Archivi del mese: luglio 2008

Ricchi!

Enrico: – Papà, sono sicuro che noi siamo molto ricchi perché ci lasci quasi sempre da nonna per lavorare! -.

(Per fortuna, il terribile luglio è finito, e da domani sono in ferie. A studiare, ma in ferie.
Buone vacanze a tutti)

Il boia e il suo rovescio

In carcere, Radovan Karadzic mangia solo noccioline e uvetta. L’uomo dell’assedio di Sarajevo, l’uomo che diede il via libera al massacro di Srebenica, è un grande esperto di macrobiotica, bioenergia e medicina alternativa. Quest’uomo, Radovan Karadzic, messe da parte le stragi e i massacri, gli stupri e le esecuzioni sommarie, ha esercitato con grande perizia l’agopuntura, somministrato farmaci omeopatici, praticato le arti quasi magiche della chiroterapia e della fitoterapia. Portava una lunga e folta barba bianca, che gli dava l’aria del santone. E tunica e sandali, come un asceta o un maestro di saggezza dell’antico Oriente. Presso il suo studio, presso lo studio medico dell’ex presidente serbo-bosniaco accusato dal Tribunale penale internazionale di genocidio e crimini contro l’umanità, si potevano seguire metodi riabilitativi di bimillenaria tradizione, come lo Yoga e il Qi Gong. Radovan Karadzic è stato, d’altronde, anche un poeta: l’uomo ha scritto quattro libri di poesie e per uno di essi ha anche ricevuto il premio "I sentieri dell’infanzia". Uno dei responsabili delle più orrende pulizie etniche a danno dei musulmani e dei croati di Bosnia, con il bel nome e la nuova identità professionale di Dragan Dabic ha potuto evocare nel corso di questi lunghi anni di latitanza l’energia del sole, il potere dei cristalli e i segreti dell’iridologia. Dragan Dabic era un dottore, e alleviava i mali dei suoi pazienti avendo sulle spalle la morte violenta di migliaia di uomini.
Naturalmente, per quanto a lungo si possa camminare, non si ritroveranno mai i confini di un’anima: lasciamo perciò senza spiegazione come l’individuo in doppiopetto Radovan Karadzic abbia potuto indossare il camicione largo del dottor Dabic, senza lasciar affiorare nulla del suo terribile passato. Quel che però è degno di qualche riflessione, è che nell’anonimato della sua nuova esistenza Karadzic abbia esercitato, presumibilmente con qualche successo, una professione medica che si vuole alternativa rispetto alla medicina ufficiale, e che, ancor prima di giustificare i propri metodi in ragione di una presunta maggiore efficacia, si vanta di stabilire un rapporto più diretto, più coinvolgente e personale, in una parola: più "umano" con il malato. È questo che sorprende: per quanto abile sia stato Karadzic nel calare sul suo volto la maschera di profeta New Age, e indipendentemente dalle coperture che hanno probabilmente potuto assicurargli una così lunga impunità, resta il fatto che ha potuto essere – lui macellaio, lui boia – un campione di umanità.
Ma di che genere di umanità si tratta? Forse lo comprendiamo meglio smettendo di raccontare la storia che le ideologie sporche e cattive sono finite, che i nostri sono tempi di definitivo disincanto, che non ci resta quindi che stare sul mercato a difendere occhiuti i nostri egoistici interessi, lasciando poi che ciascuno se la sbrighi da solo con le proprie ragioni di disagio: bussando magari alla porta del dottor Dabic. È infatti in quest’orizzonte post-politico, in cui la forma politica dell’esistenza umana è semplicemente rimossa, oppure, se non è rimossa, è appena tollerata, che è possibile che trovino un punto di contatto le più violenti forme di pulizia etnica e le più dolciastre illusioni esistenziali, e che taluno confidi o nello scatenamento della violenza o nelle salutari risorse della luce, dell’acqua e del suono. Son cose che, per quanto distanti in superficie, hanno tuttavia, in profondità, qualcosa in comune: il rifiuto di costruire la propria identità nello spazio pubblico della democrazia. Uno spazio difficile perché costitutivamente abitato dall’altro, da colui che non ha il mio stesso idem sentire, e di cui quindi devo rispettare sino in fondo la diversità.
L’idem sentire: si dice che ne abbiamo bisogno, per fortificare le nostre comunità minacciate. Prima però di somministrarne nuove, massicce dosi alle inferme democrazie occidentali, pensiamoci a lungo: a ben vedere, è quello il basso continuo della vita di Radovan Karadzic. Cosa ha fatto in effetti, Radovan Karadzic, che di identità e comunità si intendeva, e ci teneva a tal punto da consentire l’espulsione o l’omicidio del diverso, perché tutti, nella sua regione, sentissero come lui – cosa ha fatto, dismessi i panni del Presidente e indossati quelli del dottor Dabic, se non cercare tra le anime dell’ex-Jugoslavia quelle che più avevano bisogno di consentire ancora con lui, di sentire ancora con lui, in una più forte comunione spirituale, il salutare effetto dell’idroterapia o la benefica azione della cromoterapia?

