Archivi del mese: ottobre 2008

Ogni anno il 2 novembre

"Il bisogno è quindi timorato, umile, religioso, mentre il godimento è superbo, irriverente, frivolo, dimentico di Dio".
(Ci sono però complicazioni. Si può godere di aver bisogno, oltre che aver bisogno di godere; si può godere di godere, e aver bisogno di aver bisogno)

Un professore a contratto all'università (e di ruolo nei licei)

"Stamattina compro l’Unità. E siccome Palazzo Giusso (all’Orientale) è occupato, faccio lezione lo stesso, mi sono procurato un’aula a Via Duomo; sono con gli studenti, e naturalmente domani sciopero, ma le occupazioni rompono il sasiccio. La Preside (del mio Liceo) ieri ha detto, mi è stato riferito, che sono alcuni professori a fomentare gli scioperi degli alunni (è da una settimana che non entrano): è questa la pochezza della "classe dirigente": il pensiero format vale soprattutto per loro. Io agli studenti ho solo detto: se occupate vi levo la confidenza, e poi sì li abbiamo fomentati un po’: domani devono assolutamente entrare, per andare in quel posto ai colleghi che non scioperano. In questi giorni se ne sono stati in piazza S. Antonio a fare pubbliche assemblee di piazza, con un microfono con la corrente allacciata per gentile concessione del Bar Commerciale: commentavano il testo della riforma, leggevano i giornali, tutto in pubblico, a viva voce. Un’esperienza formativa, secondo me: qualcosa di meglio delle stanche e rituali occupazioni degli anni novanta. Stamattina è previsto un corteo per il corso, ma men’ acque e vient’. Vento di destra!"

Cartoonia

Ieri è stata una giornata interessante.
Nella puntata di Dragon Ball, protagonista era Goan. Goan teme che Angela possa rivelare a Videl il suo segreto (o viceversa, non ricordo). Sta di fatto che la propalazione di un segreto c’è, da parte di Angela (o di Videl, non ricordo) ma per fortuna di Goan non è quello che lui temeva: Angela rivela a Videl (o viceversa, non ricordo) che sulle mutande che indossa Goan è disegnato un orsacchiotto.
(E poi dice che non aveva ragione Veltroni al Circo Massimo, quando se l’è presa con la destra che vince grazie alle televisioni e al vuoto di valori che creano).
Nella successiva puntata dei pirati di cappello di paglia, c’era un’idea filosoficamente notevole, degna degli Scritti teologici giovanili di Hegel. Sull’isola di nonsocosa, il tribunale chiamato a giudicare è composto solo da condannati a morte. Il punto è se in costoro il sentimento di giustizia potrà manifestarsi puramente, non avendo essi più nulla da fare con il mondo che giudicano, o se invece ne approfitteranno per dare libero sfogo alla propria cattiveria, per la stessa ragione. Gli sceneggiatori del cartone non lasciano dubbi al riguardo.
(Che poi è anche un modo originale per porre il tema della separazione delle carriere).

