Archivi del mese: giugno 2007

Cieli, scie, e il grande orgone

Io quasi quasi lo faccio. Il mineralogramma, intendo. "Si può asserire che, probabilmente, non esiste malattia alla quale non corrisponda uno squilibrio dei minerali", sicché – mi par chiaro – un mineralogramma ci vuole.
Guardo le nubi, il cielo. Non sono tranquillo. Qualcuno irrora. Dall’alto o dal basso non so, ma irrora. Mi irrorano. Mi sento tutto irrorato (con questo caldo, poi). A volte, fanno cadere i grattacieli per chiudere lo spazio aereo e irrorare a più non posso. Non so se sia logica, la cosa: ma so che le scie chimiche ci sono. Ci sono pure le nuvole chimiche, e i cieli chimici.
No, non sto parlando di Lucy in the sky with diamonds. E’ che a volte si fanno incontri del tutto fortuiti, che possono cambiarti la vita. Io stamane mi sono preso un solenne cazziatone perché ieri ho dimenticato di metter fuori il sacchetto di spazzatura (no: perché ho detto che l’avrei fatto subito subitissimo e poi non l’ho fatto, e non si prendono in giro così le persone). Mezz’ora dopo, mi accorgo che mia moglie s’è gentilmente dimenticata nella sua borsa le chiavi della mia auto, lasciandomi i bimbi da accompagnare alla ‘Scuola estiva’. Zainetti in spalla, si va a piedi dal nonno. E così incontro V, che mi dà un passaggio. Come va, come non va. E’ tutto uno schifo. Già, faccio io. Che fai ti ricandidi? No, non mi ricandido. Fai bene, dice V. Io non voto più. Beh, io sento il dovere civico di. Io no, dice V. Ma tu sai cosa sta succedendo in Italia? Dici Veltroni? Ma no. Scusa, hai mai sentito parlare di scie chimiche? Veramente no, faccio io. Allora ti dò un indirizzo che devi assolutamente vedere? Quale, faccio io? luogocomune.net? Bravo, esulta V. Ma non quello, però: quest’altro. Vai sul forum, leggi di qua e leggi di là. Sai cos’è l’orgone? Confido nella tua intelligenza. Tu sei una persona colta, preparata. Tu non ti lasci fottere dalla propaganda.
No che non mi lascio fottere. Però devo portare i bimbi a scuola, e ho già un fottuto ritardo. Aspetta che ti segno gli indirizzi. Grazie. Devi leggere. Grazie. Pochi sanno. Grazie, devo andare. Mi raccomando. Non mancherò, grazie. Vogliono eliminare 4 miliardi di persone, per via della sovrappopolazione. Eh già. Forse è così. Come forse? Già adesso, l’attività che si esegue sopra le nuvole è molto intensa. Sono sicuro, grazie. Tu parli inglese? Lo leggo. Allora vedi pure questo. Grazie, dico io. Hai mai fatto caso a quel che c’è in cielo? Ti sembra normale quello che vedi?
Lo guardo negli occhi. No che non mi sembra normale. Però ora devo andare. Ciao. E scendo dall’auto.
Intanto, lassù qualcuno ci irrora. E io, (e nanche voi: ammettetelo), non avevo ancora notato: "la curiosa coincidenza per cui contemporaneamente all’invasione dell’Iraq è scoppiata in Cina l’epidemia di SARS, la Polmonite Atipica?"
P.S Per amatori: c’è Maurizio Blondet pure qui!

Contro il relativismo

"Non si può porre la propria civiltà accanto alle altre, e tutte considerarle come prospettive alla pari… Non si vince così il ‘provincialismo’ culturale: si deve dialogare col mondo, ma la propria parte bisogna conoscerla, altrimenti si rischia di cadere in un enorme pettegolezzo, in un chiacchietrare ambiguo e sciocco, in un camaleontismo che simula l’apertura e la varietà di interessi, ma che è soltanto la maschera di un’abdicazione senza limiti".