Di spettri e altri fantasmi

Siete sul treno., A fianco a voi, una signora di un quintale e mezzo, con un impressionante somiglianza a Kathy Bates nel film Misery non deve morire legge Intervista col vampiro. Di fronte a voi, un francescano di fresca nomina legge invece Pensieri edificanti su un libriccino molto molto piccolo. Domanda: in una simile situazione, non forse il caso di fare come me, e leggere, se non altro per il titolo, Spectrum?

Torregaveta

Ieri è uscito su Il Mattino il pezzo che metto, con ritardo, ui sotto, a proposito delle due ragazzine rom annegate vicino Napoli.

Chissà cosa avrà pensato il mare, quando ha sollevato tra le onde due bambine rom, di 12 e 13 anni, sbattendole contro gli scogli e restituendole esanimi a riva. Due bambine che forse non sapevano nuotare, ma nelle cui vene pulsava forte il desiderio di vivere, la spensieratezza di un’età che esplode in una giornata di sole sulla spiaggia di Torregaveta, lungo il litorale flegreo, il desiderio di abbracciare le acque, di rincorrersi sulla battigia, di tuffarsi nella schiuma del mare agitato dal maestrale. E il mare crudele le ha ghermite; indifferente alla gioia del loro mattino, le ha travolte, annegate, uccise.
Poi le ha uccise anche l’agghiacciante indifferenza degli uomini. Le ha uccise lo sguardo noncurante dei bagnanti che sono rimasti imperturbabili sulla spiaggia per tre, lunghe ore, accanto ai due corpicini poggiati a riva, coperti solo da due teli da mare. Le ha uccise il volto impassibile degli uomini che sono rimasti seduti sotto i loro ombrelloni, oppure immobili a fumare una sigaretta o a fare le parole crociate, quando, dopo tre lunghe ore, sono finalmente arrivate le bare. Sono arrivate le bare in spiaggia, e c’è chi è rimasto in costume a prendere il sole, chi ha pensato bene che, dopotutto, ora poteva alzarsi e fare di nuovo qualche passo sul bagnasciuga, senza correre il rischio di passare troppo vicino ai due piccoli cadaveri.
Qualcuno ha prestato soccorso, qualcuno ha chiamato il 118 e ha provato a salvare le due bambine. Ma quando sono morte, cos’altro si poteva fare? Hanno prestato un paio di asciugamani, le hanno accostate l’una all’altra lasciando scoperti solo i piccoli piedini, e non essendovi null’altro da fare hanno ripreso a spalmarsi l’abbronzante, celando egregiamente l’imbarazzato fastidio di non poter ridere ad alta voce, o magari giocare a pallone sull’arenile.
Così sono gli uomini. Non sono come Aleša, l’ultimo dei fratelli Karamazov, al cui pianto sulla tomba del piccolo Iljùšečka, Dostoevskij affida la chiusura del suo romanzo più famoso, dopo mille pagine spese ad indagare le radici del male e della sofferenza inutile, ingiusta, inesplicabile. All’amichetto Kolja, che lo affronta gridando, e chiedendogli se davvero risorgeremo un giorno, Alesa risponde “mezzo ridente e mezzo estatico” che sì, davvero risorgeremo un giorno. Può darsi che sia così, oppure no; può darsi soprattutto che ci voglia