Enrico: – Papà, sono sicuro che noi siamo molto ricchi perché ci lasci quasi sempre da nonna per lavorare! -.
(Per fortuna, il terribile luglio è finito, e da domani sono in ferie. A studiare, ma in ferie.
Buone vacanze a tutti)
Enrico: – Papà, sono sicuro che noi siamo molto ricchi perché ci lasci quasi sempre da nonna per lavorare! -.
(Per fortuna, il terribile luglio è finito, e da domani sono in ferie. A studiare, ma in ferie.
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Siete sul treno., A fianco a voi, una signora di un quintale e mezzo, con un impressionante somiglianza a Kathy Bates nel film Misery non deve morire legge Intervista col vampiro. Di fronte a voi, un francescano di fresca nomina legge invece Pensieri edificanti su un libriccino molto molto piccolo. Domanda: in una simile situazione, non forse il caso di fare come me, e leggere, se non altro per il titolo, Spectrum?
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Ieri è uscito su Il Mattino il pezzo che metto, con ritardo, ui sotto, a proposito delle due ragazzine rom annegate vicino Napoli.
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"Mi innamoro di una persona che [a mia insaputa] prende il Prozac e scopro [un bel giorno] che, senza Prozac, ha un cattivo carattere. Non lo amo più? Chi ho amato?" (L. Boella, Neuroetica, Cortina, Milano 2008, p. 8).
Varianti: mi innamoro di una persona, dopo qualche tempo scoprò che è in realtà, sotto molti aspetti, tutt’altra da quella che io pensavo che fosse; mi innamoro di una persona, che dopo un certo tempo diventa (sotto taluni aspetti, non tutti) un’altra; mi innamoro di una persona, che a seguito di un incidente diventa un’altra sotto taluni aspetti (o sotto ogni aspetto); mi innamoro di una persona, scopro che a sua insaputa le somministrano il Prozac, e che senza Prozac è un’altra persona (ed è una persona migliore/ ed è una persona peggiore).
Secondo il mio modesto avviso, la semplice presenza delle varianti indicate, mostra che il dilemma proposta dal libro è un falso dilemma, oppure è un dilemma reale, non diversamente dagli altri proposti.
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Anche il più spiritualista degli uomini è disponibile, di questi tempi, a concedere che l’attività mentale lascia tracce nel cervello: mi pare difficile che si spinga sino a sostenere che nulla nel cervello accada, mentre si pensa, si immagina, si percepisce. Comprendere ad esempio la differenza tra un certo comportamento e l’esecuzione di un certo comportamento ‘per finta’ rientra tra quelle cose che noi facciamo, e di cui dunque è lecito attendersi che vi sia traccia nel cervello. Uno scienziato, Pinco Pallo, è riuscito a determinare quali neuroni scaricano quando comprendiamo che un certo comportamento viene eseguito per finta, ed è riuscito a stabilire che quegli stessi neuroni, detti neuroni furbacchioni, non si attivano quando il comportamento non viene tenuto per finta, ma sul serio. Ne viene che i neuroni in questione si attivano dunque perché comprendono la finta? Oppure è meglio dire che noi chiamiamo comprensione l’attivazione dei neuroni furbacchioni?
Quel che accade nel cervello quando comprendiamo è ciò che chiamiamo comprensione? Evidentemente no (almeno: non finora). Quel che accade nel cervello è allora un altro modo (per esempio: un modo più preciso, un modo più potente, un modo più definito) di descrivere quel che chiamiamo comprensione, e abbiamo chiamato finora così ignorando l’esistenza dei neuroni deputati allo scopo? Ma avere scoperto il comportamento dei neuroni furbacchioni rende davvero più perspicuo cosa significhi comprendere, o è piuttosto il primo passo sulla strada di quel che si potrà fare per sapere, poniamo, se Tizio ha compreso che è una simulazione quella a cui si è sottoposto, e magari spingere un giorno il cervello a fare quel che gli chiediamo di fare (per esempio: comprendere le finte) non a parole, ma a forza di scariche elettriche? Resta che devo avere già idea di cosa sia compendere, per andare a cercare quali sono i neuroni che fanno il lavoro per me. Sicché cos’è comprendere non me lo possono insegnare i neuroni, né ora né mai .
P.S. avevo scritto "…o è soltanto il primo passo…". Ma immagino che molti, se avessi scritto così, avrebbero commentato: "e ti par poco"?
