Archivi del mese: dicembre 2008

Imprimere al divenire il carattere dell'essere

Io: – Mauro, tu vuoi diventare grande? -.
Mauro: – Dopo -.
Io: – Dopo vuoi diventare grande? -.
Mauro: – No, piccolo -.
Io: – Ma tu sei già piccolo. Cosa vuoi diventare? –
Mauro:  – Piccolo piccolo -.

(Mauro, credo al suo esordio sul blog)

Sguardo al futuro – Buon anno 2009

sguardo al futuro

Il completto pluto-ecc

"Di fatto sono quasi tutti ebrei gli operatori della finanza, compreso il Madoff e i capitalisti di cui sopra, e come è noto lo sono sempre stati anche quando le Borse e le Banche non esistevano, ed erano loro che prestavano soldi ad alto interesse ai poveri, piazzandosi con piccoli “banchetti” vicino ai mercati, mentre ai Re e Papi fornivano il denaro per le guerre e le conquiste in cambio di ipoteche su intere città. Gli Ebrei non amano  ricordarlo, ma uno dei motivi che ha contribuito alla formazione dell’immagine negativa che li ha accompagnati lungo lo scorrere della storia è stato proprio il loro arricchirsi attraverso il commercio di denaro. […]

Perché ci si trova oggi a dover precisare l’identità ebraica dei manipolatori della finanza mondiale? Perché esiste appunto una “visione del mondo” che li guida, un progetto di vita sul quale si fondano i dogmi che tutti noi, non ebrei, siamo stati obbligati a condividere dalla fine della seconda guerra mondiale"

Dalla allucinante penna di Ida magli, quel punto di vista pluto-giudeo-ecc. sulla crisi, che ci mancava.

Striscia positiva

E anche quest’anno, per il settimo anno consecutivo, a casa Adinolfi Babbo Natale ha superato la prova di realtà.

Buon Natale, buon Natale, e che sia quello buono

Posso chiedere una moratoria universale per gli auguri via mail? Non che io non mi appresti a farli, ma quelli che non sopporto sono quelli stereotipati. Chi li manda, chi li manda all’undisclosed recipient, è consapevole che non sono in nulla diversi dai bigliettini da visita che il medico di famiglia (o più probabilmente la sua segretaria) usa,  per ringraziare del panettone e delle bottiglie di spumante?

Tot capites, tot partiti

Lo so che ci sono cose molto più importanti di cui se avessi tempo mi piacerebbe parlare, ma per non lasciarvi senza un post anche oggi, perlomeno vi dò una notizia. Sappiatelo: Francesco Pionati, ex portavoce UDC, ha fondato l’Alleanza di Centro, di cui è il segretario nazionale.

(La notizia è vecchia di un mese, ma solo oggi Pionati mi è venuto sugli scudi, a Salerno. E poi, non voglio che di questi tempi passi inosservato un chiaro segnale di rinnovamento della politica)

L'abisso della decisione

Ho deciso di ascoltarmi tutti gli interventi alla direzione Nazionale del PD (non la relazione del Segretario: quella, semmai, dopo). Prima di farlo, scorro i nomi e penso: può darsi che ascoltando mi convinca che questa classe politica sia del tutto inadeguata. Ma se lo è, non mi pare proprio che lo sia per motivi generazionali o morali.

Scopro oggi che Marco Follini ha detto in Direzione che la questione generazionale non è il surrogato della questione morale, e soprattutto che la questione morale non è il surrogato della questione politica. E giuro che non avevo letto Cundari.

