Archivi del mese: settembre 2008

Tra Forrest Gump e Pinocchio

Il cinico è uno che la sa lunga, uno a cui non la dai a bere. Puoi raccontargli con trasporto della volta in cui ti innamorasti: non una briciola della tua passione lo contagerà. Puoi provare a trasmettergli il tuo entusiasmo per un libro o una canzone: non riuscirai a toccarlo. Lui non crede alla bontà del cuore umano o alla spontaneità dei sentimenti. Ostenta sfiducia, mostra diffidenza: nulla per lui vale veramente la pena. Il cinico è spesso un disilluso, ma non potendo ammetterlo dirà di essere uno che non si è mai illuso. Perciò può beffarsi delle opinioni altrui: sempre troppo ingenue, ai suoi occhi, troppo banali e scontate. Lui è intelligente abbastanza per avere un dubbio in più su ogni cosa, e privare di ogni valore la propria e l’altrui prospettiva.
Anche lui, naturalmente, ha i suoi problemi: non credendo più a nulla, ha perduto ogni motivazione all’azione. Gli rimane solo di mettere la sua spregiudicata abilità al servizio del potere, non essendovi più alcuna verità da servire.
Ora, se il cinico fosse soltanto un tipo psicologico, non ci sarebbe da preoccuparsi che per lui. Ma a quanto pare la ‘distanza cinica’ è invece una posizione diffusa nelle società moderne avanzate: gli si presta il nome di nichilismo e lo si promuove a tratto caratteristico dello spirito europeo da un buon secolo a questa parte. Qualcosa che gli europei si vedono rimproverati perlomeno ogni quattro anni, quando riparte la corsa alla Casa Bianca, e tra i candidati compare sempre un uomo che di cinico non ha proprio nulla: non un’alzata di spalle, non un sorriso maligno, non una smorfia beffarda. Quest’anno sia i democratici che i repubblicani possono tra l’altro vantare dosi supplementari del mix di ingenuità e idealismo che gli americani mostrano da sempre di preferire, e a cospetto della quale gli europei fanno sempre la figura di quelli troppo disincantati, troppo désabusés per credere veramente di poter disegnare il futuro e tracciare una politica. Barack Obama mette nei suoi discorsi un caldo spirito profetico, mentre Mc Cain si lascia volentieri cucire addosso gli abiti del "maverick" della politica americana, di quello fuori dal branco che va avanti di testa sua e non si arrende mai. Nel dibattito dell’altra sera, l’afflato religioso dell’uno e la proverbiale determinazione dell’altro si sono in verità stemperati nei toni trattenuti di un confronto un po’ triste, a dimostrazione del fatto che anche il candidato più fiducioso e visionario ha comunque bisogno che nel mondo reale le cose vadano nel verso giusto, per poterle prendere da quel verso, e raccontare la sua buona novella.
Di un racconto, però, si tratta. Occorre naturalmente del cinismo per dirlo, ma per aderire completamente ad essi ci vuole tutta l’ingenua predisposizione di un Forrest Gump, il personaggio di quel film di Zemeckis in cui uno straordinario Tom Hanks non manca di attraversare nella più totale inconsapevolezza tutti i momenti decisivi della storia del mondo. E che con altrettanta incoscienza riesce a divenire persino una guida spirituale, un guru o un santone, quando per un buon numero di anni, mesi e giorni attraversa di corsa lo sterminato paese americano, senza nessuna apparente ragione.
Beata ingenuità, si direbbe, che fa andare lontano. Posto però che sia davvero beata l’idiozia di Forrest Gump. E che sia una fortuna non possedere neanche un granello di furbizia, e un po’ di sana diffidenza. Forrest è davvero – come è stato scritto – il soggetto puro dell’ideologia, quello che la fa funzionare senza intralci. E lo è proprio in virtù dell’assoluta mancanza di motivazioni ideologiche: quel che ci vuole nell’epoca della presunta fine delle ideologie. L’assenza di motivazione funziona proprio come la motivazione cieca e fideistica che gli europei non hanno più. Che si vada avanti senza un motivo, come Forrest, o che si vada avanti perché dopo tutto ci sarà un motivo, come i militanti di una volta, è esattamente la stessa cosa, la stessa adesione acritica da cui il cinismo, per buona ventura, mette ormai al riparo gli europei.
Uno che corre, d’altro canto, c’è anche dalle nostre parti. Uno che non sta un attimo fermo, mette le cose in subbuglio e se la dà a gambe: è Pinocchio. Ecco: tra la politica americana e quella italiana passa tutta la differenza che c’è fra la corsa ingenua e ordinata di Forrest Gump e quella scaltra e disordinata di Pinocchio. Cinica, anche: nel senso che però questa parola ebbe per il primo cinico, quel Diogene di Sinope, cane senza padroni, che fu tanto libero nei confronti dei costumi del suo tempo quanto lo è Pinocchio nel libro di Collodi. Il quale peraltro aveva un serio motivo per non lasciargli troppo corda, e farlo scappare da tutte le parti, tra mille monellerie, senza mai condurlo verso una meta definitiva: la sete e la fame, il bisogno di qualche denaro, il desiderio di prendersi quelle piccole libertà che la miseria aveva negato a Geppetto. Dopo tutto, Collodi era socialista, e Zemeckis, a quel che pare, no.

