Via mail, il consulente finanziario mi rassicura: il mio portofoglio titoli sta benissimo com’è. È perfettamente equilibrato. Quei segni negativi che finora non avevo mai visti: – 42%, -24%, -67% non devono preoccuparmi. Chi investe in borsa sa, d’altra parte, che ci sono momenti di euforia e momenti di depressione: non bisogna esaltarsi durante i primi, non bisogna abbattersi durante i secondi. Ci vogliono calma e sangue freddo. Niente panico. In effetti anch’io lo so, che ci sono alti e bassi e ci vogliono nervi saldi per affrontarli, ma è la prima volta che mi accorgo che parole e concetti tratti dall’ambito della psicologia vengono così largamente impiegati nella descrizione di comportamenti economico-finanziari: euforia, depressione, equilibrio, panico e soprattutto, ad aleggiare tutt’intorno a me, la fiducia. È colpa mia, naturalmente: gli studiosi parlano già da tempo di quella cosa abbastanza impalpabile che è il capitale sociale, ossia l’insieme delle relazioni umane e sociali, formali e informali, che influenzano l’andamento dell’economia, e anche uno studente del primo anno sa che l’intero sistema finanziario è basato sulla fiducia, e che di rapporti fiduciari ha bisogno la società nel suo insieme. D’accordo. Tutto vero. Ma un conto è saperlo, un conto è rendersi conto che da qualche giorno la fiducia di cui si parla è anche la fiducia che qualcuno sta chiedendo a me perché io me ne stia tranquillo e non venda i miei titoli, e magari, approfittando dei forti ribassi, mi metta pure a comprare altre azioni. Fiducia che mi viene chiesta però proprio mentre apprendo che, per esempio, il sistema di valutazione degli strumenti finanziari adottato dalle società di rating (quelle che mettono o tolgono le famose triple A, da cui dipende anche la qualità e quindi il costo del mio investimento) è purtroppo, almeno in parte, inaffidabile. Cioè, per ricapitolare solo uno degli aspetti della faccenda: sembra che non meritino troppa fiducia le agenzie che suggeriscono chi debba meritare fiducia e quanta. E il guaio è che forse non è solo colpa della cattiveria degli uomini o dell’avidità degli speculatori: fosse così, sarebbe più facile perlomeno circoscrivere il problema, e, probabilmente, trovare la soluzione. Si tratta invece di qualcosa di più strutturale, che ha a che vedere con il tipo di società in cui viviamo. Non è un caso che ad essa sia stata affibbiata l’etichetta di società del rischio (e più di recente, per non lasciar spiragli, società “mondiale” del rischio), e non è solo perché sono genericamente molti i rischi e i pericoli a cui siamo oggi esposti. E’ invece per una ben strana caratteristica dei sistemi sociali avanzati: l’incalcolabilità del rischio, e non già per ignoranza, ma al contrario proprio a causa del sapere che abbiamo di esso. La cosa può essere banalmente spiegata così: se, prendendo coscienza dei rischi che corro, ritiro i miei soldi dal mercato borsistico, lungi dal cautelarmi, finisco con l’aumentare il parapiglia generale e così contribuisco a ingigantire il problema, ampliando il senso di sfiducia che circola oggi su piazza. E’ un po’ come dire: certe strategie di prevenzione del rischio possono rivelarsi essere stesse rischiose (ogni riferimento agli impacci dei governi europei di questi giorni è puramente voluto). E’ facile, d’altronde, capire perché: in un clima di fiducia, si può far affidamento su di essa, calcolarla, misurarla, valutarla – il che non fa che aumentarla. Ma in un clima di generale sfiducia, far conto su di essa e regolarsi di conseguenza non può che amplificarla.
E allora che si fa? Se i due circoli, quello della fiducia e quello della sfiducia, sono dotati di potenti circuiti di retroalimentazione, per cui, una volta innescati, si sviluppano e potenziano da sé, come si passa dall’uno all’altro? Ci vuole forse qualcosa come un bootstrap, un tirarsi per il tirante dei propri stivali, come faceva il barone di Münchausen per venire fuori dalla palude? O ci vuole qualcuno come il soldato di Aristotele che, nell’esercito in rotta, a un certo punto, senza sapere bene perché, ha la ventura di fermare la propria fuga così che poco a poco anche gli altri si arrestano con lui, e l’esercito può di nuovo riordinare le sue file?
Può darsi. Se però, in attesa che il soldato si materializzi, ci volessero anche delle buone ragioni, non saprei trovarne di meglio di quelle che una volta furono indicate da Robert Kennedy: non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow Jones, disse. Però questa è davvero una buona ragione solo a condizione che uno spirito nazionale, e meglio ancora uno spirito europeo vi sia, e si sia disposti a investire su di esso nonostante gli indici azionari. Se questo spirito c’è, è davvero il momento di tirarlo fuori.