Che cos’è il partito democratico? Bisogna attraversare non solo il mare di persone che riempiva sabato il Circo Massimo, ma anche il mare di parole che il segretario ha impiegato, in un discorso retoricamente assai riuscito, per arrivare al punto. Al Circo Massimo, Veltroni ha rivendicato la maniera perfettamente coerente con la quale il partito, "svincolato finalmente dai vecchi ideologismi", si è tenuto in linea con il discorso del Lingotto dello scorso anno: "questo siamo: un partito libero – ha detto –, che non teme né di apparire moderato agli occhi di alcuni, né di sembrare estremista agli occhi di altri, perché null’altro è che un grande partito riformista". Il passaggio non è stata salutato dal più vigoroso degli applausi, ma naturalmente la sua forza si misurerà nelle prossime settimane e mesi, nel modo in cui "l’opposizione di popolo" del "partito riformista di massa" saprà rendere il proprio profilo politico e programmatico chiaramente riconoscibile agli occhi del Paese.
Intanto, però, c’è qualcosa che non va: qualunque partito, anche il più in salute, ha un problema, se appare in maniera sensibilmente diversa da com’è. E soprattutto se gli accade di apparire in modi diametralmente opposti a settori diversi dell’opinione pubblica. Certo, Veltroni ha voluto dire che la tempra del partito democratico è dimostrata dal fatto che non si fa condizionare dal modo in cui agli uni e agli altri appare la sua azione, dal momento che il suo consenso è abbastanza robusto da consentirgli di non giocare solamente di rimessa. Il PD non è per fortuna come quel tizio che, nella canzone di Jannacci, andrebbe volentieri al proprio funerale, per vedere di nascosto l’effetto che fa. E infatti la manifestazione di ieri era l’opposto di un funerale: era una festa, aveva i colori e i toni di una festa, di un rito collettivo che, come s’è visto, non ha affatto esaurito la sua funzione in democrazia.
E però, se agli altri si appare diversi da come si è, se l’attività e il programma di un partito viene letto dagli uni in termini opposti al modo in cui viene letta dagli altri, un problema c’è, effettivamente: se non altro perché un terzo dei voti sarà pure il massimo mai conseguito da un partito riformista in Italia, ma ne occorrono molti altri per governare questo paese.
Quello che nelle parole del segretario del PD vuole essere un punto di forza può così rivelarsi, e di fatto si è già rivelato fin dalla campagna elettorale, una debolezza. E la ragione di questa difficoltà nel mettere a fuoco la fisionomia del partito democratico, sta forse nelle stesse parole scelte per definirne l’identità.
Come è possibile infatti fornire una chiave di interpretazione unitaria del proprio agire politico se si rivendica come valore fondante del partito lo svincolamento dalle vecchie ideologie: non solo in quanto vecchie, ma proprio in quanto ideologie?
Certo, nel linguaggio politico e nel senso comune, la parola ‘ideologia’ riesce indifendibile. La si sacrifichi, dunque, però con un minimo di consapevolezza del fatto che il discorso, ormai più che ventennale, sulla fine delle ideologie, è parte integrante dell’ideologia che lo stesso Veltroni ha criticato, affermando che dietro la crisi finanziaria di queste settimane si riconosce il ritratto della destra – come dire: non crediate che non vi siano precise connotazioni politiche e ideologiche nel discorso pubblico nazionale e internazionale, che ha accompagnato la globalizzazione.
Ma passi per la parola: qualcosa, però, deve pur prenderne il posto. Qualcosa che, al di là della stella polare di Veltroni, "rappresentata dagli interessi generali del paese", consenta di capire da che parte stare quando si tratta di scegliere: e cioè chi interpreta e come si interpretano quegli interessi. Qualcosa, insomma, che dia nuovi strumenti per orientarsi in un mondo che si diverte a smentire tutte le previsioni sulla fine della politica e l’autogoverno dell’economia. Qualcosa, infine, un po’ più incisivo di quella coloritura, che rimane il tratto distintivo della retorica politica di Veltroni.
La quale, a ben vedere, ha due elementi ‘ideologici’ irrinunciabili: il registro morale in cui voltare la contrapposizione politica, e l’appello all’eroismo dell’uomo comune. Elementi forse efficaci quando si tratta di parlare ai propri militanti e simpatizzanti, un po’ meno quando si tratta di ampliare il proprio consenso e di cercare di apparire per quel che davvero si è, sul terreno propriamente politico e non solo su quello morale.
Che poi questo sia il tempo in cui un tratto politico-ideologico preciso e distinto non guasta affatto, a destra, fateci caso, lo si è capito benissimo.
L’ha capito Tremonti, l’ha capito Bossi, e l’ha capito pure Berlusconi. Tra i leader del centrodestra, quello che meno se l’è sentita di dare forza ideologica alle proprie parole, ma che anzi si è speso per sancire anche lui il superamento, lo svincolamento, la fine delle ideologie, è stato, comprensibilmente, Gianfranco Fini. Che infatti si è ritagliato egregiamente un ruolo istituzionale, e non è più un leader politico.