E più non dimandare

Enrico – Papà? –
Io: – Che c’è? –
Enrico – Lo sai che io da grande lavorerò in Calabria? –
Io – In Calabria? –
Enrico – Sì. Io e Umberto costruiremo palazzi vicino alla Calabria. Però Vincenzo no –
Io – Ma perché la Calabria? –
Enrico – Perché l’abbiamo deciso noi. A un certo punto noi abbiamo deciso di costruire una Calabria. Nessuno sa dove abbiamo nascosto la Calabria -.
Io – Ma chi ti ha detto che esiste la Calabria? -:
Enrico – I segreti tra amici non si dicono -.
Io (un po’ spazientito) – Ma perché proprio la Calabria? Si può sapere chi te l’ha nominata? -:
Enrico (dopo una pausa in ogni senso decisiva): – Dio -.

Contrordine compagni

Per motivi tecnici indipendenti dalla mia volontà (e suppongo da tutte le volontà coinvolte nella faccenda) la puntata di Europa Occidente prevista per stasera è stata rinviata. Ci scusiamo con gli spettatori, con l’Europa e con l’Occidente.

Blocchiamo i circuiti della paura

Sedetevi. Passatevi le mani sulla fronte e controllare la temperatura del vostro viso. Verificate che il respiro sia regolare, e che regolare sia anche il ritmo cardiaco. Appurate poi che i muscoli non siano troppo tesi. Se avete a disposizione (ma ne dubito) uno scanner cerebrale, potreste anche accertare come stiano le cose dalle parti dell’amigdala, la regione del cervello che si occupa per voi delle emozioni. E già che ci siete, misurate pure quanta dopamina sta rilasciando il vostro cervello. Mettete insieme tutte queste informazioni, e stabilite così se avete davvero paura oppure no.
In realtà ci sarebbe da capire anche se la vostra paura è un semplice spavento, o sta crescendo in vero e proprio terrore. Se si tratta di panico incontrollato, o invece di timore passeggero. Se vi afferra un’indistinta e sorda angoscia o se siete individui fobici, o addirittura paranoici.
Se però non avete un amico psicologo, se non conoscete nessun neurofisiologo e se lo psicanalista costa troppo, allora disponete di un sistema meno complicato per compiere tutti questi accertamenti: riflettete sul modo in cui i vostri comportamenti sono modificati dalle seguenti notizie:
la crisi finanziaria e i suoi pesanti riflessi sull’economia reale; la crisi del mercato dell’auto e in generale il calo della domanda; la piena del Tevere e il fatto che non la finisce più di piovere, gli scandali a go-go, i falsi e le contraffazioni in aumento sotto Natale, la Cina e gli stranieri che sono sempre troppi, l’emergenza ambientale, la pillola abortiva e gli incidenti stradali e la corruzione e la violenza e qualche profezia di Nostradamus (strano che nessuno lo abbia ancora rispolverato, a pensarci).
