Sotto un titolo gentile, l’articolo di oggi, su Il Mattino:
Venerdì si apre l’Assemblea Costituente del Pd. Se la grammatica ha un senso, “costituente” vuol dire: che si costituisce. Se poi lo ha anche la logica, questo significa che non si è ancora “costituito”. Il problema dell’opposizione è tutto qui. Forse è troppo semplice, addirittura semplicistico, ma è precisamente in questi termini che la vede l’uomo della strada. Più precisamente: l’uomo dell’autobus, che ieri mattina leggeva il giornale sulla linea 10 che lo portava dalla provincia in città. E che chiedeva al signore seduto al suo fianco, non retoricamente ma con sincero smarrimento, se fosse lui a non aver capito: ma il partito democratico c’è o non c’è?
C’è, ma non si vede. C’è, ma agisce nell’ombra, anzi all’ombra del governo. C’è, ed ha persino una vocazione maggioritaria, così maggioritaria da non aver avuto bisogno di stringere intese politiche, programmatiche o elettorali con altri partiti – salvo scoprire, il 14 aprile scorso (e ancora domenica, alle amministrative siciliane) la piccola differenza consonantica che separa la vocazione dalla votazione.
In realtà, il partito democratico un’alleanza l’ha stretta: con l’Italia dei valori. Perché meravigliarsi, dunque, se il segretario del partito costituente e da costituire ha visto strapparsi “la tela del dialogo possibile” proprio sui temi sui quali più nettamente si disegna il profilo del partito che già c’è, quello di Antonio Di Pietro: la giustizia, le intercettazioni, le leggi ad personam, l’antiberlusconismo?
Il fatto è che in realtà non di una tela si trattava, ma di una robusta ragnatela. La quale celava (e cela ancora) il rischio che chiunque non sia al centro a tessere i fili si trovi invischiato nel poco gradevole ruolo di mosca cocchiera – quello appunto che Berlusconi ha finora immaginato di riservare a Veltroni, mostrandosi non a caso preoccupato non tanto per gli effetti nel paese dei suoi ultimi atti di governo, ma per le conseguenze che potrebbero prodursi nel Pd, a danno del periclitante segretario.
Se perciò l’opposizione sembra ora trovarsi tra la Scilla di una subalternità politica nei confronti del centrodestra e la Cariddi di una subalternità girotondina nei confronti di Di Pietro, è perché, preoccupato di quale aggettivo scegliere per connotare il proprio ruolo di opposizione, dura o dialogante, costruttiva o intransigente, il partito democratico si è semplicemente dimenticato di giocarlo, quel ruolo. Che significa: trovare interlocutori politici, collegare forze e interessi sociali ed economici, costruire un’idea di riforma del sistema politico che non sia semplicemente funzionale al Cavaliere, e un’agenda politica che non sia scandita dalle emergenze di volta in volta individuate dal centrodestra.
Sottrarsi a quella scomoda alternativa non è però semplice, perché, a bene vedere, essa è iscritta nella sua più antica fibra. Che fu intrecciata durante il lungo autunno della prima repubblica, quando dall’impotenza politica dell’opposizione nacque l’idea un po’ balzana del partito che non c’è: “un partito con un programma di riforme istituzionali ed economiche, con una moralità nuova, con gente credibile e non compromessa”, scrisse Eugenio Scalfari su Repubblica, nel lontano dicembre 1991, con parole che Veltroni (allora tra i più convinti sostenitori del rassemblement proposto da Scalfari), potrebbe ancora oggi fare proprie. Scalfari mise su il suo pantheon formato da uomini il cui denominatore comune era costituito da “onestà, impegno civile, competenza e decenza nazionale”, delineando così un partito che in effetti non era un partito, dal momento che nessuno dei requisiti indicati allora poteva offrire altro che una bandiera morale. Un partito che non c’era e che, non essendo un partito, continuò pacatamente, serenamente, a non esserci.
Oggi, preoccupati di non riproporre entro il Pd lo schema delle vecchie appartenenze partitiche, i dirigenti del Pd stanno pericolosamente prendendo un’analoga china, giustificando così tutti i dubbi raccolti ieri mattina sull’autolinea numero 10.
E alla vigilia dell’assemblea costituente, timorosi dell’attivismo delle Fondazioni, sembrano voler dimostrare che più ancora che dal formarsi di correnti, sono terrorizzati all’idea di doverlo fare per davvero un partito che, finalmente, ci sia.