Girolamo De Michele getta via Heidegger più di un mese fa e io pazientemente lo raccolgo

"Ogni volta che il suo pensiero tocca qualche punto essenziale, Heidegger se ne esce ingarbugliando il linguaggio", così dice Girolamo De Michele (Liberazione 14 agosto). Io mi sono sempre chiesto se vi siano e quali siano le condizioni per la chiarezza, in filosofia, e cosa dovrebbe fare un filosofo quando venissero meno tali condizioni (oppure non possono e non debbono venire mai meno? e perché?). Non vorrei però ingarbugliarmi: si può essere banalmente d’accordo che la chiarezza suppone che ciò che è detto e il modo in cui lo si dice si possono ben tenere distinti, in modo che, quando non fosse chiaro come si son dette le cose, si possano dirle altrimenti e più chiaramente. Ma se un filosofo pensa che ciò che è detto e il modo in cui lo si dice non si possono tenere ben distinti?
De Michele scrive che Heidegger fa strame della sintassi e della filologia. Ma non mi sembra che ben filosofare debba supporre a priori il rispetto della sintassi e della filologia. Può magari essere auspicabile, si può adottare il prudente precetto di non fare strame sine necessitate, ma non si può dire che si comincia a filosofare solo dopo che sintassi e filologia (o qualunque altra cosa) abbiano ben stabilito le regole da rispettare.
De Michele porta un solo esempio di questo uso irresponsabile del linguaggio: "il niente nientifica". Si domanda cosa mai vorrà dire. Sostiene che Heidegger parlava dinanzi ad interlocutori a cui un’espressione del genere non poteva voler dir nulla. Può darsi. Io però ben conosco persone per cui quell’asserzione significa di sicuro qualcosa: sono persone mediamente intelligenti, non naziste, e prive di ammirazione acritica verso Heidegger (tra queste, peraltro, mi ci metto anch’io).
Non è poi vero che Heidegger liquidi il linguaggio quotidiano come chiacchiera insignificante. O meglio: non è vero del linguaggio quotidiano in quanto quotidiano (e in quanto linguaggio). Una buona parte del lavoro filosofico di Heidegger sull’eredità greca è consistita nel riattivare i significati ordinari delle parole di contro al loro uso metafisico platonizzante. Lo faceva facendo strame della filologia, probabilmente, ma in ogni caso questo comporta che il giudizio di de Michele sia perlomeno da circoscrivere.
De Michele dice però che Essere e Tempo è un gran libro. Meno male. Chi scrive un gran libro di filosofia per me è un gran filosofo, ma forse mi sbaglio. Però, dopo il riconoscimento di De Michele, segue la critica: Heidegger non ha portato a termine il libro per la mancanza di un linguaggio adeguato all’Essere. A parte il fatto che non si tratta di adeguatezza, ma pretendere di ridolizzare Heidegger per una simile affermazione è imbarazzante, se almeno Essere e Tempo deve rimanere un gran libro.
Salto un po’ di ironie facili che De Michele spande a piene mani, e vengo alla citazione del verso del poeta. Il poeta è Hölderlin, ma per De Michele si tratta di Rilke: non faccio delle facili ironie.
Poi De Michele cita la nota frase di Heidegger, "ormai solo un dio ci può salvare", e fa dell’ironia sul singolare: un dio? Perché: ce ne sono molti? E poi domanda: "Ma un filosofo che si affida a un dio non sta tradendo dal proprio sapere?". Ora, non so bene cosa significhi ‘tradire dal proprio sapere’, ma so che tra le domande poste da Heidegger v’è anche quella in cui si chiede ‘come dio entra in filosofia?’ Se De Michele se la fa presente, comprende da solo che non ha senso parlare di tradimento (sia detto senza addurre la testimonianza di tutti i filosofi che a un dio han fatto giocare ruoli ben più ingombranti di quanto non abbia fatto Heidegger).