Trovo citate queste parole in un libro di Giovanni Jervis, Contro il relativismo, che ho appena cominciato a leggere (e che trovate recensito qua). Non vi domando chi le abbia dette (anche perché le trovate pure nella recensione, sicché se guardate prima vi togliete da soli lo sfizio), ma a chi voi le mettereste in bocca.

Gli atei, questi talebani

Per Erri De Luca (su Il Mattino che – ebbene sì – ho preso a leggere), la più grande differenza passa tra ateo e non credente, non fra credente e non credente:

"Tra credente e non credente passa lo stesso participio presente. Nei dibattiti intorno alla fede, ai quali sono invitato qualche volta, provo a suggerire un’altra distinzione. La demarcazione più netta non sta tra chi è credente e chi no, ma tra il non credente e l’ateo. La convinzione assoluta dell’ateo lo separa profondamente dal credente e dalla sua domanda quotidiana. Lo stesso vale per il campo della fede. Il credente è separato in casa dal talebano, tra loro spicca la crepa principale. L’ateo e il talebano sono affini, hanno escluso l’alternativa, sono in arrocco, fermi nell’angolo della scacchiera. Il credente e il ”non”, invece, battono ogni giorno la pista della domanda, frugano la scacchiera palmo a palmo insieme, senza ostilità".

Per essere d’accordo con Erri De Luca (e per mettere l’ateo insieme al talebano), bisogna però che – a parte ogni considerazione sul piano morale – la pretesa di sapere che avanza l’ateo non abbia ragione alcuna per essere avanzata. E per escludere che l’ateo non possa sapere quel che pretende di sapere, ci vuole un sapere. Che il credente e il non credente di De Luca devono unitamente avere. Ma ce l’hanno? Oppure pretendono di averlo? E perché pretendere di sapere che non v’è alcun Dio è pretesa più forte che pretendere di sapere che ‘non si può mai sapere’, e dunque escludere che l’ateo possa sapere? Ma chi è più ragionevole, in questo momento? Chi di voi lettori pretende di sapere che queste parole sono state battute sulla tastiera da un essere umano, ed esclude che sia stato un dio, o chi dicesse che non si può mai sapere? Forse il primo. Perché dunque nel caso della fede riesca più ragionevole chi pensa che ‘non si può mai sapere’, occorre che la credenza del credente (e la non credenza del non credente) siano nutrire di un sapere: del sapere, almeno, che la fede ha ben altra ragionevolezza di altre irragionevoli credenze. Occorre quindi che non si tratti solo della riserva per cui ‘non si può mai sapere’ – senza dire che l’ateo una simile riserva potrebbe in linea di principio ben concederla, in questa forma così assolutamente indeterminata. Se invece non si tratta solo di un ‘non si può mai sapere’,ma di un qualche sapere (sull’uomo, ad esempio, o sulla natura), allora, prima di dare del talebano all’ateo, sarà meglio confrontare i saperi sull’uomo che hanno tanto i credenti e i non credenti, quanto gli atei. E non è detto che siano sempre questi ultimi ad apparire talebani, se non altro perché finora è andata esattamente all’incontrario. Infine (ma potrei continuare): qual è la ragione per cui Erri De Luca sente il bisogno di dare del talebano all’ateo? Perché il credente non vuole essere solo credente, ma persino più ragionevole dell’ateo? Perché De Luca non prova ad approfondire la grammatica del credere, invece di mettere sotto imputazione senza sapere il sapere altrui? Se a lui basta questa retorica della finitezza per cui siamo mortali, siamo finiti, siamo fragili, siamo questo e siamo quello e dunque non si può mai sapere, a me proprio non basta. (E lo informo pure che esistono fior di credenti, che di dubbi ne hanno assai pochi, e che non sono affatto talebani)

Aggiunta: "La mia impressione è che la differenza principale in materia di fede non passa tra chi la detiene e chi no, ma tra chi dubita e rinnova la sua difficile domanda e chi ha smesso di porsela". Ma cosa vuol dire: in materia di fede? Quanto c’è da sapere, per delimitare questa materia? Ha dubbi De Luca sulla costituzione di questa materia?

