Il Mattino ha un nuovo sito. Sul quotidiano di oggi, potete leggere l’articolo che metto qui, Chi grida al regime che non c’è. (Ma il titolo del post è perché non venga frainteso l’articolo, di cui il precedente post costituisce, ideologicamente parlando, un utile complemento):
C’è qualcosa di paradossale nel dibattito che periodicamente ricompare sui giornali, a proposito della natura antidemocratica, oppure autoritaria, con tratti sudamericani oppure putiniani, forse un po’ totalitaria e passabilmente fascista del regime che si sarebbe instaurato in Italia quest’anno, precisamente dal giorno dell’insediamento del governo Berlusconi, ed è il fatto stesso che se ne discuta. Se infatti anche una sola delle qualificazioni sopra menzionate fosse appropriata, il minimo che ci si dovrebbe aspettare è la pura e semplice cancellazione di un dibattito del genere: non vi sono infatti molti esempi storici di regimi non democratici di cui si possa discutere pubblicamente il carattere non democratico.
Poiché però paradossi e altri formalismi lasciano sempre l’impressione che il punto non sia davvero colto, proviamo a sostenere (per amore di discussione, per l’appunto) una delle due seguenti tesi: la prima, che il regime sarebbe in via di formazione, e che proprio perciò si può ancora ascoltare qualche voce critica, la quale deve tenere ben desta la coscienza democratica del paese, prima che si chiudano tutti gli spazi; la seconda, che i nuovi fascismi (autoritarismi, totalitarismi) possono ben convivere con espressioni pubbliche di dissenso, avendole però potute svuotare di effettiva incidenza e di reale capacità di controllo sull’esercizio effettivo del potere reale.
Ora, nessuna delle due tesi sembra fare al caso nostro (cioè dell’Italia). La prima contiene una drammatizzazione così intensa dell’attuale fase politica, da riuscire incompatibile con la quotidiana presenza nei talk show televisivi di coloro i quali convintamente la sostengono. In termini empirici, poi, bisognerebbe dimostrare che negli ultimi mesi sono stati chiusi giornali, tacitati oppositori scomodi, e promulgate leggi liberticide, o che s’è fatto comunque qualcosa di analogo. Il che, per fortuna, non è finora accaduto né pare che stia accadendo. Tutto ciò che di deprecabile può essere accaduto è stato deprecato da chi lo ha giudicato tale, né più né meno di quanto è accaduto in passato, a parti invertite (vale a dire: quando era Berlusconi a gridare ossessivamente al regime, ma appunto: anche lui a gridarlo per ogni dove).
La seconda tesi è intellettualmente più raffinata, ma probabilmente non meno problematica. Si dice: le società contemporanee diluiscono nel generale, indistinto ma enorme volume dell’informazione qualunque fermento critico, qualunque nota dissonante, qualunque voce contrastante, condannandola così di fatto all’irrilevanza. Non c’è bisogno di censurare: è sufficiente che il dissenso sia annacquato in un mare di consenso, perché non si riesca a disturbare il manovratore. E il governo ha oggi in mano tutti gli strumenti che gli occorrono per creare quel largo consenso passivo di cui ha bisogno, per consentire magari a profeti e grilli parlanti di levare inascoltati la loro voce, Ora però, a parte il fatto che di solito questa tesi è sposata proprio da chi si autoelegge, per l’occasione, profeta o grillo parlante, e a parte pure che se si nutre questa opinione del consenso bisognerà pure che si rinunci una buona volta alla democrazia, che a quel consenso deve, dopo tutto, la propria legittimità – a parte tutto ciò, questa tesi può cogliere un fenomeno reale solo a condizione di riferirsi a trasformazioni profonde della vita politica, che non si misurano in termini di mesi trascorsi dalle ultime elezioni, ma di anni o di decenni. Il che scagiona, se non altro, l’ultimo governo Berlusconi, il lodo Alfano e il Presidente Villari.
Di tutta questa faccenda non metterebbe peraltro conto di occuparsi, se essa dimostrasse solo un malanno passeggero dell’opposizione, in cerca di ragioni che ne rendano più credibile l’azione, e non invece una malattia più seria e più profonda. Malattia della quale la diagnosi in fondo è già stata formulata, trovandosi per esempio nella critica che il filosofo americano Richard Rorty, recentemente scomparso, rivolgeva a buona parte della sinistra europea. Ai suoi occhi, essa si era dimostrata sin troppo brava nella capacità di smascherare le ipoteche ideologiche che gravano sul vocabolario pubblico, fin troppo smaliziata nello sventare addirittura le trappole metafisiche in cui cade spesso il buon senso comune, fin troppo munita criticamente contro il ‘discorso del potere’, dal pensare solo al discorso, appunto, finendo così col trascurare le più prosaiche cause reali e materiali delle disuguaglianze economiche e sociali.
In maniera del tutto simile (e fatte le debite proporzioni), l’opposizione sembra oggi assai più determinata nel denunciare la fisionomia che starebbe assumendo la comunicazione pubblica, il mondo dei media e, alla fin fine, la Commissione di Vigilanza, che non a intercettare malcontenti e disagi veri, per rappresentare i quali rischia di presentarsi in ordine sparso molto più di quanto non accada sulle vicende della RAI.
Con l’aggravante che su queste ultime vicende è molto più difficile cogliere quel tratto epocale che riforniva di identità e di senso l’azione politica nei decenni scorsi, mentre tutto sembra lasciar intendere che è invece sul piano dei compiti che lo Stato deve nuovamente assumere nelle materie economiche, che si gioca oggi la credibilità della politica. E, per la sua parte, del nuovo, ancora nascente partito democratico.