Oltre le ideologie

Che cos’è il partito democratico? Bisogna attraversare non solo il mare di persone che riempiva sabato il Circo Massimo, ma anche il mare di parole che il segretario ha impiegato, in un discorso retoricamente assai riuscito, per arrivare al punto. Al Circo Massimo, Veltroni ha rivendicato la maniera perfettamente coerente con la quale il partito, "svincolato finalmente dai vecchi ideologismi", si è tenuto in linea con il discorso del Lingotto dello scorso anno: "questo siamo: un partito libero – ha detto –, che non teme né di apparire moderato agli occhi di alcuni, né di sembrare estremista agli occhi di altri, perché null’altro è che un grande partito riformista". Il passaggio non è stata salutato dal più vigoroso degli applausi, ma naturalmente la sua forza si misurerà nelle prossime settimane e mesi, nel modo in cui "l’opposizione di popolo" del "partito riformista di massa" saprà rendere il proprio profilo politico e programmatico chiaramente riconoscibile agli occhi del Paese.
Intanto, però, c’è qualcosa che non va: qualunque partito, anche il più in salute, ha un problema, se appare in maniera sensibilmente diversa da com’è. E soprattutto se gli accade di apparire in modi diametralmente opposti a settori diversi dell’opinione pubblica. Certo, Veltroni ha voluto dire che la tempra del partito democratico è dimostrata dal fatto che non si fa condizionare dal modo in cui agli uni e agli altri appare la sua azione, dal momento che il suo consenso è abbastanza robusto da consentirgli di non giocare solamente di rimessa. Il PD non è per fortuna come quel tizio che, nella canzone di Jannacci, andrebbe volentieri al proprio funerale, per vedere di nascosto l’effetto che fa. E infatti la manifestazione di ieri era l’opposto di un funerale: era una festa, aveva i colori e i toni di una festa, di un rito collettivo che, come s’è visto, non ha affatto esaurito la sua funzione in democrazia.
E però, se agli altri si appare diversi da come si è, se l’attività e il programma di un partito viene letto dagli uni in termini opposti al modo in cui viene letta dagli altri, un problema c’è, effettivamente: se non altro perché un terzo dei voti sarà pure il massimo mai conseguito da un partito riformista in Italia, ma ne occorrono molti altri per governare questo paese.
Quello che nelle parole del segretario del PD vuole essere un punto di forza può così rivelarsi, e di fatto si è già rivelato fin dalla campagna elettorale, una debolezza. E la ragione di questa difficoltà nel mettere a fuoco la fisionomia del partito democratico, sta forse nelle stesse parole scelte per definirne l’identità.
Come è possibile infatti fornire una chiave di interpretazione unitaria del proprio agire politico se si rivendica come valore fondante del partito lo svincolamento dalle vecchie ideologie: non solo in quanto vecchie, ma proprio in quanto ideologie?
Certo, nel linguaggio politico e nel senso comune, la parola ‘ideologia’ riesce indifendibile. La si sacrifichi, dunque, però con un minimo di consapevolezza del fatto che il discorso, ormai più che ventennale, sulla fine delle ideologie, è parte integrante dell’ideologia che lo stesso Veltroni ha criticato, affermando che dietro la crisi finanziaria di queste settimane si riconosce il ritratto della destra – come dire: non crediate che non vi siano precise connotazioni politiche e ideologiche nel discorso pubblico nazionale e internazionale, che ha accompagnato la globalizzazione.
Ma passi per la parola: qualcosa, però, deve pur prenderne il posto. Qualcosa che, al di là della stella polare di Veltroni, "rappresentata dagli interessi generali del paese", consenta di capire da che parte stare quando si tratta di scegliere: e cioè chi interpreta e come si interpretano quegli interessi. Qualcosa, insomma, che dia nuovi strumenti per orientarsi in un mondo che si diverte a smentire tutte le previsioni sulla fine della politica e l’autogoverno dell’economia. Qualcosa, infine, un po’ più incisivo di quella coloritura, che rimane il tratto distintivo della retorica politica di Veltroni.
La quale, a ben vedere, ha due elementi ‘ideologici’ irrinunciabili: il registro morale in cui voltare la contrapposizione politica, e l’appello all’eroismo dell’uomo comune. Elementi forse efficaci quando si tratta di parlare ai propri militanti e simpatizzanti, un po’ meno quando si tratta di ampliare il proprio consenso e di cercare di apparire per quel che davvero si è, sul terreno propriamente politico e non solo su quello morale.
Che poi questo sia il tempo in cui un tratto politico-ideologico preciso e distinto non guasta affatto, a destra, fateci caso, lo si è capito benissimo.
L’ha capito Tremonti, l’ha capito Bossi, e l’ha capito pure Berlusconi. Tra i leader del centrodestra, quello che meno se l’è sentita di dare forza ideologica alle proprie parole, ma che anzi si è speso per sancire anche lui il superamento, lo svincolamento, la fine delle ideologie, è stato, comprensibilmente, Gianfranco Fini. Che infatti si è ritagliato egregiamente un ruolo istituzionale, e non è più un leader politico.

Ombre che aleggiano

Guarda un po’ chi aleggia sul Sinodo dei vescovi: Martin Heidegger. E siccome il nazismo aleggiava su Heidegger…:

"Colpisce che nell’ambito culturale ad esso [al Sinodo] collegato continui ad aleggiare il nome di un pensatore che, sulla base della propria filosofia, ha potuto apprezzare il regime di Hitler come un «evento» storico del «destino dell’Essere»".

Ora, Heidegger può essere stato più nazista di Hitler, e la sua influenza sui Padri sinodali può essere considerata la più deleteria possibile, però dire di una cosa che appartiene al destino dell’Essere non significa necessariamente fargli un complimento (alla cosa, o al destino dell’Essere). Volendo gettare l’ombra di Heidegger sul Sinodo, si poteva far di meglio.

Alcibiade e il nuovismo

«Sono uno studente e credo nel potere della cultura», recita un cartello dietro il quale si nasconde un ragazzo lentigginoso che pare uscito da un telefilm americano. Poi spiega: «Alcibiade prendeva in giro Socrate accusandolo di insegnare sempre le vecchie idee. Socrate rispose che si scusava con Alcibiade di non essere un uomo colto come lui, che “di idee nuove ne aveva ogni giorno”. Non è la presunta novità delle idee a contare, ma la loro qualità e il loro valore».