lo slancio del mistico Alesa per trovare la forza di sorridere al gruppo di bambini in lacrime di cui il giovane Karamazov si circonda ai funerali di Iljùšečka, ma intanto bisognerebbe cominciare a trovare almeno la forza di piangere dinanzi a due bambine morte sul litorale, la decenza di indossare una maglietta, il rispetto e l’umanità per mettere per una volta da parte i giochi, le carte, i panini. Anche solo per maledire il mare, e persino Dio stesso, pur di non restare incuranti ed estranei alla morte di due bambine.
C’è una teoria dei sentimenti morali con la quale s’è provato a spiegare tutto questo. L’ha scritta nel ‘700 un filosofo ed economista, Adam Smith. Il quale faceva questo esempio: se apprendessimo che un improvviso terremoto ha causato la morte di milioni di persone e inghiottito il grande impero cinese, esprimeremmo con ardore la nostra sofferenza per l’enorme sventura, ragioneremmo dolenti sulla precarietà della vita umana e piangeremmo sulla vanità degli sforzi dell’uomo; dopo di che, però, torneremmo ai nostri affari e al nostro divertimento, al riposo o allo svago “con lo stesso agio e tranquillità di prima”. Se invece apprendessimo una sera, con indefettibile certezza, che al mattino seguente bisognerà che ci taglino un dito, non riusciremmo a chiudere occhio l’intera notte. La perdita di un nostro dito ci tocca più della morte di miliardi di persone nei territori dell’Estremo Oriente.
Può darsi che questa sia la natura umana, e che non ci sia nulla da fare. Ma cosa bisogna pensare, quando questa verità si fa valere con intollerabile evidenza non a distanza di migliaia di chilometri, ma sulla stessa spiaggia, a fianco del nostro stesso ombrellone, a due passi dal secchiello e dalla paletta dei nostri figli?
E domani, chissà, qualche nave della disperazione lascerà ancora, nel nostro mare, al largo dei nostri spensierati pedalò, il corpo di qualche immigrato in cerca di una vita disperatamente migliore.

Dilemmi etici e neuroetici

"Mi innamoro di una persona che [a mia insaputa] prende il Prozac e scopro [un bel giorno] che, senza Prozac, ha un cattivo carattere. Non lo amo più? Chi ho amato?" (L. Boella, Neuroetica, Cortina, Milano 2008, p. 8).

Varianti: mi innamoro di una persona, dopo qualche tempo scoprò che è in realtà, sotto molti aspetti, tutt’altra da quella che io pensavo che fosse; mi innamoro di una persona, che dopo un certo tempo diventa (sotto taluni aspetti, non tutti) un’altra; mi innamoro di una persona, che a seguito di un incidente diventa un’altra sotto taluni aspetti (o sotto ogni aspetto); mi innamoro di una persona, scopro che a sua insaputa le somministrano il Prozac, e che senza Prozac è un’altra persona (ed è una persona migliore/ ed è una persona peggiore).

Secondo il mio modesto avviso, la semplice presenza delle varianti indicate, mostra che il dilemma proposta dal libro è un falso dilemma, oppure è un dilemma reale, non diversamente dagli altri proposti.

