Per Erri De Luca (su Il Mattino che – ebbene sì – ho preso a leggere), la più grande differenza passa tra ateo e non credente, non fra credente e non credente:
"Tra credente e non credente passa lo stesso participio presente. Nei dibattiti intorno alla fede, ai quali sono invitato qualche volta, provo a suggerire un’altra distinzione. La demarcazione più netta non sta tra chi è credente e chi no, ma tra il non credente e l’ateo. La convinzione assoluta dell’ateo lo separa profondamente dal credente e dalla sua domanda quotidiana. Lo stesso vale per il campo della fede. Il credente è separato in casa dal talebano, tra loro spicca la crepa principale. L’ateo e il talebano sono affini, hanno escluso l’alternativa, sono in arrocco, fermi nell’angolo della scacchiera. Il credente e il ”non”, invece, battono ogni giorno la pista della domanda, frugano la scacchiera palmo a palmo insieme, senza ostilità".
Per essere d’accordo con Erri De Luca (e per mettere l’ateo insieme al talebano), bisogna però che – a parte ogni considerazione sul piano morale – la pretesa di sapere che avanza l’ateo non abbia ragione alcuna per essere avanzata. E per escludere che l’ateo non possa sapere quel che pretende di sapere, ci vuole un sapere. Che il credente e il non credente di De Luca devono unitamente avere. Ma ce l’hanno? Oppure pretendono di averlo? E perché pretendere di sapere che non v’è alcun Dio è pretesa più forte che pretendere di sapere che ‘non si può mai sapere’, e dunque escludere che l’ateo possa sapere? Ma chi è più ragionevole, in questo momento? Chi di voi lettori pretende di sapere che queste parole sono state battute sulla tastiera da un essere umano, ed esclude che sia stato un dio, o chi dicesse che non si può mai sapere? Forse il primo. Perché dunque nel caso della fede riesca più ragionevole chi pensa che ‘non si può mai sapere’, occorre che la credenza del credente (e la non credenza del non credente) siano nutrire di un sapere: del sapere, almeno, che la fede ha ben altra ragionevolezza di altre irragionevoli credenze. Occorre quindi che non si tratti solo della riserva per cui ‘non si può mai sapere’ – senza dire che l’ateo una simile riserva potrebbe in linea di principio ben concederla, in questa forma così assolutamente indeterminata. Se invece non si tratta solo di un ‘non si può mai sapere’,ma di un qualche sapere (sull’uomo, ad esempio, o sulla natura), allora, prima di dare del talebano all’ateo, sarà meglio confrontare i saperi sull’uomo che hanno tanto i credenti e i non credenti, quanto gli atei. E non è detto che siano sempre questi ultimi ad apparire talebani, se non altro perché finora è andata esattamente all’incontrario. Infine (ma potrei continuare): qual è la ragione per cui Erri De Luca sente il bisogno di dare del talebano all’ateo? Perché il credente non vuole essere solo credente, ma persino più ragionevole dell’ateo? Perché De Luca non prova ad approfondire la grammatica del credere, invece di mettere sotto imputazione senza sapere il sapere altrui? Se a lui basta questa retorica della finitezza per cui siamo mortali, siamo finiti, siamo fragili, siamo questo e siamo quello e dunque non si può mai sapere, a me proprio non basta. (E lo informo pure che esistono fior di credenti, che di dubbi ne hanno assai pochi, e che non sono affatto talebani)
Aggiunta: "La mia impressione è che la differenza principale in materia di fede non passa tra chi la detiene e chi no, ma tra chi dubita e rinnova la sua difficile domanda e chi ha smesso di porsela". Ma cosa vuol dire: in materia di fede? Quanto c’è da sapere, per delimitare questa materia? Ha dubbi De Luca sulla costituzione di questa materia?
P.S. La domanda che nel testo mi concerne è una domanda retorica.
sulla religiosità di de luca ce ne sarebbero da dire ma non a motore spento altezza contursi. si può solo invertire verso baronissi. mi offri un cordiale?
adl
se arrivi prima delle 19.00 sì
Sembra che per De Luca la contrapposizione fondamentale tra gli umani sia tra coloro i quali hanno la c.d. religiosità (credano o meno in qualche religione positiva) e quelli che questa non hanno, immobili nelle loro certezze. Ma – nel presupposto di De Luca, per me tutto sommato accettabile, che l’immobilità sia male ed il movimento della domanda continua un bene – non si capisce perché il solo fatto che si sia atei dovrebbe condannare alla stasi. E poi, anche il “non si può mai sapere” del non credente, non è a sua volta una certezza?
Emilio
“Chi di voi lettori pretende di sapere che queste parole sono state battute sulla tastiera da un essere umano, ed esclude che sia stato un dio?”
Sembra detto da chi ha scritto la Bibbia.
“esistono fior di credenti, che di dubbi ne hanno assai poca”
assai pochi, grazie. (Vuoi la password così mi fai il correttore di bozze? Non sarebbe una cattiva idea)
Si potrebbe rispolverare il vecchio motto di Luis Buñuel: “Grazie a Dio sono ateo”. Oppure citare questo aforisma: “Il credente sa come si dubita, il miscredente non sa come si crede”. (Nicolás Gómez Dávila). Rispetto alla verbosa tesi di De Luca, l’aforisma citato è senz’altro più elegante, e direi anche più vero.
Il venerabile
Ha scritto cose interessanti lo ammetto, ma in questo caso si è dimostrato esser un chretien ignorante il De Luca, e non dare peso Massimo a ciò che scrive, e non torglierlene, altrimenti le sue parole galleggiano come stronzi a pelo d’acqua: e mi sembra che il nostro ambisca proprio a questo con le sue ultime infantili elementari esternazioni. Il mondo dalle tinte forti si è sbiadito nell’acqua santa di chi crede (di non credere) pur essendo ateo (nella Chiesa), alla Ferrara, alla Fallaci e (alla) tutti gli altri: atei devoti, o non credenti devoti, che dir si voglia (qualunquisti è la definizione esatta, dove il qualunquismo inevitabilmente sfocia a destra, chissà perché).
Scusami lo sfogo, anzi, non scusarmi, altrimenti sarebbe come dare ragione al chretien di cui sopra, che farebbe bene, come hai detto bene tu, ad approfondire il tema.
Bye
8# = AD