P.S. La domanda che nel testo mi concerne è una domanda retorica.

 

Quiz per valenti sinologi

A. "Non è che gli esseri umani prima possedessero e usassero il linguaggio senza saperlo e solo in seguito  se ne sarebbero accorti; piuttosto, la loro pratica di parola non era tale da potersi obiettivare in quell’oggetto ideale che è il ‘linguaggio’". (C. Sini, Filosofia e semiotica, in Eracle al bivio, Bollati Boringhieri Torino 2007, p.214)

B. Non è che gli esseri umani non possedessero il linguaggio e non sapessero di parlare; piuttosto, la mia pratica di parola e la consapevolezza che la abita è tale da non poter dire come gli esseri umani possano possedere il linguaggio al modo di un oggetto ideale".

Domanda: cosa ha che non va la proposizione B? C’è una ragione per preferire la proposizione A alla proposizione B? Se c’è, qual è? Non colpisce il fatto che in A "pratica di parola" funziona come passe-partout per dire quel che non posso dire con "linguaggio"? E mettere tutta l’avvertenza necessaria (non è che vi sia ‘la’ pratica di parola, vi sono pratiche sempre diverse, ecc.) non ci lascia comunque nella comodità di parlare nel nostro linguaggio di ciò che neghiamo possa essere detto nel nostro linguaggio (nella nostra pratica obiettivante)? Ma soprattutto: qual è il valore di quella negazione, e in generale della negazione per cui "non è che esistono cose, oggetti, fisici o ideali che siano"? Questa negazione cosa propriamente nega, dal momento che appartiene solo alla mia pratica di parola ed è un suo effetto? E se non ce la fa a negare (o meglio: riesce a negare come riesce a negare qualunque propoizione negativa in forza dell’operatore logico della negazione, ma appunto soltanto entro i limiti di questa operazione di parola ‘logica’), come la mettiamo con la proposizione B? Non è che siamo dinanzi a un che di indecidibile? (Ma come spunta fuori, questo indecidibile?).

Teaching Plato in Palestine: Can Philosophy Save the Middle East?

Su Dissent, leggo un bell’articolo di Carlos Fraenkel. Lui va all’università palestinese di Gerusalemme, per spiegare come Platone sia stato interpretato in età medievale da pensatori arabi ed ebrei , e soprattutto per vedere l’effetto che fa. Scopre anzitutto che mancano i testi. Lì sono fermi a una macellata parafrasi basata su un’edizione inglese ottocentesca dell’opera platonica.
Ma si comincia: Maimonide e Averroè, e l’idea che bisogna prestare ascolto alla verità da qualunque parte provenga. L’ospite, il filosofo palestinese Nusseibeh, non se la passa bene con i suoi concittadini con questa idea che bisogna dialogare pure con le università israeliane. In quelle palestinesi, comunque, mancano i soldi. Per gli studenti non è facile arrivarci e per i professori non è facile insegnarci.
Fraenkel fa lezione, Nusseibeh interviene in dissenso, gl studenti allibiscono un po’: bisogna che capiscano che studiare non significa prendere appunti, imparare, riferire, ma discutere. Il primo testo citato è l’Apologia di Socrate, e la sua idea di buon vita. Fraenkel non è disarmato: questi qua non capiscono come una vita di conoscenza possa essere una vita buona. Ma non lo capiscono nemmeno i miei studenti canadesi!
D’accordo, dice uno: bisogna sapere cos’è giusto per agire giustamente. Ma per questo c’è la religione! Fraenkel prova a spiegare che non è mica così facile: come si fa quando la religione ne dice delle belle, e quando gli usi e costumi religiosi sono fra loro in contrasto? Come facevano i Greci, a cui Erodoto raccontava di tutto? D’accordo, dice un altro: ma mi vuol far credere che in Occidente va così? Che chi sceglie di far questo o quello lo fa avendo fondato la sua scelta sopra la conoscenza di ciò che è giusto? E crede o non crede che le sue ragioni sono superiori a quelle degli altri? E poi (altra lezione): ma Platone non era mica questo gran democratico!
Lo vedete? Così arriviamo all’interpretazione dell’Islam e dell’ebraismo come religioni filosofiche. Vera religione e vera filosofia coincidono. Poi la lezione continua, gli studenti domandano, le diffidenze permangono, le perplessità aumentano (Averroè è una cosa, l’Islam un’altra).

