Caro direttore,
provare a chiedere a una qualunque parte del ceto intellettuale di qualunque città del mondo – non, quindi, ai soli intellettuali napoletani, della Magna Grecia o del Sud d’Europa – come si immagina che debba essere svolta la funzione intellettuale per la quale si merita cotanto nome, non produrrà un ventaglio di risposte molto variegato. Non che il ‘900 non abbia proposto figure diverse di intellettuale, ma al momento sembra che sia credibile un solo, nobile ruolo: quello che impegna l’intellettuale a dire la verità, il che comporta almeno due cose: che si dica, e non si taccia, e che si dica la verità, e non invece la menzogna.
Nell’impietosa analisi che
Paolo Macry ha proposto giorni fa su queste colonne, il giudizio sulla cosiddetta intellighenzia di sinistra che negli ultimi quindici anni si sarebbe azzittita, accomodandosi acquiescente all’ombra del potere, cade senz’appello. Tradimento dei chierici, tradimento della funzione intellettuale, tradimento del ruolo di coscienza critica, tradimento della verità. Tanto poco è appellabile un simile giudizio, che ancor prima che la Fondazione Italianieuropei abbia preso una sola iniziativa in città, Macry non vi vede altro che la riproposizione della "vecchia cinghia di trasmissione tra partito e società, sia pure ridimensionata". Per evitare la filosofica notte in cui tutte le vacche sono nere, come giustamente ammonisce Galasso, sempre su questo giornale, sarebbe stata in realtà necessaria qualche distinzione in più. A cominciare dal fatto che non si tratta solo di un ridimensionamento o magari della sostituzione della cinghia, ma proprio di un’altra cosa, visto che la Fondazione Italianieuropei non è un partito, non recluta iscritti e se trasmette qualcosa non è certo una qualche ortodossia culturale di partito, che non si saprebbe bene come formulare e a chi propinare. Ma la distinzione più importante che mi piacerebbe venisse colta, e sulla quale intendo brevemente soffermarmi, cade tra il fatto che Macry denuncia nei termini di un insopportabile conformismo intellettuale dovuto alla prossimità del ceto intellettuale con l’esperienza di governo del centrosinistra campano, e il principio, assai più generale, che là dove i mondi della cultura e della politica si incontrano, l’incontro debba prendere necessariamente la forma intellettualmente mortificante della cinghia. È, infatti, solo in forza di un simile principio che, in mancanza di fatti (la Fondazione ha appena aperto i battenti) Macry può rendere il giudizio liquidatorio che ha così velocemente reso sul possibile ruolo di Italianieuropei in città. Ora, del fatto non discuto. Non perché non vi sia da discutere e non meriti discutere: la discussione è anzi in corso e molti dei contributi che il suo giornale sta raccogliendo contengono indicazioni e rilievi di cui occorre far tesoro, a cominciare dalle acute ed equilibrate osservazioni proposte da Biagio De Giovanni. Il quale parlava giustamente di una drammatica carenza di idee, di una perdita di funzione intellettuale che è anzitutto conseguenza dell’inaridirsi della capacità progettuale da parte di filoni di pensiero meridionalista un tempo assai generosi e oggi quasi del tutto esauriti. Proprio questa notazione mi consente però di tornare al principio, cioè al rapporto tra politica e cultura, e alla cinghia che per Macry sembra esserne la forma obbligata. Di questa vale molto più la pena discutere. Perché, infatti, mancano le idee? Se non la si vuol fare troppo facile, si può convenire che una tale mancanza non è conseguenza di una preoccupante assenza di inventiva delle ultime generazioni. Non è un problema naturale o individuale, ma è esso stesso un problema storico-politico, a cui quindi occorre far fronte anche (non solo, ma anche) con risorse, forze, spazi, organizzazione. Le si vuol chiamare cinghie? È un peccato, ma pazienza: c’è chi pensa che società, politica e cultura debbono trovare il modo di collegarsi, e chi pensa forse che non sia necessario, o che quando accade è solo questione di cinture, tracolle e corregge. In realtà, quel che anzitutto manca, sono proprio luoghi in cui valga davvero la pena coltivare idee. Luoghi in cui le idee non rimangano per aria, e in cui vi sia aria nuova e pulita per coltivarle. Luoghi come questo giornale, ad esempio, che di idee e di analisi ne fornisce tante e di ottima qualità, e luoghi, si spera, come la Fondazione, che altrove ha già dato prova, nei suoi dieci e più anni di vita, di tenere innanzitutto alla qualità delle sue proposte: non all’aria che tira, ma a quella che circola e mette in circolo le idee.
(Il Corriere del Mezzogiorno, giovedì 2 ottobre)