Si potrebbe continuare. Ma è meglio riconoscere subito che mettere insieme tutte queste cose è un facile espediente retorico. E che, d’altro canto, fare come se la crisi non ci fosse sarebbe quasi da irresponsabili. Solo lo stupido, infine, non ha mai paura, Concesso però tutto quel che è da concedere alla serietà del momento, alle difficoltà del Paese e magari anche al destino cinico e baro, bisognerà pur riflettere sul sempre più largo spazio che viene concesso alle emozioni nella vita pubblica del paese. È una riflessione che per la verità è già stata fatta, e riguarda il peso crescente che le cosiddette emozioni d’attesa (paura e speranza, soprattutto) hanno nelle società contemporanee. Le quali emozioni (o passioni) funzionano spesso come quegli specchi deformanti che si vedevano un tempo nelle fiere di paese: ingrandiscono ciò che è piccolo, e rimpiccioliscono quel che è grande. Forse, chi si affaccia in questi giorni sul Tevere e lo vede effettivamente ingrossarsi non sarà d’accordo: in ogni caso, bene fa la protezione civile a tenere il livello delle acque sotto controllo. Se però oltre a prendere tutte le opportune misure di precauzione, si dà ad esempio un’occhiata anche ai giornali degli anni scorsi, non si potrà non constatare, con grande sollievo, che dei temuti inverni troppo temperati e senza pioggia non c’è traccia, e che la siccità, prima in cima alle nostre paure metereologiche, è oggi l’ultima delle possibili preoccupazioni.
Il fatto è che anche la paura ha un contenuto sociale e, inevitabilmente, un uso politico. Da Darwin in poi, sappiamo in realtà che sulle nostre facce non si dipingono i colori della paura a piacer nostro. Il grande naturalista sosteneva che la paura, come le altre emozioni, non fosse che una sorta di azione istintiva tenuta a freno e riversata quindi nei segni del corpo (e anzitutto del volto), fattisi così espressivi. In esse sarebbe perciò contenuta una forma primitiva, naturale e universale di linguaggio, precedente le convenzioni e gli usi delle lingue storiche. Possiamo dire paura o "fear" a seconda della lingua che parliamo, ma non possiamo non spalancare la bocca e atterrire quando qualcosa di spaventevole ci si para innanzi. Il fatto è che però sono molto poche le cose spaventevoli di per se stesse, e molte invece le cose che impariamo a considerare spaventevoli – o a non considerare tali. Sono cioè molte le cose che si colorano di qualità positive o negative, così da apparirci paurose o attraenti, a seconda di come ce le rappresentiamo. E se non possiamo governare la paura, possiamo governare però le rappresentazioni di ciò che è pauroso.
Ma chi o cosa governa oggi le emozioni? Chi preme sul pedale della paura? Difficile dirlo. Perché è difficile dare una risposta univoca. Se uno degli effetti della paura è quello di impedire di pensare, per riportare le cose al loro posto sarebbe bene prendersi comunque la briga di distinguere. Ed esercitare l’arte del discernimento, che significa: mostrarsi pazienti nell’analisi e rigorosi in ogni osservazione. Rinunciare perciò anche ai facili espedienti retorici, d’accordo, ma non rassegnarsi a un generico e indeterminato clima di paura. Sarebbe sciocco ovviamente dire che non c’è nulla da temere. Ma sciocco è anche cedere alla retorica catastrofista che – c’è da giurarlo – si sta preparando per la fine d’anno. E se a causa della crisi spenderemo meno, evitiamo almeno che a causa della paura quel poco finiremo col mandarcelo pure di traverso.