Altra lezione. Su democrazia ed educazione. Esportiamo libri, se vogliamo esportare la democrazia. Non che si tratti di educare gli altri popoli, ma di gettare le condizione er ua discussione aperta, in cui possa cioè avvenire un gran bel rimescolamento delle nostre tradizioni.

Poi Fraenkel se ne va, speranzoso di avere spiegato per bene che la filosofia possa servire a cercare argomenti razionali per difendere le proprie convinzioni. Il migliore della classe però è di Hamas e non si capisce quanto ne sia persuaso. C’è questa storia che Maometto non era un fior di intellettuale, e ha scritto quel gran libro. La morale pare comunque essere che ci vuole un grano di saggezza per tradurre nelle nostre vite la nostra idea di giustizia, passa l’idea che la verità è una ma ci posono essere più imitazioni della stessa verità (e grazie: Abramo e Gesù ci van bene, ma Maometto non li vede proprio), e insomma Fraenkel se ne torna a Montreal, e Nusseibeh, che ha tutta la mia solidarietà, rimane nei casini.

(C’è pure un po’ di gossip: la moglie di Nusseibeh, Lucy, era la sorella del filosofo oxoniense John Austin, convertitasi all’Islam!). 

Il simbolo alla prova

Come al solito, se non vi bastano sette rghe e la lente di ingrandimento, dovete aspettare le 14.00 per leggere su Il mattino l’articolo che ho dedicato alla fatale discesa in campo di Walter Veltroni

Il discorso di Torino

"Abbiamo saputo tutto del Capodanno a Times Square o sugli Champs Elysees. Ma nessuno ci ha parlato di come un nuovo millennio è cominciato per la gente del Sudan o del Bangladesh".

(Walter Veltroni , Torino, 1° Congresso dei DS, 13-16 gennaio 2000)

Esame di Stato senza cintola

"Stamattina, giorno delle terza prova; la prova per la mia classe era prevista alle ore 11,30; questo significa che avevamo convocato gli studenti per le 11,00. Ore 9.50, sono al bar vicino a scuola, incontro due studenti in moto e uno in macchina; quello che guida la moto la ferma sul marciapiedi, accanto al bar Vittoria. Dice a un ragazzo che è lì seduto a uno dei tavolini del bar: "guardami un momento la moto, per favore". I due salgono in macchina dove li attende il terzo, mi vedono: "professore noi ci andiamo a fare un momento un bagno, alla prima spiaggia che troviamo". E partono, completamente "despreocupados": mi viene alla bocca dello stomaco un crampo violento d’invidia per la loro gioventù, per la loro beata incoscienza. E perché stanno costruendo un aneddoto per il futuro, comunque vada questo viaggio a Salerno, che arrivino o meno in tempo per fare la terza prova. Arrivano in tempo, alle 11.00, anche se un po’ trafelati eccoli davanti alla scuola, dove io fumavo tristemente nel caldo insopportabile. Uno di loro mi fa: "professore, nella fretta non sono potuto passare da casa, ho il pantalone che mi cade (tutti i ragazzi e le ragazze naturalmente hanno pantaloni a vita bassa che cadono con mutande – e non solo – bene in vista, come tutti sanno) e non ho fatto in tempo a mettermi le mutande, né a prendere una cinta, sono a disagio". Non preoccuparti, gli faccio, prendi la mia; me la sfilo e gliela passo. "Grazie, professò", mi fa, ed eccoli pronti per la terza prova. E grazie che poi uno si sente vecchio, lo è".
(Il venerabile)

Napoli

Sto seguendo il dibattito che sulle pagine de Il Mattino riguarda da un po’ di giorni Napoli e il libro di Saviano, Gomorra. Lo sto seguendo grazie a georgiamada, che ha tutti i link agli interventi degli scrittori finora apparsi. L’ultimo, di Francesco Piccolo, mi è piaciuto particolarmente, e ve lo segnalo.