Ma il capo d’accusa riguarda la responsabilità nell’uso delle parole, il rendere conto delle proprie asserzioni. De Michele non è il solo a trovare irresponsabile chiunque si sottragga a questo esercizio del logon didonai. Eppure dovrebbe essere chiaro che il filosofo il quale ritenesse che il ‘render conto’ è forse solo un certo regime di discorso, ed un certo modo di essere fedele alla cosa del pensiero (a quel che si tratta di pensare); il filosofo che volesse dare conto dei limiti del dare conto, il filosofo che volesse fare la genealogia del dare conto, il filosofo che volesse mostrare come questo esercizio del dare conto non basti a se stesso, e abbia bisogno per esempio, sin dal tempo in cui Platone l’ha inventato, del soccorso di un’intuizione la quale, De Michele ne converrà, è sempre una gran comodità, beh: questo potrebbe pure grandemente errare, ma non è necessariamente un imbecille o un nazista o un ciarlatano. D’altronde, De Michele è un ottimo studioso di Benjamin, e mi domando quante affermazioni di Benjamin stiano dentro al modo di render conto delle proprie asserzioni che costituisce oggi lo standard scientifico comunemente accettato. (Un’opera che consista solo di citazioni, il sogno di Benjamin, come diavolo fa a dar conto delle citazioni medesime?).

(E sia chiaro: io non sono un heideggeriano).

Politicamente scorrettissimo

Sul multiculturalismo: "Quando capisco se ho buone relazioni con un membro di un altro gruppo etnico? Quando si rompono le barriere. Certo non quando tratto l’altro con rispetto, ma quando iniziamo a raccontarci storielle sporche" (S. Zizek).

Contro la differenziazione estetica

Io non la penso esattamente come Davide Rondoni, per il quale un film può fare male. Io penso che un film, come un libro o un quadro, deve far male (e anche bene, però). Far male (o bene) significa: se è un buon film, non se ne sta quieto nel recinto delle cose carine. Il che non significa che, siccome il recinto estetico non funziona, bisogna metter su un qualche altro genere di recinto, per esempio giuridico. E vietare.
(Ciò detto, né il film né il libro di Dan Brown sono un buon film o un buon libro, almeno a parer mio)
(Ciò detto due, non sto incitando alla violenza, non sto approvando tentativi di assassinio e non sto nemmeno augurandomi la caccia addosso a qualcuno, sia chiaro)

Kulturkampf

Il fatto che "postmoderno" venga nella pubblicistica corrente fatto significare qualcosa come "relativismo soggettivista"  è, per il postmoderno, una ben triste sconfitta.

Dubbi e slogan

Ma se sulla vita non si vota, come diavolo si potrà fare una legge sul fine vita?

Belle le categorie. (Tutte, fino all'ultima?)

