Per lo stesso principio esposto nel precedente post, metto qui l’articolo sui litri di latte apparso su Il Mattino il 14 agosto scorso:
In un moderno supermercato, uno a fianco dell’altro, in attesa di finire nel carrello della spesa, stanno in fila, ben disposti e ben composti, due ordinari litri di latte. Stessa marca, stessa confezione, stessa impacchettatura o quasi. Tutti e due sono freschi, pastorizzati e omogeneizzati. Alti uguale, grandi uguale. Il primo però vale di più (e costa di più), il secondo di meno. Non è questione di quantità né di qualità del latte. È che il primo sfoggia in alto, ben visibile all’occhio del cliente, il contrassegno di una speciale predilezione: un punto, uno di quei punti che servono a completare una qualunque delle molte possibili raccolte escogitate dagli uffici marketing delle aziende, mentre il secondo litro ne è mestamente privo. Per il resto, sono identici. E nonostante i tempi di crisi, la stagnazione economica, la quarta settimana e le preoccupazioni per l’autunno, finisce che trenta, quaranta centesimi in più vengono spesi pur di accaparrarsi il sospirato punto. Il litro di latte punto-dotato si sistema trionfante nel carrello e se ne va, sotto lo sguardo derelitto dell’altro litro che ne è sprovvisto, e che ancora una volta avrà i suoi complicati problemi di teodicea da risolvere: se vi è una giustizia a questo mondo, se è giusto essere scartati pur essendo in tutto uguali a chi invece è preferito dalla sorte e baciato dalla fortuna. «Ho amato Giacobbe, ho odiato Esaù», sta scritto. Ed è dura, per Esaù, farsene una ragione.
Anche perché il calcolo non è dalla parte dell’acquirente. Leibniz amava ripetere: Deus calculat, fit mundus, ma non è affatto vero che le scelte di Dio o degli uomini siano governate dal calcolo razionale. I consumatori sono dispostissimi a spendere qualcosa in più per incollare insulsi quadratini di cartone sui loro album, pur avendo la competenza necessaria per far di conto e accertare, con la modica fatica di qualche moltiplicazione, quanto gli è venuta a costare la tazza di ceramica, la borsa a tracolla, il telo da mare o la batteria di pentole che dopo il milionesimo punto e un tempo medio di attesa di qualche secolo hanno infine ricevuto in regalo. Che si chiamino poi regali o premi quei beni il cui prezzo è di gran lunga inferiore a quanto effettivamente sborsato per tutti i punti collezionati, non è solo una perfidia nell’uso della lingua, ma è anche un perfetto rovesciamento del suo senso che conferma lo spessore teologico del problema. E l’antropologo del futuro, il quale studierà che genere di bizzarra umanità fosse quella che si lasciava irresistibilmente attrarre, all’alba del terzo millennio, da una simile varietà di oggetti regalo, farà probabilmente terribili scoperte sulle nostre assai arcaiche società.
L’aveva già detto, d’altronde, Karl Marx, che pure di raccolte punti non risulta ne abbia fatte: nei processi di valorizzazione della merce si nascondono insospettate trappole teologiche. E in qualche trappola del genere finisce effettivamente l’incauto automobilista che pur di raggiungere la stazione di servizio dove incamerare gli agognati punti si fa chilometri su chilometri e spende in benzina molto più di quanto risparmia nella raccolta; o il genitore che, pur essendo contrario alle merendine, avendo ceduto una volta, non smette di comprare confezioni su confezioni e di ingrassare così oltre ogni decenza i propri figli, per allineare nel raccoglitore l’ennesimo coupon.
Dal lato dell’azienda si chiama «fidelizzazione», e viene perseguita con ogni mezzo. Raccolte punti, prove d’acquisto, lotterie, schede magnetiche, formulari e tessere e ogni genere di fantasmagorico allegato vengono impiegati allo scopo. Anche in questo caso, la parola è rivelatrice: d’ora in poi, e per tutto il tempo in cui durerà la raccolta, fino al giorno della finale estrazione premi o della eucaristica distribuzione dei regali, vi saranno non consumatori ma «fedeli» disposti a migrare di negozio in negozio pur di compiacere l’azienda. E chi non ha mai partecipato al rito collettivo e vagamente fantozziano della consegna, presso la municipale Centrale del Latte o l’Azienda del Gas, non può sapere quanto la processione somigli ad un pellegrinaggio (e come sotto la religiosità ufficiale covi sempre un resto di paganesimo naturale, presso i tanti dèi locali che ricevono così i loro culti): in mezzo ai molti che dopo ore di attesa torneranno a casa parzialmente delusi per l’osso assai stentato ricevuto, vi sarà chi ha molto creduto, e presentatosi con una pila di album debitamente compilati con decine di migliaia di talloncini riceverà in cambio il regalo più ambito, la crociera nel mese dei morti o il microonde di penultima generazione.
La voce circolerà nel quartiere e raggiungerà le cappelle votive, ossia i punti vendita, per alimentare nuove, improbabili crestomazie. E quei miscredenti, che si rifiuteranno con ostinazione di seguire le liturgie del consumo dei tempi moderni, saranno additati e messi al bando come, una volta, gli atei: spergiuri, insensati e non degni di fede.