(Che mi sia piaciuto particolarmente non significa che sia in tutto e per tutto d’accordo, ma non ho ancora deciso se le ragioni del disaccordo meritino).

Modernità, è tenersi per mano andare lontano la modernità

"Benedetto XVI sostiene che oggi in Occidente, per una sempre più evidente eterogenesi dei fini, un processo culturale che si è messo in moto con l’obiettivo di ampliare la sfera della libertà individuale, sta approdando alla sua negazione. L’associazione tra relativismo e laicismo, portata alle conseguenze più estreme [cioè: relativisti ma non troppo, oppure laici ma non troppo?], è giunta a configurare l’uomo come mero prodotto della natura [è una conseguenza estrema, questa? Tutta la scienza è allora abbastanza estrema]. La libertà della persona è divenuta per questo irriflessa e, separatasi dalla responsabilità, si riduce a mera forma esteriore, priva di sostanza [va bene, ma chi riflette: ciascuno er sé, o uno per tutti?]".

Se uno fosse cattivello, commenterebbe così: può darsi. Solo che è un fatto che nella fase dell’ampliamento, la Chiesa per lo più premeva per la proibizione, o al più per la direzione. E nella fase della negazione, la Chiesa preme ugualmente per la direzione, o, potendo, per la proibizione. Non è che sia cambiato  gran che.

"Benedetto XVI, di contro, ambisce che l’Italia si proponga come punto di riferimento di un cammino a ritroso del Vecchio Continente".

Ben detto. Quella che segue, è invece una notevole trovata:

"Non lasciare sola la Chiesa nella sua battaglia è il modo più proficuo per evitare che la tentazione di una guerra di religione, presente in più ambiti, possa attecchire. Ed è anche – sia detto per inciso – il modo più efficace per scongiurare presunti processi di clericalizzazione della politica".

(Le citazioni sono tratte dalla introduzione di Gaetano Quagliariello al libro Alla ricerca di una sana laicità, che raccoglie saggi di intellettuali prestigiosi – compreso Sandro Bondi – al "Discorso di sua santità Benedetto XVI ai partecipanti al IV Convegno nazionale della Chiesa italiana" . L’introduzione è chiara e ben scritta, ed è quindi un utile riassunto di tutti i punti su cui si fa sensibile nella società italiana la visione culturale e religiosa di Papa Benedetto XVI. A margine una domanda: Quagliariello apprezza la grande ambizione del Papa: conciliare fede e ragione, "far crollare ogni muro fra fede e scienza, per rintracciare la possibile unicità di un percorso". E cioé. il Papa si chiede se davvero l’uomo, la ragione e lo spirito possano mai essere figli di caso e necessità. La domanda è: perché non conciliare anche religione e politica, far crollare ogni muro fra fede e Stato, e rintracciare così la possibile unicità di un percorso? La modernità rivendica insieme autonomia della scienza e autonomia della politica: non si capisce perché si voglia conciliare in un caso, separare in un altro. Io parlerei chiaro, ecco).

Conditionned

Venerdì a Napoli, dopo avere ascoltato Enrica Lisciani-Petrini, Per un’ontologia del presente, con l’heideggerologo più quotato a me noto siamo andati alla Feltrinelli. L’heideggerologo più quotato ha acquistato una moografia su Picasso a buon prezzo, una breve raccolta di documenti sulla scuola di New York, Eracle al bivio di Sini (lo sto condizionando) e Esperire e parlare. Interpretazione di Heidegger di V. Costa (qua si condiziona da solo). L’heideggerologo ha anche fatto una mezza promessa per questo blog: vedremo se manterrà).