PP.SS. I più materialisti, spaventati dall’ultima proposizione del post, possono riformularla, in maniera un po’ più complicata, così: sicché la dimensione in cui si muove la comprensione del mondo che precede necessariamente qualunque spiegazione non può essere a sua volta spiegata: non perché sia in mente Dei, ma proprio perché non è in mente, essendo piuttosto la mente a stare in essa.
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Su Il Mattino, dopo le 14.
Prima delle 14, invece, io parto, e perciò non posterò l’articolo qui sotto.
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La macchina grande è vecchia: ha fatto 240.000 km e la stiamo cambiando. La macchina piccola sta dall’elettrauto. Il frigorifero si è rotto e lo stiamo cambiando. Da ieri è rotto pure il televisore è rotto e la dobbiamo aggiustare. La lavastoviglie oggi non ha asciugato e non capisco perché.
Qui in casa facciamo tutti il tifo per la lavatrice.
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"Credo di conoscere, dopo averla colta anche nelle attitudini del padre, la vocazione di Veltroni per la drammatica dualità del fondere, ma anche del separare, la vecchia nozione e la nuova lettura del dilemma di fondo: la fides et ratio, cioè la presenza di Dio in sé, nel suo proprio arbitrio e dominio, e in noi, nella nostra facoltà di intenderlo e viverlo".
Zavoli che recensisce Veltroni che recensisce Scalfari. Non aggiungo parola perché non vorrei ritrovarmi da qualche parte come anello di questa stessa catena.
P.S. Che poi, abbiate pazienza, ma una cosa devo notarla. Veltroni attacca così: "Aprirò il libro dalla dedica. Non guarderò la copertina, non ancora. Ci ritorno dopo un po’". A parte il discutibile uso dei tempi verbali, ma che ti fa Veltroni, dopo avere cominciato così? Ti parla a lungo proprio della copertina che non ha guardato subito ("è rilegata in brossura…la sovraccoperta è bianca…, ecc. ecc.), e per tutto l’articolo non dice una parola sulla dedica! Straordinario. (Veltroni in realtà voleva dire: solo alla fine vi dirò il nome dell’autore che sta in copertina. Ma sarà rimasto così stordito dalla brillantezza della sua trovata che purtroppo gli è venuta male)
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Lunghissimo articolo di Vito Mancuso, addirittura con escursioni di politica internazionale, che è però rapidamente riassumibile, grosso modo, così: Nietzsche è il padre spirituale del nostro tempo; per Nietzsche non c’è peggior nemico del cristianesimo; la teologia deve pensare all’altezza di Nietzsche, senza inganni e senza infingimenti; si fa questo quando si pensa che il mondo è forza, e nient’altro che forza, e che è vano pensare di chiamarsene fuori, anche se ciò non vuol dire soltanto rendersi ad essa.
E fin qui. Poi però Mancuso dice pure che uno che ha portato Nietzsche nel cristianesimo è Bonhoeffer, e che il suo problema era vedere, certo, la forza, la forza anonima, ma per ritrovare dentro di essa (non di fronte, non fuori), la provvidenza personale, il tu. Scoprire quindi che la forza più grande è l’amore. "Di fronte a un pensiero così, Nietzsche non avrebbe accusato il cristianesimo di menzogna", scrive Mancuso. Ma davvero Nietzsche non avrebbe considerato menzognera la proposizione di Mancuso, che la più grande forza è l’amore (l’amore cristiano, I suppose)? Sicuro che questa conversione dell’esso in un tu non sarebbe accusata di menzogna sol perché il tu, anziché stare di fronte, sopra o al di là, sta proprio dentro le viscere della storia?
Temo proprio che ci sia poco da stare sicuri.
Il sonno turbato degli italiani, è il titolo dell’articolo di oggi. In cui tutto è esplicito e solo una cosa è implicita:
La colpa è mia. Ieri ero stanco, e sul treno non mi andava di studiare. Alla stazione ho allora deciso di acquistare un romanzo breve, che potessi leggere e terminare nel viaggio di ritorno. A causa del poco tempo, del nome di Aristotele, delle dimensioni del libro e della sua prossimità alle casse, la scelta è caduta su questo libro di Margaret Doody, che non ho difficoltà a considerare il peggior libro che io abbia letto, da un bel po’ di tempo in qua.
Lo sconsiglio caldamente a tutti.