Comunque la pensiate sulla manifestazione del PD di ieri, il miglior attacco resta questo, di Fabrizio Rondolino, su la Stampa, tanto più che nel seguito Rondolino si occupa proprio di quel che di nuovo c’è nella "sinistra post-politica" del veltronismo.

(Però non mi è chiaro. "Sinistra post-politica" vuol dire, per Rondolino: non è che non ci sia più la sinistra, è che non c’è più la politica, sicché la sinistra sopravvive o può sopravvivere solo su un piano – per dir così – estetico?)

Pierre o dell'ambiguità

"Tutti ci sforziamo di pensarci come esseri che non pensano, ma che hanno il diritto di farlo" spiega Pierre Manent su Il Foglio, in occasione dei dieci anni della Fides et ratio. Bella lezione, anche se il pensiero sopra citato mi strappa un commento poco filosofico: "Ma pensa per te, mio caro Pierre" (che poi l’ambiguità ci sarebbe: non vorrei che per pensarsi come esseri che pensano, bisognasse rinunciare al relativo diritto).

P.S. Il titolo del post è una gentile concessione di H. Melville)

La forza delle parole

E se invece la letteratura c’entrasse qualcosa? Dopotutto, Saviano non ha pubblicato solo degli articoli, delle inchieste giornalistiche, dei pezzi di denuncia, ma ha scritto un libro, e qualunque idea si abbia della letteratura, dalla più frivola alla più impegnata, sarà difficile che si riesca a tenerne fuori il suo libro, Gomorra. E se Gomorra appartiene al campo letterario, così come ad esso appartengono i Versetti Satanici di Salman Rushdie o i romanzi di Orhan Pamuk, non bisognerà chiedersi come facciano le parole di un libro, come può lo statuto letterario di quelle parole rappresentare una minaccia per qualcuno? È una riflessione alla quale spesso e volentieri ci si sottrae. Comprensibilmente, del resto: il pericolo di vita, nel caso di Saviano, è così concreto e reale, che innanzi a qualunque discussione sulla forza delle parole viene la preoccupata solidarietà per la sua stessa esistenza. Che va espressa senza reticenze, senza tiepidezze, senza ipocrisie. Saviano però è uno scrittore, ed è in quanto scrittore, per il suo lavoro di scrittore, che è oggi nel mirino dei Casalesi. Sicché bisogna tornare a chiedersi come sia possibile che un libro possa avere tanta forza, e preoccupare i clan camorristici al punto da spingerli a progettare l’eliminazione fisica dello scrittore (perché, quanto al libro, come diceva Bulgakov, quello per fortuna non lo si può più eliminare). Quando, un paio di anni fa, a Saviano fu assegnata "una sorta di protezione" (così pudicamente scrissero in un primo momento i giornali), Umberto Eco ebbe a dichiarare che il caso di Saviano era diverso da quello di Rushdie: che non servivano gli appelli di scrittori e intellettuali, ma solo l’impegno delle forze dell’ordine. Era forse un modo non proprio felicissimo per incitare le autorità di pubblica sicurezza a fare la loro parte, ma dava la sgradevole sensazione che tutto quello che si era sollevato intorno a Roberto Saviano non avesse molto a che fare con il mestiere dello scrittore e dell’intellettuale, e con la funzione della letteratura. Come se, appunto, l’attività letteraria, e l’attività artistica in generale, avessero a che fare solo con la bellezza, e non anche con la verità. E siccome Saviano è nel frattempo divenuto un "testimonial dell’anticamorra" (anche questo s’è letto sui giornali, quasi che dopo tutto si trattasse solo del clamore di un fenomeno mediatico), anche le normali funzioni critiche di giudizio sulla sua opera sarebbero da sospendere, per timore che un giudizio negativo possa essere considerato un vergognoso sabotaggio nella lotta alla camorra. La qual cosa è ridicola: forse non si può pretendere da nessuno, critico letterario o no che sia, di avere il coraggio di Roberto Saviano, ma di avere il coraggio di discutere di letteratura con lui e con il suo libro, questo però lo si può chiedere a chiunque non abbia dello spazio letterario un’idea men che salottiera. Dopo tutto, quelli che han ragionato così poveramente, non hanno ragionato molto diversamente dagli amici che si trovano costretti, dicono loro, a sopportare il peso della notorietà letteraria di Saviano: si vedono accollata una responsabilità non gradita e non voluta.
Poiché in fondo si tratta solo di questo: della responsabilità nell’uso delle parole, nelle quali ci si impegna se a quelle parole si crede, che si tratti di rendere una testimonianza in tribunale, di dare un consiglio a un amico, di stendere un giudizio critico o di scrivere un libro. Le parole hanno infatti un peso e una forza, e la letteratura, quando è tale, è il luogo in cui questa forza si intensifica al massimo: non certo il luogo in cui essa venga meno. Magari quella forza si manifesta a distanza di secoli, oppure si manifesta in contesti diversi da quelli civili e pubblici nei quali ha fatto la sua salutare irruzione la parola di Saviano, ma si manifesta. Per non lasciare mai indifferenti, se appunto è vera letteratura e non mero divertissement.
Questa è poi la potenza e la verità dell’arte. Di tutta l’arte. Chiunque abbia visto una tela di Marc Rothko, uno dei più grandi artisti del ‘900, saprà di cosa stiamo parlando. Chiamato a dipingere per un lussuoso ristorante all’interno del Seagram Building di New York qualcuna delle sue tele, Rothko lasciò perdere le questioni squisitamente estetiche, e così confesso le sue intenzioni per lettera: “Ho accettato questo incarico come una sfida, armato di intenzioni del tutto malevole. Spero tanto di riuscire a dipingere qualcosa che guasti l’appetito d’ogni figlio di puttana che entrerà in quella sala per mangiare”.Ecco, che anche la letteratura riesca a guastare l’appetito di qualche figlio di, e gli impedisca di mangiare tranquillamente, è quello che Saviano non ha mai smesso di proporsi, senza rinunciare di un millimetro alla propria idea di letteratura e alla propria esperienza di scrittore. Ed è quello che dobbiamo augurarci riesca ancora a fare.