Neuroni furbacchioni (scritto per finta)

Anche il più spiritualista degli uomini è disponibile, di questi tempi, a concedere che l’attività mentale lascia tracce nel cervello: mi pare difficile che si spinga sino a sostenere che nulla nel cervello accada, mentre si pensa, si immagina, si percepisce. Comprendere ad esempio la differenza tra un certo comportamento e l’esecuzione di un certo comportamento ‘per finta’  rientra tra quelle cose che noi facciamo, e di cui dunque è lecito attendersi che vi sia traccia nel cervello. Uno scienziato, Pinco Pallo, è riuscito a determinare quali neuroni scaricano quando comprendiamo che un certo comportamento viene eseguito per finta, ed è riuscito a stabilire che quegli stessi neuroni, detti neuroni furbacchioni, non si attivano quando il comportamento non viene tenuto per finta, ma sul serio. Ne viene che i neuroni in questione si attivano dunque perché comprendono la finta? Oppure è meglio dire che noi chiamiamo comprensione l’attivazione dei neuroni furbacchioni?
Quel che accade nel cervello quando comprendiamo è ciò che chiamiamo comprensione? Evidentemente no (almeno: non finora). Quel che accade nel cervello è allora un altro modo (per esempio: un modo più preciso, un modo più potente, un modo più definito) di descrivere quel che chiamiamo comprensione, e abbiamo chiamato finora così ignorando l’esistenza dei neuroni deputati allo scopo? Ma avere scoperto il comportamento dei neuroni furbacchioni rende davvero più perspicuo cosa significhi comprendere, o è piuttosto il primo passo sulla strada di quel che si potrà fare per sapere, poniamo, se Tizio ha compreso che è una simulazione quella a cui si è sottoposto, e magari spingere un giorno il cervello a fare quel che gli chiediamo di fare (per esempio: comprendere le finte) non a parole, ma a forza di scariche elettriche? Resta che devo avere già idea di cosa sia compendere, per andare a cercare quali sono i neuroni che fanno il lavoro per me. Sicché cos’è comprendere non me lo possono insegnare i neuroni, né ora né mai .

P.S. avevo scritto "…o è soltanto il primo passo…". Ma immagino che molti, se avessi scritto così, avrebbero commentato: "e ti par poco"?

PP.SS. I più materialisti, spaventati dall’ultima proposizione del post, possono riformularla, in maniera un po’ più complicata, così: sicché la dimensione in cui si muove la comprensione del mondo che precede necessariamente qualunque spiegazione non può essere a sua volta spiegata: non perché sia in mente Dei, ma proprio perché non è in mente, essendo piuttosto la mente a stare in essa.

Chi gioca con i diritti

Su Il Mattino, dopo le 14.

Prima delle 14, invece, io parto, e perciò non posterò l’articolo qui sotto.

Il tifo

La macchina grande è vecchia: ha fatto 240.000 km e la stiamo cambiando. La macchina piccola sta dall’elettrauto. Il frigorifero si è rotto e lo stiamo cambiando. Da ieri è rotto pure il televisore è rotto e la dobbiamo aggiustare. La lavastoviglie oggi non ha asciugato e non capisco perché.

Qui in casa facciamo tutti il tifo per la lavatrice.

Credo di conoscere

"Credo di conoscere, dopo averla colta anche nelle attitudini del padre, la vocazione di Veltroni per la drammatica dualità del fondere, ma anche del separare, la vecchia nozione e la nuova lettura del dilemma di fondo: la fides et ratio, cioè la presenza di Dio in sé, nel suo proprio arbitrio e dominio, e in noi, nella nostra facoltà di intenderlo e viverlo".

Zavoli che recensisce Veltroni che recensisce Scalfari. Non aggiungo parola perché non vorrei ritrovarmi da qualche parte come anello di questa stessa catena.

