«Wittgenstein addio». Così, sbrigativamente (i titoli sono redazionali, ma spesso colgono il senso del tempo) era intitolato un breve intervento del filosofo del linguaggio Diego Marconi pubblicato nel giugno scorso sull’inserto domenicale del quotidiano della Confindustria, Il Sole24ore. Marconi, che ne è uno dei maggiori studiosi italiani e non solo, osservava come nella filosofia analitica «negli ultimi venti anni l’interesse per la filosofia di Wittgenstein sia nettamente declinato». In realtà il quadro è ancora peggiore, continua Marconi, perché «per la maggior parte dei giovani filosofi americani di oggi rappresenta un paradigma di cattiva filosofia, da relegare nella stessa pessima compagnia a cui appartengono Dewey e Heidegger». Ora, a parte il fatto che verrebbe da chiedersi quale filosofo possa ritenere che Heidegger rappresenti il «paradigma della cattiva filosofia» (ma poi, davvero Dewey è «peggiore» di Davidson o Fodor?), Marconi solleva una questione che il collettivo redazionale di Forme di Vita si è posto fin dalla sua fondazione.
Il problema è quello del materialismo: in filosofia essere materialisti significa descrivere la realtà in modo adeguato e aderente ai fenomeni, senza bisogno di postulare l’esistenza di entità misteriose e/o trascendenti. Il problema è che il modo in cui la filosofia analitica ha scelto di essere materialista non è in grado (per limiti interni) di descrivere l’esistenza effettiva degli animali della specie Homo sapiens. In particolare le scienze cognitive, che sono diventate l’orizzonte teorico di riferimento della filosofia analitica, non sembrano essere in grado di cogliere la specificità dell’esistenza umana. Si pensi al caso esemplare dell’esperienza religiosa, a cui Forme di Vita ha dedicato diversi interventi negli scorsi numeri. Per le scienze cognitive «spiegare» la religione significa dare conto, ad esempio, di come sia possibile credere che esista un Dio dotato di corpo ma che allo stesso tempo sia anche incorporeo oppure credere all’esistenza di una donna che sia contemporaneamente madre e vergine. Il problema religioso diventa un problema di credenze improponibili. Ed è facile sostenere che siccome si tratta di credenze irrazionali e false, l’intero problema religioso è in realtà un problema psicologico di credulità se non addirittura d’autoillusione. Ora, l’esperienza religiosa è essenzialmente un problema legato al rito, e com’è noto l’efficacia di un rito non dipende dalle credenze di chi vi prende parte, così come un battesimo è valido anche se il prete che lo officia ha perso la fede, o un matrimonio se l’assessore che lo celebra crede nell’amore libero. Lo stesso vale per le cosiddette descrizioni naturalistiche della cultura umana: ci si affanna a mostrare che anche molti animali non umani, ad esempio, sono in grado di imitare i comportamenti altrui, e così si afferma con soddisfazione che la cultura umana non è un fenomeno speciale. Sia speciale o meno, da Durkheim in poi sappiamo che la cultura umana è un insieme di istituzioni le quali hanno una vita indipendente da coloro che le abbracciano e usano, a partire dal caso esemplare delle lingue, che com’è noto sono arbitrarie, cioè non dipendono dalla volontà di coloro che le parlano. Di questo fondamentale aspetto della cultura umana le scienze cognitive però non si occupano, e talvolta sembrano proprio neanche coglierlo.