Io ho comprato (ma non fatevi condizionare) l’ultimo Severino, L’identità della follia, curioso di vedere come si svolgessero le sue lezioni universitarie, Enzo Melandri, Contro il simbolico, Peter Sloterdijk , Il mondo dentro il capitale, Neil Postman, Come sopravvivere al futuro, A. Negri, Spinoza (per tutto ciò che circonda L’anomalia selvaggia), C. Sini, Eracle al bivio (che è poi una riedizione dell’a me noto Semiotica e filosofia, con qualcosa in meno e un saggio su Derrida in più. Ma con Sini il gioco vale la candela).

Entrambi, l’heideggerologo ed io, abbiamo per il momento soprasseduto su R. Esposito, Terza persona. Io, poi, ho guardato con molta diffidenza l’Abbecedario di Deleuze, condizionato dalla scoperta che ultimamente in italiano pubblicano cose di Deleuze come libri nuovi, che invece libri nuovi di Deleuze non sono. Oppure si trovano in rete. (Visitate webdeleuze).

E invece lAbecedario merita. Qui trovate, in francese, i tre minuti dedicati dal filosofo alla parola sinistra ("un affare di percezione…essere di sinistra è percepire anzitutto l’orizzonte, meglio: percepire all’orizzonte). Ho cercato senza successo una traduzione da segnalarvi in rete, e ho trovato invece questa notevole recensione di Girolamo De Michele a Conversazioni, giudicato "il libro più importante" di Deleuze con una buona ragione: in mano a ragazzi di sedici-diciassette anni, dà risultato entusiasmanti. (E’ una buona ragione, e anche una cattiva ragione, perché si è facili ai condizionamenti).

Poi sono finito in pullman, e l’autista è stato così bravo da mettere in funzione l’aria condizionata solo venti minuti buoni dopo che eravamo a bordo. Solo cioè dopo una sauna feroce, che ci ha lasciati immersi in un bagno di sudore: il modo migliore per lasciarsi condizionare.

Le vere spoglie di Heidegger

Gentile direttore, su Il Foglio del 20.06.07, Sergio Belardinelli non si rassegna a considerare Heidegger un grande filosofo. Al solito, l’argomento principe è l’oscurità del linguaggio. Belardinelli non se la prende solo con le posizioni politiche del filosofo tedesco, che in effetti riesce complicato difendere, e neppure sostiene, come qualche francese, che la sua filosofia non doveva essere gran che, viste appunto le posizioni politiche che ne poterono discendere. No, è la "qualità filosofica" che proprio non c’è. Ci sono invece e soltanto formule vuote e incantatorie. Può darsi. Desta però in me qualche preoccupazione il fatto che Belardinelli metta nel conto espressioni come "in-essere come tale" ed "essere-nel-mondo" che qualunque studente che abbia letto Essere e Tempo comprende benissimo e difficilmente può trovare oscure o sofistiche o non so cosa. Ma più in generale mi chiedo se davvero Belardinelli consideri oscuro e incomprensibile Essere e Tempo, o i corsi universitari tenuti da Heidegger in quegli anni, spesso di esemplare chiarezza. Siccome qui si tratta solo della "qualità filosofica" di Heidegger – e non dell’interpretazione dell’intero arco del suo pensiero – posso assicurarla che Essere e Tempo basta e avanza per mettere Heidegger tra i grandi filosofi del ‘900. E basta e avanza anche per respingere la strampalata idea di Belardinelli, secondo la quale Heidegger non avrebbe fatto altro che rivendere ai contemporanei  sotto false spoglie la mistica che costoro ignoravano. Suppongo che invece Belardinelli non la ignori. Mi piacerebbe allora sapere in quale mistico troverei le vere spoglie di Essere e Tempo (oppure, tanto per dire, L’origine dell’opera d’arte. O il Kantbuch, o il Nietzsche). Insomma, gentile Direttore, il giudizio di Belardinelli, che a quel che leggo è trent’anni che non si capacita, sembra legato molto superficialmente a certe arditezze linguistiche che qui non ho bisogno di difendere (e che altrove, con lettori meno prevenuti, potrei persino provare a difendere), ma che in ogni caso non coprono l’intera produzione filosofica di Heidegger, e che possono tranquillamente essere messe da parte, senza compromettere la "qualità filosofica" del suo lavoro. Ovviamente ne risentirebbe l’interpretazione complessiva del suo pensiero, e dunque quel che propongo non si può fare. Ma non capisco perché Belardinelli non si accontenti di fornire un’interpretazione complessiva del suo pensiero, magari dicendone peste e corna, e debba invece trattare Heidegger come un insopportabile venditore di fumo.  Uno finisce col pensare che il simile conosce il simile, e che non vede la qualità filosofica chi non vede la filosofia.