P.S. Che poi, abbiate pazienza, ma una cosa devo notarla. Veltroni attacca così: "Aprirò il libro dalla dedica. Non guarderò la copertina, non ancora. Ci ritorno dopo un po’". A parte il discutibile uso dei tempi verbali, ma che ti fa Veltroni, dopo avere cominciato così? Ti parla a lungo proprio della copertina che non ha guardato subito ("è rilegata in brossura…la sovraccoperta è bianca…, ecc. ecc.), e per tutto l’articolo non dice una parola sulla dedica! Straordinario. (Veltroni in realtà voleva dire: solo alla fine vi dirò il nome dell’autore che sta in copertina. Ma sarà rimasto così stordito dalla brillantezza della sua trovata che purtroppo gli è venuta male)

Di fronte a un pensiero così

Lunghissimo articolo di Vito Mancuso, addirittura con escursioni di politica internazionale, che è però rapidamente riassumibile, grosso modo, così: Nietzsche è il padre spirituale del nostro tempo; per Nietzsche non c’è peggior nemico del cristianesimo; la teologia deve pensare all’altezza di Nietzsche, senza inganni e senza infingimenti; si fa questo quando si pensa che il mondo è forza, e nient’altro che forza, e che è vano pensare di chiamarsene fuori, anche se ciò non vuol dire soltanto rendersi ad essa.

E fin qui. Poi però Mancuso dice pure che uno che ha portato Nietzsche nel cristianesimo è Bonhoeffer, e che il suo problema era vedere, certo, la forza, la forza anonima, ma per ritrovare dentro di essa (non di fronte, non fuori), la provvidenza personale, il tu. Scoprire quindi che la forza più grande è l’amore. "Di fronte a un pensiero così, Nietzsche non avrebbe accusato il cristianesimo di menzogna", scrive Mancuso. Ma davvero Nietzsche non avrebbe considerato menzognera la proposizione di Mancuso, che la più grande forza è l’amore (l’amore cristiano, I suppose)? Sicuro che questa conversione dell’esso in un tu non sarebbe accusata di menzogna sol perché il tu, anziché stare di fronte, sopra o al di là, sta proprio dentro le viscere della storia?

Temo proprio che ci sia poco da stare sicuri.

Indovina indovinello

Il sonno turbato degli italiani, è il titolo dell’articolo di oggi. In cui tutto è esplicito e solo una cosa è implicita:

