divisa, prima di Chesterton: l’impenitente Don Giovanni. Ma: a più tardi):

FILIPPO VARI * In un saggio del 1905, Chesterton profetizzava l’avvento di un’era nella quale, proseguendo «la grande marcia della distruzione intellettuale», tutto sarebbe stato negato, anche che «due più due fa quattro». Le vicende relative all’introduzione di un riconoscimento pubblico delle unioni omosessuali in Italia sembrerebbero dimostrare che questa era è giunta. Infatti, le forti resistenze all’introduzione, nell’ordinamento italiano, di un riconoscimento pubblico delle convivenze omosessuali, sotto la forma dei Dico, hanno spinto i sostenitori di una tale posizione a scegliere una tattica meno frontale, ma ancor più insidiosa e mistificatrice. In numerosi disegni di legge si annida un tale riconoscimento di queste unioni non in forma espressa, bensì mediante un richiamo alla cosiddetta ”ideologia del genere”. Di cosa si tratta? Come noto, in natura le persone sono o uomini o donne. L’ideologia del genere o del gender parte dal presupposto che il sesso non costituisca un carattere naturale, bensì un’opzione culturale, cioè una ”libera” scelta di ciascuna persona. Le conseguenze di un tale approccio sono quanto mai pericolose. Infatti, se il sesso è un’opzione culturale, si può scegliere liberamente a quale appartenere. Una volta affermata tale possibilità, ne discende direttamente, e senza passare per alcuna battaglia culturale, l’introduzione del ”matrimonio” tra persone dello stesso sesso: è sufficiente che uno affermi di essere del sesso opposto rispetto a quello del partner per poter chiedere il matrimonio. L’ipotesi, seppur a prima vista poco realistica, ha trovato, invece, concreto riscontro in Spagna, ove è possibile cambiare sesso sulla base di una dichiarazione all’autorità costituita e, come noto, contrarre matrimonio con una persona dello stesso sesso. In Italia, cominciano ad affermarsi i primi tentativi di introdurre tale ideologia. In numerosi disegni di legge, che disciplinano materie che con le unioni omosessuali non c’entrano nulla – si pensi, ad esempio, al disegno di legge recante «Delega al governo in materia di riordino degli enti di ricerca» – in qualche comma destinato a passare inosservato si cerca di inserire riferimenti ”all’eguaglianza dei generi”. A fronte di tali tendenze va ribadito, da un canto, come lo stesso diritto positivo italiano conosce esclusivamente la distinzione tra uomo e donna e non altre artificiose catalogazioni: si prenda, ad esempio, l’articolo 51 della Costituzione, di recente modificato, che stabilisce «la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini». D’altro canto, è evidente il regresso di una società che, allontanandosi dalla tradizione e dalla realtà naturale, chiede ai bambini, come avviene negli ospedali scozzesi, di non parlare più di ”mamma” e ”papà”, ma dei loro ”tutor” o ”guardian”. * Professore associato di Diritto costituzionale Università europea di Roma

Vai col liscio

Caro blog, è finito il seminario napoletano su Spinoza, nel corso del quale ho fra le altre cose sostenuto che: ha un bel parlare Spinoza di idee al plurale, dalla prima (o quasi) all’ultima riga del libro, ma in fondo pensa che l’idea è una; ha un bel parlare Spinoza di idea ideae, ma in fondo pensa che una cosa così non esiste; ha un bel parlare Spinoza di infiniti attributi della sostanza, ma in fondo pensa che uno, cioè due (ma proprio per dire che non è uno); ha un bel parlare Spinoza di terzo genere di conoscenza, ma in fondo pensa che non è nemmeno una conoscenza, figuriamoci se viene per terza; ha un bel dire Spinoza che l’essenza di ogni cosa singolare è il conatus, ma in fondo sa che questo non spiega un bel nulla; ha un bel dire Spinoza che tutto procede secondo necessità, ma in fondo pensa che quel che c’è, siccome c’è è necessario, e non c’è perché è necessario; ha un bel parlare di eternità, ma proprio sotto specie di eternità sperimentiamo la nostra finitezza. E la finitezza, quella, si espone all’inizio e nulla sa della propria fine (sennò, che finitezza è?). Carlo Sini dice che la sostanza è l’accadere del modo, e allora io mi prendo, in finale, il ghiribizzo di dire che il modo dell’accadere è sostanziale, e così sia.

Orbene, se ci fossero stati spinozisti incazzosi, non me ne avebbero fatta passare una, testi alla mano. Ma gli spinozisti incazzosi non c’erano, e tutto è andato sin troppo liscio.