 ANALITICI E PRAGMATISTI  Michele Di Francesco Aldo Giorgio Gargani Pier Aldo Rovatti
  Carlo Sini
SEMIOLOGI E SEMIOTICI Umberto Eco Diego Marconi Mario Perniola Silvano Petrosino ESISTENZIALISTI CRISTIANI E POST Giovanni Ferretti Salvatore Natoli Pietro Prini Gianni Vattimo EPISTEMOLOGI E METODOLOGI Evandro Agazzi Dario Antiseri Giulio Giorello Paolo Rossi METAFISICI E TEORETICI Carlo Arata Massimo Donà Michele Lenoci Emanuele Severino STORICI, ETERNISTI E ASTORICI Enrico Berti Alessandro Ghisalberti Giulio d’Onofrio Giovanni Reale PERSONALISTI E ALTEROLOGI Luigi Alici Vittorio Possenti Paola Ricci Sindoni Armando Rigobello TECNOLOGI ED ETICOPOLITICI Roberto Esposito Adriano Fabris Salvatore Veca Carmelo Vigna ETICOGIURIDICI E TRASCENDENTALI Francesco Botturi Francesco D’Agostino Vittorio Mathieu Virgilio Melchiorre TRAGICISTI ED ESTETOLOGI Remo Bodei Sergio Givone Giuseppe Riconda Stefano Zecchi ESCATOLOGISTI E TEOLOGI Massimo Cacciari Piero Coda Bruno Forte Vincenzo Vitiello APOCALITTICI E APOFATICI Giorgio Agamben Vito Mancuso Giacomo Marramao Manlio Sgalambro SENTIMENTALISTI E FENOMENOLOGI Angela Ales Bello Laura Boella Roberta De Monticelli Roberto Mancini COPISTI E TUTTOLOGI  Ermanno Bencivenga  Luciano De Crescenzo Maurizio Ferraris Umberto Galimberti

(su Avvenire di domenica 21 settembre. C’è qualche errore redazionale qua e là, però è divertente)

Pulci

C’è sempre una prima volta. Prima volta al Festivalfilosofia. Io sono qui in una veste alquanto insolita (e non parlo della cravatta). Ho sentito solo Roberta De Monticelli e Isabelle Stengers, stamane Didi-Huberman e al pomeriggio si vedrà. Ho mangiato ottimamente da Oreste, che a Modena ci sono ormai solo la famiglia Fini e la Famiglia Cantoni, ristoratori autoctoni. I Cantoni stanno dal ’32, si chiamava Impero; poi è caduto il fascismo, è caduta una bomba e nel ’44 si sono spostati e han cambiato nome. Modena è tranquilla e lenta. La cosa più bella è la gente che passeggia con il programma sotto braccio. La Sala dei Cardinali del Collegio San Carlo è tanto severa quanto chiusa, e si capisce come la filosofia non si possa farsi dentro, ma soltanto fuori. Però le domande del pubblico finora cadono tutte sul versante edificante-consolatorio, oppure pare a me così, e si tratta semplicemente del fatto, socialmente indispensabile, che bisogna pur parlare non essendo esperti di nulla, ché altrimenti il linguaggio stesso deperisce un po’. Ci si fa le pulci, insomma.
Post scritto solo per non rassegnarsi alla definitiva consunzione di questo blog.

Epitaffio

Nature and Nature’s laws lay hid in night:
God said, let Newton be! and all was light

(A. Pope)

Uccellacci ed uccellini

Enrico: – Papà, come si muore? -. (senza nulla sapere di uccellacci)

Comuicazione di servizio

Il cellulare ha deciso di prendersi almeno un paio di giorni di vacanza, lontano da me. Sicché, se mi chiamate, almeno fino a venerdì non mi trovate (trovate il cellulare, oppure qualcun altro lo trova). In ogni caso, il compter resta con me e quindi via mail non ci sono problemi