(Ho pescato l’articolo grazie a Malvino, che ne riporta stralci. Anche Malvino non si capacita, ma almeno lui non si capacita che esista ancora una cosa che si chiama filosofia. Quanto alla domanda sull’essere e l’ente che Malvino pone, la risposta è no)

Salamandre e controfiocchi

In premessa si legge che la vera ragione è superiore alla logica. L’impero della logica è limitato. Chi vuol intendere, intenda, diceva Cristo stesso. E chi non vuol capire, non capisce – chiosa Zamax. E per cominciare: Massimo Adinolfi non capisce.
Prima di capire cosa non capirei (a proposito di una mia interpretazione di Montaigne), ci terrei a rassicurare il mio brillante confutatore: non c’è bisogno di scomodare Cristo stesso per limitare l’impero della logica, figuriamoci per confutare me. (Credo poi che questa esigenza di scomodare Cristo stesso si accordi molto poco col fatto che Montaigne lo scomoda molto poco, e in particolare non scomoda affatto la croce, ma Zamax non mi pare turbato da questa – alquanto singolare per un crstiano – latitanza).
Ad ogni modo, per confutare, Zamax cita lunghi passaggi della mia interpretazione “completamente sbagliata”, apparsa su Left Wing, del che lo ringrazio (in verità su LW è apparsa sola una pilloletta, perché su La morte in Montaigne e Pascal avevo scritto più lungamente su Il pensiero, 1/97).
Primo sbaglio: restringo il pensiero della morte in Montaigne (e c’è da sospettare in generale) al pensiero del momento della morte. Non so da quale mia affermazione tragga Zamax questa convinzione. Nella citazione sono comprese le parole di Montaigne: “La premeditazione della morte è premeditazione della libertà. Chi ha imparato a morire, ha disimparato a servire”. Parole, queste, che generosamente definisco niente di meno che grandiose, e che non mi pare mostrino la restrizione di cui parla Zamax. Mi sembra palese che qui Zamax ha parecchio frainteso.
Seconda citazione dall’elezeviro, e secondo sbaglio. Qui mi si accusa amabilmente di non tenere presente certe parole di Gesù. Può darsi che nello scrivere l’articolo non le tenessi effettivamente presenti, ma forse sfugge a Zamax che si è ripromesso di confutare la mia interpretazione di Montaigne, non quella del Vangelo.
Ma la mia interpretazione sarebbe sbagliata, perché sostengo che una cosa è la prémeditation della morte (che alla morte pensa), un’altra la diversion (che alla morte non pensa). (In effetti, lo sostengo, insieme a un buon numero di studiosi di Montaigne, che mettono pure le date e mostrano come i due atteggiamenti appartengano anche a momenti diversi della vita di Montaigne, che per un’opera ad andamento autobiografico non dovrebbe essere irrilevante). Ma in realtà, se non siamo degli inguaribili superficiali, possiamo vedere con l’aiuto di Zamax come le due cose vadano perfettamente d’accordo. A condizione di sostenere che la diversion riguarda solo il momento della morte. E’ da quella che Montaigne invita a distogliere lo sguardo. Di qui il rilievo mossomi sopra (del tutto arbitrariamente): serviva lo spazio per mettere d’accordo prémeditation e diversion. Ed allora, voilà: io restringo, ma Zamax esclude. La prémeditation ha così poco a che fare col fatto che moriamo – tipo Troisi: ricordati che devi morire – che anzi è completata dalla diversion che suggerisce di non darsi pena del fatto che moriamo. Bah.
Zamax spinge così avanti la sua interpretazione completamente esatta di Montaigne, da domandarsi “perché la calma compostezza dell’animo di Socrate dovrebbe essere diversa dalla compostezza dell’animo del fisicamente sofferente Gesù?”.
Già, perché? Dov’è mai la differenza? Secondo Zamax, che perciò usa i corsivi, io interpreto sensisticamente. Mi faccio turbare dalle sofferenze fisiche, ma Gesù nel momento del trapasso conservava una compostezza stoica che Seneca al confronto era un tremebondo. Gesù aveva l’animo in pace: come Socrate e come Catone. Dov’è la differenza? Se non c’è, io ho torto. Ma se c’è, io ho qualche ragione…
Ecco: io non ho difficoltà a considerare completamente sbagliata la mia interpretazione di Montaigne, se questo giudizio è conseguenza di un’interpretazione della morte di Gesù, che gli doni la stessa serenità del saggio stoico. (Spero che passi di qui qualche cristiano a turbarsi).
 
