Donna è per esempio Hillary Rodham Clinton, in corsa per la nomination del partito democratico, in America, e donna è Ingrid Betancourt, in mano ai guerriglieri delle Farc dal febbraio del 2002, in Colombia. Donna è per esempio Eugenia Roccella, portavoce del Family Day, che non vuole modificare la legge 194, ma adeguarla, che diamine, quello sì, e donna è anche chi, a Napoli, si è vista arrivare in ospedale le forze dell’ordine, per verificare con i bruschi metodi della polizia giudiziaria il rispetto della legge. Donna è la top model che sfavilla sulla copertina delle riviste di tutto il mondo, ma donna è anche il viso malinconico che si cela dietro un impenetrabile burqa. Donna è l’imprenditrice di successo, e donna è anche la telefonista del call center. Donna è la ragazza che ama il piercing, e donna è anche la bambina che deve subire la pratica dell’infibulazione. Donna, insomma, si dice in questi e in moltissimi altri modi. E non tutti sono da valorizzare. Non, per esempio, i modi in cui si sta giungendo alle candidature al femminile. Che a volte non riescono a liberarsi dai cliché più vieti, con la conseguenza che in lista spuntano le segretarie, le figliole e le belle ragazze. Che la colpa sia anzitutto della mai abbastanza deprecata legge elettorale, capace di trasformare le elezioni in più burocratiche nomine, è dimostrato dal fatto che nell’universo maschile le cose non stanno andando molto meglio. Per quel che comunque è dato capire sinora, non stiamo per assistere alla nascita del primo Parlamento rosa della storia della Repubblica. Il Partito democratico vanta infatti la ragguardevole cifra del 35% di candidate, ma poiché le posizioni in lista sono spesso di rincalzo, è ragionevole attendersi che la percentuale di parlamentari donna sarà di gran lunga inferiore. È presto per dire cosa accadrà nel Pdl, ma dietro la vetrina di qualche bel volto televisivamente accattivante, e in attesa di verificare la «presenza importante» di cui parlano i leader (tutti maschi), è complicato immaginare come la cultura del centrodestra riuscirà a prestare una particolare attenzione per il pensiero femminile, la differenza sessuale, e insomma per le donne a Montecitorio. Però celebreremo l’8 marzo. E il miglior modo per celebrarlo, è anzitutto quello di guardare a quella parte di mondo nella quale la condizione della donna è ancora oggetto di pesanti discriminazioni. In tempi di relativismo culturale, questo è un sicuro criterio per orientarci fra i diversi sistemi di vita e di governo: è migliore quel paese nel quale le donne godono degli stessi diritti degli uomini. E troppi sono ancora i luoghi in cui questo non accade. Dopo di che, occorre guardare anche in casa nostra. Dove non mancano i riconoscimenti di principio, ma mancano di sicuro i riconoscimenti di fatto – come la vicenda delle candidature sta ancora una volta dimostrando. E dove soprattutto impera una straordinaria pigrizia culturale, per la quale si possono facilmente riconoscere, com’è doveroso, le uguaglianze di legge, le pari opportunità, l’eguale dignità, perfino le quote rosa, e insomma tutto quanto il diritto è in grado di garantire formalmente, a condizione però di non dover rivedere i ruoli, le figure, gli ordini simbolici dentro i quali pensare la figura femminile. E a proposito di ordini simbolici: nel Simposio, Platone racconta che gli dei, temendo la forza e l’animosità dei nostri progenitori, pensarono bene di segarli in due, creando così con il taglio le due metà, l’uomo e la donna. Perciò essi si cercano: per completarsi a vicenda. Ed è così che ancora credono gli uomini, che le donne siano solo il loro completamento. Gli uomini in generale lo pensano, e i leader politici in particolare, che infatti con le donne «completano» le liste. Ma le donne non sono e non vogliono essere un mero complemento. Vogliono essere una cosa differente: ogni volta, a modo loro. E che riescano a esserlo, vi sia o no un denominatore comune tra i molti modi di essere donna, è il miglior augurio che si possa fare loro. (Il Mattino)
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