La lezione della storia

Nel discorso che Giorgio Napolitano ha pronunciato ieri, in occasione del 65esimo anniversario della difesa di Roma e dell’armistizio, spiccava una formula, la stessa che il Presidente aveva impiegato già in gennaio, parlando dinanzi al Parlamento riunito in seduta comune per il sessantesimo della Costituzione italiana: quella di patriottismo costituzionale. «Non c’è terreno comune migliore – aveva detto allora – di quello di un autentico, profondo, operante patriottismo costituzionale. È, questa, la nuova, moderna forma di patriottismo nella quale far vivere il patto che ci lega: il nostro patto di unità nazionale nella libertà e nella democrazia». I toni e gli accenti di ieri sono dunque gli stessi che il Presidente impiega da tempo: dall’inizio del suo settennato. In perfetta continuità, peraltro, con quello del suo predecessore Ciampi, nei cui discorsi il tema della patria e della nazione si è saldato per la prima volta con grande vigore a quello della Costituzione e della Repubblica.

Non vi poteva dunque essere nel linguaggio presidenziale alcuno spirito polemico, nessuna replica diretta o risentita alle parole con cui il ministro La Russa aveva ricordato gli «altri», quelli che combatterono nelle fila della Repubblica di Salò, «credendo nella difesa della patria». Nessuna polemica, ma un diverso significato del concetto di patria: quello sì. Quello è bene non dimenticarlo. Basta, d’altronde, tornare ancora a quel terribile 1943, quando, in uno dei momenti più tristi della storia nazionale, il filosofo Benedetto Croce veniva spiegando a un’Italia in ginocchio la differenza fra il sano patriottismo e il torbido nazionalismo, e scriveva: è la stessa differenza che corre fra «la gentilezza dell’amore umano per un’umana creatura» e «la bestiale libidine o la morbosa lussuria o l’egoistico capriccio». Parole desuete, forse ingenue, ma chiare: non si tratta della stessa cosa. Proprio no. E non può bastare al ministro infilare nel proprio discorso un relativistico avverbio, «soggettivamente», per scusare gli «altri militari in divisa» e tributare stesso ed eguale rispetto ai due eserciti. Come si dice? Di buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno, e se il giudizio storico e politico si dovesse regolare solo su di esse, allora il problema non sarebbe più quello, oggi tanto di moda, di riscrivere i manuali di storia, per la buona ragione che semplicemente non si potrebbe più scrivere una storia che è una (e in ogni caso: riscrivere la storia non è detto serva a ben governare). Forse è colpa dell’onnipresente linguaggio dei valori, per il quale pare debba passare oggi qualunque considerazione di ciò che è bene e di ciò che è giusto: poiché l’amor di patria è un valore, conta l’essere stati «soggettivamente» animati da quel valore, non che per esso si sia indossata la camicia nera di Salò o si sia stati al contrario deportati in Germania per avere rifiutato di indossarla, come ha ricordato Napolitano. Se l’esempio non basta si considerino queste parole: «Da lungo tempo ho adottato l’imperativo di Kant come norma. Ho vissuto la mia vita in conformità con questo imperativo». Sono belle parole, e l’imperativo di Kant è un bell’imperativo (un gran bel valore, direbbe qualcuno): è la versione laicizzata della massima evangelica che chiede di non fare ad altri quel che non si vuole che sia fatto a noi. Quelle parole sono però del criminale nazista Adolf Eichmann. Il quale poteva pensare «soggettivamente» quel che voleva, e ritenere di agire in conformità a qualunque valore gli paresse: non resta meno un criminale nazista. E dunque: il ministro pensi pure che «dal loro punto di vista» anche i repubblichini difesero l’onore nazionale; di fatto essi, senza essere affatto degli Eichmann, fraintesero tuttavia gravemente l’onore nazionale, e forse anche il loro stesso onore, a differenza di quelli che finirono in Germania. Non è un fatto trascurabile. Né lo è il fatto che il loro punto di vista non è il punto di vista da cui è nata la Repubblica italiana. Mettere in valore il punto di vista costituzionale e repubblicano nelle commemorazioni della storia patria significa appunto depurare il concetto di patria da quel che ha di torbido: di morboso o di egoistico, per dirla con Croce. Il patriottismo costituzionale, così come in Europa è stato pensato dopo Auschwitz, serve a questo. A filtrare l’amor di patria attraverso i principi della libertà e della democrazia affermati nella Costituzione. La critica che di solito viene mossa a questa concezione è che l’amore per principi astratti e universali fissati in un testo giuridico scalda i cuori molto meno dell’amore per il proprio Paese, le proprie tradizioni linguistiche e culturali, i propri tratti nazionali. È una critica sensata e fondata: lo dimostra la difficoltà che incontrano i tentativi di incoraggiare un patriottismo costituzionale di stampo europeo. Le parole del ministro La Russa, tuttavia, stanno lì a ricordarci, per un non troppo singolare contrappasso, che la Costituzione non è solo un astratto catalogo di valori o un vuoto pezzo di carta, ma un pezzo carico di storia. Storia patria.

