Ieri è uscito su Il Mattino il pezzo che metto, con ritardo, ui sotto, a proposito delle due ragazzine rom annegate vicino Napoli.
Chissà cosa avrà pensato il mare, quando ha sollevato tra le onde due bambine rom, di 12 e 13 anni, sbattendole contro gli scogli e restituendole esanimi a riva. Due bambine che forse non sapevano nuotare, ma nelle cui vene pulsava forte il desiderio di vivere, la spensieratezza di un’età che esplode in una giornata di sole sulla spiaggia di Torregaveta, lungo il litorale flegreo, il desiderio di abbracciare le acque, di rincorrersi sulla battigia, di tuffarsi nella schiuma del mare agitato dal maestrale. E il mare crudele le ha ghermite; indifferente alla gioia del loro mattino, le ha travolte, annegate, uccise.
Poi le ha uccise anche l’agghiacciante indifferenza degli uomini. Le ha uccise lo sguardo noncurante dei bagnanti che sono rimasti imperturbabili sulla spiaggia per tre, lunghe ore, accanto ai due corpicini poggiati a riva, coperti solo da due teli da mare. Le ha uccise il volto impassibile degli uomini che sono rimasti seduti sotto i loro ombrelloni, oppure immobili a fumare una sigaretta o a fare le parole crociate, quando, dopo tre lunghe ore, sono finalmente arrivate le bare. Sono arrivate le bare in spiaggia, e c’è chi è rimasto in costume a prendere il sole, chi ha pensato bene che, dopotutto, ora poteva alzarsi e fare di nuovo qualche passo sul bagnasciuga, senza correre il rischio di passare troppo vicino ai due piccoli cadaveri.
Qualcuno ha prestato soccorso, qualcuno ha chiamato il 118 e ha provato a salvare le due bambine. Ma quando sono morte, cos’altro si poteva fare? Hanno prestato un paio di asciugamani, le hanno accostate l’una all’altra lasciando scoperti solo i piccoli piedini, e non essendovi null’altro da fare hanno ripreso a spalmarsi l’abbronzante, celando egregiamente l’imbarazzato fastidio di non poter ridere ad alta voce, o magari giocare a pallone sull’arenile.
Così sono gli uomini. Non sono come Aleša, l’ultimo dei fratelli Karamazov, al cui pianto sulla tomba del piccolo Iljùšečka, Dostoevskij affida la chiusura del suo romanzo più famoso, dopo mille pagine spese ad indagare le radici del male e della sofferenza inutile, ingiusta, inesplicabile. All’amichetto Kolja, che lo affronta gridando, e chiedendogli se davvero risorgeremo un giorno, Alesa risponde “mezzo ridente e mezzo estatico” che sì, davvero risorgeremo un giorno. Può darsi che sia così, oppure no; può darsi soprattutto che ci voglia lo slancio del mistico Alesa per trovare la forza di sorridere al gruppo di bambini in lacrime di cui il giovane Karamazov si circonda ai funerali di Iljùšečka, ma intanto bisognerebbe cominciare a trovare almeno la forza di piangere dinanzi a due bambine morte sul litorale, la decenza di indossare una maglietta, il rispetto e l’umanità per mettere per una volta da parte i giochi, le carte, i panini. Anche solo per maledire il mare, e persino Dio stesso, pur di non restare incuranti ed estranei alla morte di due bambine.
C’è una teoria dei sentimenti morali con la quale s’è provato a spiegare tutto questo. L’ha scritta nel ‘700 un filosofo ed economista, Adam Smith. Il quale faceva questo esempio: se apprendessimo che un improvviso terremoto ha causato la morte di milioni di persone e inghiottito il grande impero cinese, esprimeremmo con ardore la nostra sofferenza per l’enorme sventura, ragioneremmo dolenti sulla precarietà della vita umana e piangeremmo sulla vanità degli sforzi dell’uomo; dopo di che, però, torneremmo ai nostri affari e al nostro divertimento, al riposo o allo svago “con lo stesso agio e tranquillità di prima”. Se invece apprendessimo una sera, con indefettibile certezza, che al mattino seguente bisognerà che ci taglino un dito, non riusciremmo a chiudere occhio l’intera notte. La perdita di un nostro dito ci tocca più della morte di miliardi di persone nei territori dell’Estremo Oriente.
Può darsi che questa sia la natura umana, e che non ci sia nulla da fare. Ma cosa bisogna pensare, quando questa verità si fa valere con intollerabile evidenza non a distanza di migliaia di chilometri, ma sulla stessa spiaggia, a fianco del nostro stesso ombrellone, a due passi dal secchiello e dalla paletta dei nostri figli?
E domani, chissà, qualche nave della disperazione lascerà ancora, nel nostro mare, al largo dei nostri spensierati pedalò, il corpo di qualche immigrato in cerca di una vita disperatamente migliore.
enfasi a secchiate e citazioni pseudodotte tirate per le orecchie. complimenti, essere soddisfatti di un pezzo così goffamente dilettantistico tanto da riproporlo in rete non è cosa da tutti.
Ogni tanto è bello sapere che ci sei
A me è successo di andare al mare e vedere una persona annegare (non era un rom): abbiamo chiamato i soccorsi, ma non c’è stato nulla da fare.
Non me ne sono andato, non so se mi sarei mostrato più sensibile andandomene: mi sono informato di cosa succedeva, mi sono disperato, ho pregato. Non mi ricordo se mi sono messo una maglietta, credo di no, ma non mi è venuto in mente: ero al mare, e quello era l’abbigliamento che consideravo normale. Poi sono andato a sedermi sotto l’ombrellone, perché era inutile accalcarsi tutti lì intorno (e sinceramente avvicinarmi troppo mi faceva impressione) e volevo chiamare a casa per raccontare cos’era successo. Certo, stavo prendendo il sole: io stavo al sole e quindi automaticamente lo prendevo, non è che dovessi agire attivamente per prenderlo.
Non ero indifferente, ma forse anch’io ho mostrato indifferenza: francamente in quel momento non m’interessava granché cosa mostravo.
Pensi che mi sarei dovuto comportare diversamente? Come? Non è una domanda retorica, è una domanda fatta per avere una risposta.
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