Archivi del giorno: giugno 28, 2007

Gli atei, questi talebani

Per Erri De Luca (su Il Mattino che – ebbene sì – ho preso a leggere), la più grande differenza passa tra ateo e non credente, non fra credente e non credente:

"Tra credente e non credente passa lo stesso participio presente. Nei dibattiti intorno alla fede, ai quali sono invitato qualche volta, provo a suggerire un’altra distinzione. La demarcazione più netta non sta tra chi è credente e chi no, ma tra il non credente e l’ateo. La convinzione assoluta dell’ateo lo separa profondamente dal credente e dalla sua domanda quotidiana. Lo stesso vale per il campo della fede. Il credente è separato in casa dal talebano, tra loro spicca la crepa principale. L’ateo e il talebano sono affini, hanno escluso l’alternativa, sono in arrocco, fermi nell’angolo della scacchiera. Il credente e il ”non”, invece, battono ogni giorno la pista della domanda, frugano la scacchiera palmo a palmo insieme, senza ostilità".

Per essere d’accordo con Erri De Luca (e per mettere l’ateo insieme al talebano), bisogna però che – a parte ogni considerazione sul piano morale – la pretesa di sapere che avanza l’ateo non abbia ragione alcuna per essere avanzata. E per escludere che l’ateo non possa sapere quel che pretende di sapere, ci vuole un sapere. Che il credente e il non credente di De Luca devono unitamente avere. Ma ce l’hanno? Oppure pretendono di averlo? E perché pretendere di sapere che non v’è alcun Dio è pretesa più forte che pretendere di sapere che ‘non si può mai sapere’, e dunque escludere che l’ateo possa sapere? Ma chi è più ragionevole, in questo momento? Chi di voi lettori pretende di sapere che queste parole sono state battute sulla tastiera da un essere umano, ed esclude che sia stato un dio, o chi dicesse che non si può mai sapere? Forse il primo. Perché dunque nel caso della fede riesca più ragionevole chi pensa che ‘non si può mai sapere’, occorre che la credenza del credente (e la non credenza del non credente) siano nutrire di un sapere: del sapere, almeno, che la fede ha ben altra ragionevolezza di altre irragionevoli credenze. Occorre quindi che non si tratti solo della riserva per cui ‘non si può mai sapere’ – senza dire che l’ateo una simile riserva potrebbe in linea di principio ben concederla, in questa forma così assolutamente indeterminata. Se invece non si tratta solo di un ‘non si può mai sapere’,ma di un qualche sapere (sull’uomo, ad esempio, o sulla natura), allora, prima di dare del talebano all’ateo, sarà meglio confrontare i saperi sull’uomo che hanno tanto i credenti e i non credenti, quanto gli atei. E non è detto che siano sempre questi ultimi ad apparire talebani, se non altro perché finora è andata esattamente all’incontrario. Infine (ma potrei continuare): qual è la ragione per cui Erri De Luca sente il bisogno di dare del talebano all’ateo? Perché il credente non vuole essere solo credente, ma persino più ragionevole dell’ateo? Perché De Luca non prova ad approfondire la grammatica del credere, invece di mettere sotto imputazione senza sapere il sapere altrui? Se a lui basta questa retorica della finitezza per cui siamo mortali, siamo finiti, siamo fragili, siamo questo e siamo quello e dunque non si può mai sapere, a me proprio non basta. (E lo informo pure che esistono fior di credenti, che di dubbi ne hanno assai pochi, e che non sono affatto talebani)

Aggiunta: "La mia impressione è che la differenza principale in materia di fede non passa tra chi la detiene e chi no, ma tra chi dubita e rinnova la sua difficile domanda e chi ha smesso di porsela". Ma cosa vuol dire: in materia di fede? Quanto c’è da sapere, per delimitare questa materia? Ha dubbi De Luca sulla costituzione di questa materia?

P.S. La domanda che nel testo mi concerne è una domanda retorica.

 

Quiz per valenti sinologi

A. "Non è che gli esseri umani prima possedessero e usassero il linguaggio senza saperlo e solo in seguito  se ne sarebbero accorti; piuttosto, la loro pratica di parola non era tale da potersi obiettivare in quell’oggetto ideale che è il ‘linguaggio’". (C. Sini, Filosofia e semiotica, in Eracle al bivio, Bollati Boringhieri Torino 2007, p.214)

B. Non è che gli esseri umani non possedessero il linguaggio e non sapessero di parlare; piuttosto, la mia pratica di parola e la consapevolezza che la abita è tale da non poter dire come gli esseri umani possano possedere il linguaggio al modo di un oggetto ideale".