Buongiorno, sono xxx della Tiscali
Buongiorno, mi dica.
Signor Adinolfi, Tiscali la informa che dal prossimo mese Lei ha diritto a non pagare più il canone Telecom…
Ma io già non pago più il canone Telecom
Ha fatto la disdetta?
Sì
Ah. Perché qui a noi non risulta…
Mi scusi, ma perché dovrebbe risultare a lei?
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Io so che se mi intercettano, e in specie: se mi hanno intercettato in questi ultimi giorni, la quantità di spiegazioni che dovrei a Tizio e a Caio (spero non a magistrati) sarebbe enorme. Ciò detto, replico brevemente a Malvino, che a proposito dell’articolo qui sotto postato mi obietta sostanzialmente di avere fatto una distinzione tra curiositas e curiositas: edificante l’una, indecente l’altra.
L’obiezione, fin qui, non è degna di particolare nota, perché suppongo – anzi: so per certo che Malvino, come me e come tutti, è curioso di questo e non di quello, e distingue benissimo quel che vale la pena sapere da quel che non vale la pena sapere, sicché si autoconfuta da solo.
Ma poi Malvino aggiunge: "Si pone la necessità di un’autorità (se non morale, culturale; se non culturale, politica) che scoraggi i sudditi dalla curiositas spiritualmente deleteria". E qui non mi è chiaro a quale punto del mio articolo si riferisca, visto che l’articolo non suggerisce l’urgenza di una svolta autoritaria nel paese. Capisco bene, però, perché usi la parola autorità, e perché poi la parola sudditi (che peraltro va esattamente nel verso opposto a quanto scrivo, nell’ultima parte dell’articolo), ma non capisco a quale punto del mio articolo si riferisca per giustificarne passabilmente l’uso.
A mio avviso, c’è sotto (ma non troppo sotto) una bella, e sofistica, quaternio terminorum, perché il termine viene preso nell’accezione larga – per cui è un’autorità (in senso morale, e spirituale) anche l’amico di cui si seguono i consigli, o il docente che invita a vedere un film piuttosto che un altro, o lo stesso Malvino che di libri me ne ha consigliati e regalati in passato (e spero in futuro) -, ma è un’autorità anche il pubblico ufficiale che impone il rispetto di un divieto di legge. E scambiando o sovrapponendo i due termini, l’obiezione di Malvino fila che è una bellezza.
Che Malvino non si preoccupi di sottilizzare troppo, nonostante le note, a me pare peraltro evidente da ciò: che avanza dubbi su quel che è opinione mia e su quel che è opinione di Tommaso, e non posso credere che non abbia saputo distinguere. Sarebbe bastato fare attenzione al ‘per fortuna’, posto fra parentesi (e anche senza quello, si capiva benissimo);
che trascura di considerare l’unico passaggio che dedico all’aspetto non dico legale, ma di legittimità costituzionale della faccenda (del quale naturalmente si può discutere, ma non è una discussione di quest’aspetto il post di Malvino, ed è comunque sorprendente che un liberale come lui sorvoli così velocemente sul tema delle garanzie);
che, soprattutto, trascura di considerare tutta la coda dell’articolo, che è poi la sua vera ratio (anche se Malvino sospetta, bontà sua, che sia altra). E cioè, se dovessi dirla persino nel più diretto dei modi: che non c’è motivo di supporre che la classe politica democristiana che governava il paese trenta, quaranta, o cinquant’anni fa fosse moralmente migliore di quella attuale, e tuttavia il motivo principale per cui veniva combattuta non era di ordine morale, ma politico (non importa ora quanto fondato, il motivo). Il che peraltro, aggiungo en passant, non obbligava a condividerne o ad apprezzarne la moralità.
Infine, sul tema delle garanzie. Al gentile commentatore malviniano che si chiede se io ponga sullo stesso piano le telefonate tra amici che si fanno i fatti loro, e le telefonate tra Berlusconi e Saccà, pur dovendo fare qualche precisazione, vado al sodo e scelgo il lato a lui più indigesto della faccenda e rispondo (da liberale, credevo) di sì. C’è un piano sul quale stanno sia le une che le altre, ed è per esempio il rispetto delle persone che funzionari pubblici non sono, e che sono sputtanate comunque dalle telefonate. Lui pensa evidentemente che il diritto dell’opinione pubblica di sapere cosa dice in privato il Presidente del Consiglio giustifichi lo sputtanamento di chiunque, io no. Per fare un esempio: nell’esercizio delle mie funzioni di docente, sono, a quanto pare, un pubblico funzionario. Bene, trovo che sarebbe veramente preoccupante se per questo gli studenti, venuti in possesso del contenuto di mie telefonate private in cui sparo giudizi su questo e su quello (e magari rivelo pure questioni di corna tra colleghi, che stuzzicano sempre la curiositas), trovo veramente preoccupante, dicevo, se le potessero mettere liberamente sul giornalino dell’università, o sul Corriere della sera.