A Silvia

Ho letto il post di Ffdes sulla sua alunna Silvia, cieca dalla nascita. Siccome Ffdes mi ha chiesto cosa ne penso: penso ogni bene possibile del professore di filosofia di Silvia, dal quale mi farei raccontare tutto l’anno, lezione dopo lezione. Avrei molte cose da chiedergli, più che pensieri da formulare. Direi che, filosoficamente parlando, è una fortuna avere in classe una studentessa cieca dalla nascita, specie se in gamba. E se il Preside, il Consiglio d’Istituto e il Consiglio di Classe e Maria Stella Gelmini consentissero, manderei all’aria i programmi ministeriali e sfrutterei biecamente Silvia per ripensare la storia della filosofia insieme con lei.

Io domani

Da domani, sul Corriere della Sera, la storia della filosofia di Antiseri Reale.
Da eomani, e fino a gennaio, io il Corriere non lo compro neanche per sbaglio.

Basta la parola

Sto leggendo un libro, edito nel 2001 (pp. 384, euro 36,15), e vi ho trovato, ammirato, la parola "detergernelo" ("converrà detergernelo").

L'ultima lezione

"Possiamo noi fanatici ‘heideggeriani’ riscattare finalmente l’antimodernismo di Heidegger? Tutto o quasi quello che gli è stato rimproverato prende un colore diverso alla luce di quanto sta succedendo oggi a causa della globalizzazione e della omologazione imperialistica del pianeta".

Gianni Vattimo, ieri, nel giorno della sua ultima lezione. E sempre ieri, leggevo le prime pagine di una tesi di laurea su Vattimo (non eccezionale, in verità: la tesi, dico) in cui si spiegava quanto la lettura della modernità di Vattimo fosse diversa, perlomeno nei toni, da quella di Adorno-Horkheimer. Sembrerebbe che la distanza si sia attenuata di molto.
(Nota personale: sono felice che il rettore dell’Università di Torino abbia assistito al congedo di Vattimo)

Per un parere, chiederemo a Moggi

"Lo Stato non è giocatore, è arbitro. Per questo può anche scendere in campo, per aiutare pro-tempore un’azienda di credito in crisi. Ma non può alterare l’intero campionato"
Ora, è proprio dal punto di vista calcistico che a me questo passaggio di Veltroni fa problema.