Come avete dormito, stanotte? Male? Come voi, il 6 luglio del 1916, Franz Kafka non dormì affatto bene. Sul suo diario annotò: "Insonnia, mal di testa, salto dalla finestra, ma sul terreno molle di pioggia dove il colpo non sarà mortale. Infinito rigirarsi ad occhi chiusi, offerto a un qualunque sguardo sincero".
Chissà cosa aveva da chiedere Kafka a uno sguardo sincero, che ne osservasse, nella notte insonne, gli agitati movimenti: forse una tregua dai sogni senza sonno che lo assillavano; forse il soffio di quella irraggiungibile pietà che nei suoi racconti non carezza mai il volto dei protagonisti. Dio del sonno, fammi dormire, pregava Kafka in silenzio. Lascia che io scivoli finalmente nelle tue accoglienti braccia, e che per qualche ora non conservi più neanche una goccia, neanche un’oncia dei ricordi e dei pensieri del giorno.
Ma soprattutto: chissà se quella notte faceva caldo come in queste opprimenti notti di luglio. Perché, in tal caso, l’insonnia metafisica del grande scrittore, a 125 anni dalla sua nascita, sarebbe bella e spiegata. Come si fa, infatti, a dormire con il caldo soffocante, l’umidità, l’afa, le lenzuola appiccicose, il cuscino sudaticcio? Come si fa a mantenere la calma e a non perdere la pazienza, se l’uno vuole la finestra spalancata e l’altra non sopporta la luce né i rumori della strada? Se uno vuole il ventilatore puntato alla massima velocità contro il letto, e l’altra lamenta che fa male, che così le vengono i reumatismi? Se uno smania e non smette di rigirarsi come Kafka nel letto – però non ad occhi chiusi; però senza preghiere ma anzi tra molte imprecazioni: che speriamo i bambini, di là, non sentano – e l’altra invece riesce a starsene accucciata in un angolo del letto, con una strategia di resistenza riconducibile, per imperturbabilità, più al taoismo cinese che alle radici cristiane dell’Europa?
Cosa turba il sonno degli italiani? Non c’è da avere molta fiducia nei sondaggi, particolarmente quando chiedono di scegliere tra risposte preconfezionate: l’eliminazione agli Europei di calcio; l’aumento del prezzo della benzina e il carovita; i figli, la scuola, la sicurezza, la droga. Se però l’istituto demoscopico di turno facesse le sue telefonate agli uomini insonni a cui non dà requie né la poltrona a sdraio sul balcone, né la birra ghiacciata nel frigo, la maggioranza assoluta delle risposte cadrebbe senz’altro sulla calura madida di sudore dei nostri corpi disfatti. E sulle zanzare-tigre, che una foresta di basilico sul davanzale o ettolitri di citronella non riescono a tenere lontane.
Come vorremmo poter dare la colpa all’inettitudine dell’opposizione o alla strafottenza di Berlusconi! E invece no: se non dormiamo è solo per i troppi gradi centigradi. O piuttosto: per questa benedetta temperatura percepita, come da qualche anno abbiamo imparato a ripetere. Sembra quasi che se non sopportiamo il caldo, dal momento che a percepire siamo appunto noi stessi e nessun altro, sia colpa non del sole, non dell’afa, non – che so io? – dell’effetto serra, ma nostra e soltanto nostra, che ci ostiniamo a percepire.
Non sapete di cosa poi sono capaci, gli uomini che non hanno dormito tutta la notte! La letteratura è piena di questi tristi sventurati, capaci dei più atroci delitti e dei pensieri più blasfemi sol perché un dio crudele ha tolto loro il sonno. Prendete il malvagio Macbeth, inseguito dai suoi delitti e da una voce che gli grida che non dormirà più, che ha ucciso anche il sonno! O prendete l’ateo Kirillov, ne I demoni di Dostoevskij: non c’è uomo più luciferino di lui, disperato sino al punto di assecondare i deliri omicidi di uomini che pure profondamente disprezza. Prendete, infine, il best seller di Jeffrey Deaver, Pietà degli insonni. Come diceva Pascal: con un titolo così, qualunque cosa ci sia scritta dentro, io la sottoscrivo.
Per fortuna, non siamo giunti ancora a simili nefandezze. Forse la temperatura salirà ancora, né mancheremo di consultare le previsioni metereologiche tre volte al giorno. Ma per il momento l’insonnia di noi italiani non genera ancora mostri. Solo sguardi pruriginosi, curiosità morbose, piccole indecenze, bravazzate e meschinità. Se solo si riuscisse a prendere sonno, a dormire otto ore di fila; se anche i primi ministri dormissero di più, e solerti funzionari origliassero di meno, con buona pace dell’anticiclone delle Azzorre staremmo tutti un po’ meglio.

Aristotele e l'anello di bronzo

La colpa è mia. Ieri ero stanco, e sul treno non mi andava di studiare. Alla stazione ho allora deciso di acquistare un romanzo breve, che potessi leggere e terminare nel viaggio di ritorno. A causa del poco tempo, del nome di Aristotele, delle dimensioni del libro e della sua prossimità alle casse, la scelta è caduta su questo libro di Margaret Doody, che non ho difficoltà a considerare il peggior libro che io abbia letto, da un bel po’ di tempo in qua.

Lo sconsiglio caldamente a tutti.

Intercettazioni

Buongiorno, sono xxx della Tiscali
Buongiorno, mi dica.
Signor Adinolfi, Tiscali la informa che dal prossimo mese Lei ha diritto a non pagare più il canone Telecom…
Ma io già non pago più il canone Telecom
Ha fatto la disdetta?

Ah. Perché qui a noi non risulta…
Mi scusi, ma perché dovrebbe risultare a lei?

Socrate e il tampax

Io so che se mi intercettano, e in specie: se mi hanno intercettato in questi ultimi giorni, la quantità di spiegazioni che dovrei a Tizio e a Caio (spero non a magistrati) sarebbe enorme. Ciò detto, replico brevemente a Malvino, che a proposito dell’articolo qui sotto postato mi obietta sostanzialmente di avere fatto una distinzione tra curiositas e curiositas: edificante l’una, indecente l’altra.