Domanda: cosa ha che non va la proposizione B? C’è una ragione per preferire la proposizione A alla proposizione B? Se c’è, qual è? Non colpisce il fatto che in A "pratica di parola" funziona come passe-partout per dire quel che non posso dire con "linguaggio"? E mettere tutta l’avvertenza necessaria (non è che vi sia ‘la’ pratica di parola, vi sono pratiche sempre diverse, ecc.) non ci lascia comunque nella comodità di parlare nel nostro linguaggio di ciò che neghiamo possa essere detto nel nostro linguaggio (nella nostra pratica obiettivante)? Ma soprattutto: qual è il valore di quella negazione, e in generale della negazione per cui "non è che esistono cose, oggetti, fisici o ideali che siano"? Questa negazione cosa propriamente nega, dal momento che appartiene solo alla mia pratica di parola ed è un suo effetto? E se non ce la fa a negare (o meglio: riesce a negare come riesce a negare qualunque propoizione negativa in forza dell’operatore logico della negazione, ma appunto soltanto entro i limiti di questa operazione di parola ‘logica’), come la mettiamo con la proposizione B? Non è che siamo dinanzi a un che di indecidibile? (Ma come spunta fuori, questo indecidibile?).

Teaching Plato in Palestine: Can Philosophy Save the Middle East?

Su Dissent, leggo un bell’articolo di Carlos Fraenkel. Lui va all’università palestinese di Gerusalemme, per spiegare come Platone sia stato interpretato in età medievale da pensatori arabi ed ebrei , e soprattutto per vedere l’effetto che fa. Scopre anzitutto che mancano i testi. Lì sono fermi a una macellata parafrasi basata su un’edizione inglese ottocentesca dell’opera platonica.
Ma si comincia: Maimonide e Averroè, e l’idea che bisogna prestare ascolto alla verità da qualunque parte provenga. L’ospite, il filosofo palestinese Nusseibeh, non se la passa bene con i suoi concittadini con questa idea che bisogna dialogare pure con le università israeliane. In quelle palestinesi, comunque, mancano i soldi. Per gli studenti non è facile arrivarci e per i professori non è facile insegnarci.
Fraenkel fa lezione, Nusseibeh interviene in dissenso, gl studenti allibiscono un po’: bisogna che capiscano che studiare non significa prendere appunti, imparare, riferire, ma discutere. Il primo testo citato è l’Apologia di Socrate, e la sua idea di buon vita. Fraenkel non è disarmato: questi qua non capiscono come una vita di conoscenza possa essere una vita buona. Ma non lo capiscono nemmeno i miei studenti canadesi!
D’accordo, dice uno: bisogna sapere cos’è giusto per agire giustamente. Ma per questo c’è la religione! Fraenkel prova a spiegare che non è mica così facile: come si fa quando la religione ne dice delle belle, e quando gli usi e costumi religiosi sono fra loro in contrasto? Come facevano i Greci, a cui Erodoto raccontava di tutto? D’accordo, dice un altro: ma mi vuol far credere che in Occidente va così? Che chi sceglie di far questo o quello lo fa avendo fondato la sua scelta sopra la conoscenza di ciò che è giusto? E crede o non crede che le sue ragioni sono superiori a quelle degli altri? E poi (altra lezione): ma Platone non era mica questo gran democratico!
Lo vedete? Così arriviamo all’interpretazione dell’Islam e dell’ebraismo come religioni filosofiche. Vera religione e vera filosofia coincidono. Poi la lezione continua, gli studenti domandano, le diffidenze permangono, le perplessità aumentano (Averroè è una cosa, l’Islam un’altra).

Altra lezione. Su democrazia ed educazione. Esportiamo libri, se vogliamo esportare la democrazia. Non che si tratti di educare gli altri popoli, ma di gettare le condizione er ua discussione aperta, in cui possa cioè avvenire un gran bel rimescolamento delle nostre tradizioni.

Poi Fraenkel se ne va, speranzoso di avere spiegato per bene che la filosofia possa servire a cercare argomenti razionali per difendere le proprie convinzioni. Il migliore della classe però è di Hamas e non si capisce quanto ne sia persuaso. C’è questa storia che Maometto non era un fior di intellettuale, e ha scritto quel gran libro. La morale pare comunque essere che ci vuole un grano di saggezza per tradurre nelle nostre vite la nostra idea di giustizia, passa l’idea che la verità è una ma ci posono essere più imitazioni della stessa verità (e grazie: Abramo e Gesù ci van bene, ma Maometto non li vede proprio), e insomma Fraenkel se ne torna a Montreal, e Nusseibeh, che ha tutta la mia solidarietà, rimane nei casini.

(C’è pure un po’ di gossip: la moglie di Nusseibeh, Lucy, era la sorella del filosofo oxoniense John Austin, convertitasi all’Islam!).