(Il Mattino)

Alla lontana

La prendo alla lontana. Nel settembre del 1966, sui Quaderni piacentini, Sebastiano Timpanaro propose questo bell’esempietto: “La posizione del marxista odierno, a volte, sembra simile a quella di chi, standosene al primo piano di una casa, dicesse rivolto all’inquilino del secondo piano: «Lei crede di essere autonomo, di reggersi da solo? Si sbaglia! Il Suo si regge solo perché poggia sul mio, e se crolla il mio, crolla anche il Suo»; e viceversa, all’inquilino del pianterreno: «Cosa pretende Lei? di sorreggere, di condizionare me? Povero illuso! Il pianterreno esiste solo in quanto è il pianterreno del primo piano. Anzi, a rigore, il vero pianterreno è il primo piano, e il Suo appartamento è solo una specie di cantina, a cui non si può riconoscere vera esistenza»”.

se volete sapere come è andata a finire in quel palazzo, leggete pure L’inquilino democratico e lo sfratto dei valori, su Left Wing. (E leggete pure questo e questo, per prepararvi all’autunno)

Con soli 7 giorni di ritardo (e poi basta)

Trono e altare su Il Mattino:

Robert Filmer, chi era costui? Nessuno di cui ci si debba ricordare. A meno che non si faccia per mestiere gli storici del pensiero politico. O non si sia ascoltato il ministro del Tesoro Giulio Tremonti affermare al Meeting di Cl che dopo il fallimento delle ideologie novecentesche non resta che rispolverare le vecchie atout con cui si giocava una volta la partita delle idee: Dio, Patria e Famiglia.
Viene naturale domandarsi, di fronte ad un simile fuoco di valori e principi, acceso non si sa se con più candore o più presunzione, se sia soltanto il carattere repubblicano della nostra costituzione ad impedire che la formulazione prenda il nome politicamente più esplicito, e la proposta si formuli nei termini dell’antica alleanza fra Trono e Altare.
L’ironia investe solo l’uso politico di questi termini. Non c’è infatti nulla di male nel rivendicare il profilo pubblico delle confessioni religiose (al plurale) e nell’augurarsi che facciano da lievito ideale e civile della società. Lo stesso dicasi per il riconoscimento del ruolo cruciale, anzi costituzionale, della famiglia, sebbene anche in questo caso bisognerebbe stare al fatto e riconoscere senza paura la pluralità di formazioni familiari in cui ormai vivono gli italiani: basta guardare le famiglie che si raccolgono sotto gli ombrelloni, in quest’ultimo scampolo di ferie estive, per convincersene.
Quanto alla Patria, se è comprensibile l’imbarazzo da cui la parola è circondata nel paese che ha inventato il fascismo, è invero comprensibile anche che la portata internazionale delle sfide a cui il paese è sottoposto susciti, per contraccolpo, il bisogno di un forte sentimento nazionale in cui la nostra collettività possa più saldamente riconoscersi. Poiché però è stato lo stesso Tremonti a denunciare più volte la dimensione europea delle risposte da dare a tali sfide, c’è da chiedersi piuttosto come pensi di costruire un patriottismo di stampo europeo. L’unica figura che al momento potrebbe fornirgli una base concreta è infatti quella, forgiata dalle rivoluzioni, del cittadino. L’idea europea di cittadinanza non discende infatti dalla trinità che il ministro Tremonti ha inteso mettere sul tavolo: è comparsa anzi per rovesciare quel tavolo, al quale sedevano non cittadini ma sudditi.