L’obiezione, fin qui, non è degna di particolare nota, perché suppongo – anzi: so per certo che Malvino, come me e come tutti, è curioso di questo e non di quello, e distingue benissimo quel che vale la pena sapere da quel che non vale la pena sapere, sicché si autoconfuta da solo.

Ma poi Malvino aggiunge: "Si pone la necessità di un’autorità (se non morale, culturale; se non culturale, politica) che scoraggi i sudditi dalla curiositas spiritualmente deleteria". E qui non mi è chiaro a quale punto del mio articolo si riferisca, visto che l’articolo non suggerisce l’urgenza di una svolta autoritaria nel paese. Capisco bene, però, perché usi la parola autorità, e perché poi la parola sudditi (che peraltro va esattamente nel verso opposto a quanto scrivo, nell’ultima parte dell’articolo), ma non capisco a quale punto del mio articolo si riferisca per giustificarne passabilmente l’uso.
A mio avviso, c’è sotto (ma non troppo sotto) una bella, e sofistica, quaternio terminorum, perché il termine viene preso nell’accezione larga – per cui è un’autorità (in senso morale, e spirituale) anche l’amico di cui si seguono i consigli, o il docente che invita a vedere un film piuttosto che un altro, o lo stesso Malvino che di libri me ne ha consigliati e regalati in passato (e spero in futuro) -, ma è un’autorità anche il pubblico ufficiale che impone il rispetto di un divieto di legge. E scambiando o sovrapponendo i due termini, l’obiezione di Malvino fila che è una bellezza.

Che Malvino non si preoccupi di sottilizzare troppo, nonostante le note, a me pare peraltro evidente da ciò: che avanza dubbi su quel che è opinione mia e su quel che è opinione di Tommaso, e non posso credere che non abbia saputo distinguere. Sarebbe bastato fare attenzione al ‘per fortuna’, posto fra parentesi (e anche senza quello, si capiva benissimo);
che trascura di considerare l’unico passaggio che dedico all’aspetto non dico legale, ma di legittimità costituzionale della faccenda (del quale naturalmente si può discutere, ma non è una discussione di quest’aspetto il post di Malvino, ed è comunque sorprendente che un liberale come lui sorvoli così velocemente sul tema delle garanzie);
che, soprattutto, trascura di considerare tutta la coda dell’articolo, che è poi la sua vera ratio (anche se Malvino sospetta, bontà sua, che sia altra). E cioè, se dovessi dirla persino nel più diretto dei modi: che non c’è motivo di supporre che la classe politica democristiana che governava il paese trenta, quaranta, o cinquant’anni fa fosse moralmente migliore di quella attuale, e tuttavia il motivo principale per cui veniva combattuta non era di ordine morale, ma politico (non importa ora quanto fondato, il motivo). Il che peraltro, aggiungo en passant, non obbligava a condividerne o ad apprezzarne la moralità.

Infine, sul tema delle garanzie. Al gentile commentatore malviniano che si chiede se io ponga sullo stesso piano le telefonate tra amici che si fanno i fatti loro, e le telefonate tra Berlusconi e Saccà, pur dovendo fare qualche precisazione, vado al sodo e scelgo il lato a lui più indigesto della faccenda e rispondo (da liberale, credevo) di sì. C’è un piano sul quale stanno sia le une che le altre, ed è per esempio il rispetto delle persone che funzionari pubblici non sono, e che sono sputtanate comunque dalle telefonate. Lui pensa evidentemente che il diritto dell’opinione pubblica di sapere cosa dice in privato il Presidente del Consiglio giustifichi lo sputtanamento di chiunque, io no. Per fare un esempio: nell’esercizio delle mie funzioni di docente, sono, a quanto pare, un pubblico funzionario. Bene, trovo che sarebbe veramente preoccupante se per questo gli studenti, venuti in possesso del contenuto di mie telefonate private in cui sparo giudizi su questo e su quello (e magari rivelo pure questioni di corna tra colleghi, che stuzzicano sempre la curiositas), trovo veramente preoccupante, dicevo, se le potessero mettere liberamente sul giornalino dell’università, o sul Corriere della sera.
E a tal proposito, preferisco infine che lui pensi che l’opinione che io ho di lui sia quella che emerge da queste righe, e non quella che mi potrebbe scappare al telefono con Malvino. (Si scherza, eh).
p.s. Lo rassicuro, infine, su un punto secondario: il mio gioudizio politico su Mastella è lo stesso, e non ha avuto bisogno delle ultime vicende per formarsi, né quelle vicende lo hanno mutato.