Il mercato, o almeno alcune facce

il mercato– Giavazzi direbbe: "è il mercato!"
Io dico: rimettiamo tutto alla giustizia sportiva! –
(su un motivo di Daniele Luttazzi)

Nel girone della (s)fiducia

Via mail, il consulente finanziario mi rassicura: il mio portofoglio titoli sta benissimo com’è. È perfettamente equilibrato. Quei segni negativi che finora non avevo mai visti: – 42%, -24%, -67% non devono preoccuparmi. Chi investe in borsa sa, d’altra parte, che ci sono momenti di euforia e momenti di depressione: non bisogna esaltarsi durante i primi, non bisogna abbattersi durante i secondi. Ci vogliono calma e sangue freddo. Niente panico. In effetti anch’io lo so, che ci sono alti e bassi e ci vogliono nervi saldi per affrontarli, ma è la prima volta che mi accorgo che parole e concetti tratti dall’ambito della psicologia vengono così largamente impiegati nella descrizione di comportamenti economico-finanziari: euforia, depressione, equilibrio, panico e soprattutto, ad aleggiare tutt’intorno a me, la fiducia. È colpa mia, naturalmente: gli studiosi parlano già da tempo di quella cosa abbastanza impalpabile che è il capitale sociale, ossia l’insieme delle relazioni umane e sociali, formali e informali, che influenzano l’andamento dell’economia, e anche uno studente del primo anno sa che l’intero sistema finanziario è basato sulla fiducia, e che di rapporti fiduciari ha bisogno la società nel suo insieme. D’accordo. Tutto vero. Ma un conto è saperlo, un conto è rendersi conto che da qualche giorno la fiducia di cui si parla è anche la fiducia che qualcuno sta chiedendo a me perché io me ne stia tranquillo e non venda i miei titoli, e magari, approfittando dei forti ribassi, mi metta pure a comprare altre azioni. Fiducia che mi viene chiesta però proprio mentre apprendo che, per esempio, il sistema di valutazione degli strumenti finanziari adottato dalle società di rating (quelle che mettono o tolgono le famose triple A, da cui dipende anche la qualità e quindi il costo del mio investimento) è purtroppo, almeno in parte, inaffidabile. Cioè, per ricapitolare solo uno degli aspetti della faccenda: sembra che non meritino troppa fiducia le agenzie che suggeriscono chi debba meritare fiducia e quanta. E il guaio è che forse non è solo colpa della cattiveria degli uomini o dell’avidità degli speculatori: fosse così, sarebbe più facile perlomeno circoscrivere il problema, e, probabilmente, trovare la soluzione. Si tratta invece di qualcosa di più strutturale, che ha a che vedere con il tipo di società in cui viviamo. Non è un caso che ad essa sia stata affibbiata l’etichetta di società del rischio (e più di recente, per non lasciar spiragli, società “mondiale” del rischio), e non è solo perché sono genericamente molti i rischi e i pericoli a cui siamo oggi esposti. E’ invece per una ben strana caratteristica dei sistemi sociali avanzati: l’incalcolabilità del rischio, e non già per ignoranza, ma al contrario proprio a causa del sapere che abbiamo di esso. La cosa può essere banalmente spiegata così: se, prendendo coscienza dei rischi che corro, ritiro i miei soldi dal mercato borsistico, lungi dal cautelarmi, finisco con l’aumentare il parapiglia generale e così contribuisco a ingigantire il problema, ampliando il senso di sfiducia che circola oggi su piazza. E’ un po’ come dire: certe strategie di prevenzione del rischio possono rivelarsi essere stesse rischiose (ogni riferimento agli impacci dei governi europei di questi giorni è puramente voluto). E’ facile, d’altronde, capire perché: in un clima di fiducia, si può far affidamento su di essa, calcolarla, misurarla, valutarla – il che non fa che aumentarla. Ma in un clima di generale sfiducia, far conto su di essa e regolarsi di conseguenza non può che amplificarla.
E allora che si fa? Se i due circoli, quello della fiducia e quello della sfiducia, sono dotati di potenti circuiti di retroalimentazione, per cui, una volta innescati, si sviluppano e potenziano da sé, come si passa dall’uno all’altro? Ci vuole forse qualcosa come un bootstrap, un tirarsi per il tirante dei propri stivali, come faceva il barone di Münchausen per venire fuori dalla palude? O ci vuole qualcuno come il soldato di Aristotele che, nell’esercito in rotta, a un certo punto, senza sapere bene perché, ha la ventura di fermare la propria fuga così che poco a poco anche gli altri si arrestano con lui, e l’esercito può di nuovo riordinare le sue file?
Può darsi. Se però, in attesa che il soldato si materializzi, ci volessero anche delle buone ragioni, non saprei trovarne di meglio di quelle che una volta furono indicate da Robert Kennedy: non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow Jones, disse. Però questa è davvero una buona ragione solo a condizione che uno spirito nazionale, e meglio ancora uno spirito europeo vi sia, e si sia disposti a investire su di esso nonostante gli indici azionari. Se questo spirito c’è, è davvero il momento di tirarlo fuori.