E così torniamo a Filmer. Torniamo cioè all’autore di un’opera che il liberalismo moderno ha fortunatamente mandato in soffitta, ma che per un ceto tempo ha tenuto banco. Si tratta del Patriarcha, che sin dal titolo metteva in chiaro quel che Dio, Patria e Famiglia hanno in comune: un principio di autorità, fondato sulla figura paterna. Dinanzi alla quale stanno figli, che al padre debbono obbedienza; creature, che al Padre Eterno debbono obbedienza; e appunto sudditi che al Re (e poi al Padre della Patria) debbono, pure loro, obbedienza. A noi oggi suona familiare l’idea rivoluzionaria che gli uomini sono invece tutti uguali, e che un’uguale libertà spetti loro nello spazio politico, ma al tempo di Locke e Filmer non era familiare affatto: bisognava discuterne. L’idea vincente di Locke era peraltro abbastanza controintuitiva: immaginare che all’origine della società politica vi fosse un patto tra uguali contraddiceva quel che sembra valere per diritto naturale, per il quale il padre ha autorità (possibilmente: assoluta) sui figli, così come ce l’ha il Creatore sulla creatura: non si capiva perciò perché i rapporti politici dovessero fare eccezione, e i sudditi non avere un sovrano.
Locke ebbe la meglio, ma così grande e insoluto è il problema che a lungo la modernità ha coltivato l’idea che, non potendosi fare a meno della sovranità politica, l’unico modo di accordarla con l’idea di uguaglianza era quella di trasferirla direttamente al popolo. Qualcosa però è andato storto, e ne son venute fuori le ideologie totalitarie del ventesimo secolo. Ora Tremonti vuole tornare nella casa del padre. Nulla di male, se non fosse per il fatto che la storia, dopo tutto, va avanti. Se Dio, Patria e Famiglia non funzionano più come principi di ordine, è anzitutto perché il pluralismo delle società democratiche contemporanee ci costringe a declinarli al plurale, e la formula «Dei, Patrie e modelli diversi di Famiglia» suona francamente ridicola. Così come è imprudente non porre nessuna domanda circa le basi materiali delle società organizzate intorno a quei principi, e pensare che Dio, Patria e Famiglia possano signoreggiare allo stesso modo una società contadina patriarcale e una società industriale avanzata.

Il che non vuol dire (purtroppo) che nuove forme di autoritarismo non possano prendere forma. Per chi crede nel valore delle differenze sarebbe una iattura. Avesse però ragione Tremonti, toccherebbe rileggere Filmer invece di Locke. Poichè però nulla nella storia si ripete uguale rimane comunque il rischio che neppure Dio, Patria e Famiglia, tornati sul trono e sull’altare, somiglino ai loro primi modelli. Tradizionalisti di tutto il mondo, sappiatelo.

Giovani razionalisti crescono

– Papà, quando dico: "sì o no", vuol dire che sono le uniche parole che puoi dire. Quando dico: "papà possiamo dormire nel lettone sì o no?", ho messo il "boh"? No. E allora non è che rispondi: "boh". Aspetto una risposta da te! -.
– Ma se non lo so? -.
– Ma tutti i genitori hanno il permesso dentro, quindi lo possono dire: "sì o no".
– Allora è no -.

– Papà, ho capito perché dici no. Ogni cosa ha un motivo: tu dici no non perché vuoi dire no ma perché volevi dire boh e io non te l’ho fatto dire. E’ vero? Allora adesso lo puoi dire -.
– Allora posso dire: "boh"? -.
– Sì, papà -.
– Boh -.

– Mamma, possiamo dormire nel lettone? -.