Cento porte, cento strade

Se viveste in un castello che ha cento porte, e sapeste che dietro tutte quelle porte può esserci un nemico mortale, vi impegnereste a sbarrare la prima porta, anche se non aveste, sul momento, idea di come sbarrare le altre novantanove? Fate però che sbarrare la prima delle 100 porte non significhi dedicare ogni grammo della vostra esistenza all’impresa, e che io non vi stia cadendo di rinchiudervi in uno spazio angusto e inospitale, ma al contrario di renderlo il più possibile ospitale, e il meno possibile esposto all’irruzione della morte.

Però forse avete ancora dei dubbi. Forse voi pensereste che comunque non ne vale la pena. Ma avreste nulla in contrario se altri, che vivono nei loro castelli, provvedessero a sbarrare la loro porta: è così riprovevole?
No, non lo è. Ma può apparire vano, dal momento che la morte può sorprendervi da ognuna delle altre 99 porte. Il che è vero. Ma è vano come vana è, a cospetto della morte, ogni altra impresa umana. E bisogna sapere che quando si usa quest’argomento per trovare insensata l’impresa di chiudere almeno una porta, si usa un argomento che rende insensata, in genere, ogni impresa umana che non sia una meditazione sulla morte. (In realtà, è vana pure quella meditazione, e per gli stessi motivi. E qui c’è il lato politico della faccenda, perché non sono gli stessi, gli uomini che, nella considerazione della universale vanità dell’esistenza, meditano sulla morte, e gli uomini che invece meditano sulla vita – ma questa è un’altra storia).

Ciò detto e meditato, la porta è il tumore al seno, e le altre 99 porte sono gli altri tumori, e le altre infinite disgrazie e malattie che possono sorprenderci nel corso della nostra vita, senza che l’avere sbarrato la possibilità (percentualmente, a quanto leggo, bassa) di una contrazione della malattia per eredità genetica grazie alla selezione preimpianto impedisca al nuovo nato di ammalarsi e morire di chissà cosa.

Ma la selezione preimpianto non è senza costi, si obietta: si sopprimono embrioni. Il che, allo stato, è vero, ma significa che il punto è sempre lì, cosa mai sia un embrione. Solo che porte e castello stanno in quest’articolo di Marina Corradi, che in premessa mette da parte la domanda sull’embrione, nel tentativo di proporre argomenti che a suo dire sconsiglierebbero la selezione preimpianto per l’insensatezza della cosa. Il che, come s’è visto, non è, se non a prezzo di rendere insensata ogni cosa, compreso scrivere articoli sull’argomento.

(C’è un altro modo di considerare insensato l’atteggiamento dei genitori inglesi che hanno seguito la strada criticata dalla Corradi, a cui l’articolista accenna, ed è quello di ricondurre l’intera faccenda ad una sorta di fissazione un po’ paranoica: ho sconfitto quel timore, ho sconfitto il tumore. Ma non v’è ragione di supporre che i genitori inglesi non sappiano che hanno solo ridotto le possibilità che il loro figlio o la loro figlia contragga quel tumore. E se io fossi di fronte a cento strade, ognuna delle quali contenesse potenziali pericoli ma una più delle altre, credo proprio che, senza pensare di avere evitato ogni pericolo, e senza sentirmi paranoico, eviterei senz’altro la strada che mi risulta essere la più pericolosa).