E a tal proposito, preferisco infine che lui pensi che l’opinione che io ho di lui sia quella che emerge da queste righe, e non quella che mi potrebbe scappare al telefono con Malvino. (Si scherza, eh).
p.s. Lo rassicuro, infine, su un punto secondario: il mio gioudizio politico su Mastella è lo stesso, e non ha avuto bisogno delle ultime vicende per formarsi, né quelle vicende lo hanno mutato.
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Se viveste in un castello che ha cento porte, e sapeste che dietro tutte quelle porte può esserci un nemico mortale, vi impegnereste a sbarrare la prima porta, anche se non aveste, sul momento, idea di come sbarrare le altre novantanove? Fate però che sbarrare la prima delle 100 porte non significhi dedicare ogni grammo della vostra esistenza all’impresa, e che io non vi stia cadendo di rinchiudervi in uno spazio angusto e inospitale, ma al contrario di renderlo il più possibile ospitale, e il meno possibile esposto all’irruzione della morte.
Però forse avete ancora dei dubbi. Forse voi pensereste che comunque non ne vale la pena. Ma avreste nulla in contrario se altri, che vivono nei loro castelli, provvedessero a sbarrare la loro porta: è così riprovevole?
No, non lo è. Ma può apparire vano, dal momento che la morte può sorprendervi da ognuna delle altre 99 porte. Il che è vero. Ma è vano come vana è, a cospetto della morte, ogni altra impresa umana. E bisogna sapere che quando si usa quest’argomento per trovare insensata l’impresa di chiudere almeno una porta, si usa un argomento che rende insensata, in genere, ogni impresa umana che non sia una meditazione sulla morte. (In realtà, è vana pure quella meditazione, e per gli stessi motivi. E qui c’è il lato politico della faccenda, perché non sono gli stessi, gli uomini che, nella considerazione della universale vanità dell’esistenza, meditano sulla morte, e gli uomini che invece meditano sulla vita – ma questa è un’altra storia).
Ciò detto e meditato, la porta è il tumore al seno, e le altre 99 porte sono gli altri tumori, e le altre infinite disgrazie e malattie che possono sorprenderci nel corso della nostra vita, senza che l’avere sbarrato la possibilità (percentualmente, a quanto leggo, bassa) di una contrazione della malattia per eredità genetica grazie alla selezione preimpianto impedisca al nuovo nato di ammalarsi e morire di chissà cosa.
Ma la selezione preimpianto non è senza costi, si obietta: si sopprimono embrioni. Il che, allo stato, è vero, ma significa che il punto è sempre lì, cosa mai sia un embrione. Solo che porte e castello stanno in quest’articolo di Marina Corradi, che in premessa mette da parte la domanda sull’embrione, nel tentativo di proporre argomenti che a suo dire sconsiglierebbero la selezione preimpianto per l’insensatezza della cosa. Il che, come s’è visto, non è, se non a prezzo di rendere insensata ogni cosa, compreso scrivere articoli sull’argomento.
(C’è un altro modo di considerare insensato l’atteggiamento dei genitori inglesi che hanno seguito la strada criticata dalla Corradi, a cui l’articolista accenna, ed è quello di ricondurre l’intera faccenda ad una sorta di fissazione un po’ paranoica: ho sconfitto quel timore, ho sconfitto il tumore. Ma non v’è ragione di supporre che i genitori inglesi non sappiano che hanno solo ridotto le possibilità che il loro figlio o la loro figlia contragga quel tumore. E se io fossi di fronte a cento strade, ognuna delle quali contenesse potenziali pericoli ma una più delle altre, credo proprio che, senza pensare di avere evitato ogni pericolo, e senza sentirmi paranoico, eviterei senz’altro la strada che mi risulta essere la più pericolosa).