Ci sarebbero poi un po’ di cose qua e là, ma l’ho fatta già troppo lunga. Il fatto è che per Zamax la confidenza del vecchio Montaigne nel ciclo naturale è perfettamente cristiana.
Sarà. Chi sono io per giudicare cosa è cristiano e cosa no? Pascal si incazzava come una salamandra: se questo è cristianesimo, pensava, allora chiudiamo la baracca e non se ne parli più. Però magari Pascal aveva torto e Zamax ragione: chissà.
Io però dovevo interpretare il pensiero di Montaigne. Non è che mi importi poi molto il tasso di cristianesimo nelle vene di Montaigne. Anzi, concedo tutto quel che vuole, a questo riguardo: ci sono un mucchio di modi diversi di pensarsi cristiani (e di pensare il cristianesimo). Zamax non ha ancora citato sorella morte, se è per questo. Ma io dovevo fare vedere una differenza nel testo di Montaigne. Mostrare come abbia considerato in certe pagine la morte come un nemico (contaminando cristianesimo e stoicismo allo scopo di farvi fronte), e in altre più tarde pagine come un’amica, una compagna naturale nel naturale avvicendamento delle cose. Se la mia interpretazione è completamente errata, è perché non è vero che in certe pagine la morte è un nemico da affrontare a piè fermo, e in altre una compagna naturale che non ci strappa nulla e non è il salario di nulla. Questo doveva mostrare Zamax, invece di dimostrare che Montaigne è un cristiano coi controfiocchi.
P.S.
(Io ho scritto nel 2005, Zamax nel febbraio 2007, ora siamo a giugno. Se c’è battaglione, ci regala una foto)

Viaggio a Siracusa

Alla faccia della nottola di Minerva: al filosofo il ministero del futuro. (Pare poi che come Platone, costui debba erudire il Presidente, visto che ne era il più feroce critico. Auguri).

Schibboleth

"InSchibboleth, idee per un nuovo orizzonte della laicità: questo il titolo di una nuova rivista online, che verrà presentata alla stampa giovedì 21 giugno alle 12 a Roma, presso sala Demetra dell’Hotel Artemide".

Nel primo numero della rivista, trovate tra gli altri contributi di Roberta De Monticelli, Umberto Curi, Andrea Poma, Eugenio Mazzarella, Aldo Masullo, Andrea Tagliapietra. E trovate anche un contributo del sottoscritto, Paradossi dello stato liberale. (Questa l’homepage con le adesioni)