Charles Larmore

Charles Larmore a Europa, Occidente, questa sera alle 21.30. Di Larmore, celebre per essere stato tra quelli che han costretto Rawls a tornare sopra la propria teoria della giustizia, vi segnalo codesta conferenza sulle basi morali del liberalismo, che però è in inglese, e una lunga recensione al suo libro più importante tradotto in italiano, Pratiche dell’io

Risposte

Provo a rispondere alle domande rivoltemi non più tardi del maggio scorso (sono celere con le risposte, come vedete) in questa ‘lettera aperta’ che seguiva le giornate della Scuola di Camerota, e un breve contributo apparso su 2/2008 di Italianieuropei.
Cerco di farlo il più brevemente possibile (tanto se ne riparlerà).
1. "Non condivido la liquidazione della razionalità liberaldemocratica a metafisica fra le tante". Neanch’io la condivido: e infatti non la sostengo. Dire che ci vuole una bella metafisica alle spalle della razionalità liberaldemocratica perché questa funzioni (una metafisica alla quale han lavorato in tanti, da Descartes in poi), non vuol dire che è una fra le tante possibile, e che tutte per me pari sono.
Ho poi molti dubbi sull’idea che il relativismo falsificazionista (che dopo tutto si riduce esso pure a un insieme di regole) non abbia bisogno per funzionare di qualcosa che non sta dentro quelle regole, e non mi riesce quindi di capire quale autonomia dal campo della metafisica possa vantare. Naturalmente bisogna intendersi sulle parole, per esempio sulla parola metafisica. Se è metafisica solo una roba che fa affermazioni su Dio, allora d’accordo: il falsificazionismo non ce l’ha. Ma se le distinzioni ricordate nella ‘lettera aperta’ (formale/materiale; essere/dover essere, ecc.) sono, come credo, distinzioni metafisiche, distinzioni in cui ne va cioè, come direbbe taluno, del senso d’essere dell’ente, allora non sono affatto d’accordo sull’autonomia di alcunché.
2. Se così stanno le cose, cade anche questa seconda obiezione: che io e Mario e voi tutti siamo infatti d’accordo su cosa sia e su come funzioni la razionalità procedurale rende sicuramente plausibile che sia questa proceduralità la migliore (non direi l’unica)  fonte di legittimazione delle regole. Ma appunto plausibile, in un determinato contesto in cui io e Mario condividiamo un sacco di cose, prima di convenire su ciò che è plausibile e ciò che non lo è. (E la cosa peraltro finirebbe là, e finisce effettivamente molto spesso, se non ci fossero però casi in cui questo convenire non basta più, o si restringe).
3. Qui chiedo: a quale senso di giustizia ti appelli, per porre la domanda che poni? La giustizia di Rawls, peraltro, non mi entusiasma affatto, e visto che scrivo dopo la giornata De Martino, domando banalmente: credi tu che sarebbe bastata ai contadini meridionali che De Martino incontrava "oltre Eboli"?

L'impegno di De Martino tra politica e cultura

(Se volete una prima informazione sull’argomento, leggetevi questa pagina di Massimo De Carolis)

La Fondazione Italianieuropei e la Fondazione MezzogiornoEuropa organizzano, con il Patrocinio dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e dell’Associazione Internazionale Ernesto De Martino, il convegno "L’impegno di De Martino tra politica e cultura". Il convegno si terrà a Napoli, Mercoledi 10 dicembre, presso l’Istituto Studi Filosofici (Via Monte di Dio 14, Palazzo Serra di Cassano).

on il Patrocinio dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici
e dell’Associazione Internazionale Ernesto De Martino

L’impegno di De Martino tra politica e cultura

Napoli, Mercoledi 10 dicembre

Istituto Studi Filosofici
Via Monte di Dio 14, Palazzo Serra di Cassano

 

Ore 15,30 Il Mondo di Ernesto De Martino

Presentazione dell’iniziativa
Massimo Adinolfi

Relazioni
Massimo De Carolis, Che cos’è il mondo e perché può finire

Marcello Massenzio, Cristianesimo e identità culturale dell’Occidente. La visione di Ernesto De Martino

 

Ore 16,30 Il Mezzogiorno di Ernesto De Martino

Tavola Rotonda

Modera
Ivano Russo

Interventi
Marino Niola

Francesco Paolo Casavola

Beppe Vacca

Massimo D’Alema

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Il partito vero che il Pd ancora non è

C’è un ovvio elemento di garantismo dal quale sarebbe bene che muovesse ogni discussione intorno alla cosiddetta questione morale. Ma è vero che, rispetto alla velocità e all’imponenza con cui l’opinione pubblica, attraverso i media, viene raggiunta dalle notizie relative a indagini in corso, appellarsi al principio per cui nessuno è colpevole sino a sentenza definitiva, e a qualunque altro principio debba attendere la finale sanzione di qualche tribunale, suona vagamente derisorio. Poiché però la democrazia non ci guadagnerebbe se i giornali, per risolvere il problema (e risparmiare sui costi), licenziassero tutti i cronisti di nera, sembra che ci sia poco da fare, salvo incatenarsi dinanzi alla sede di un giornale, per far sentire la propria voce sui giornali.
In realtà, qualcos’altro da fare deve pur esserci, perché di sindaci incatenati in giro per l’Europa non ce n’è – e di procure che si sequestrano a vicenda le carte neppure –, il che lascia pensare che nei rapporti fra politica, magistratura e giustizia le cose qui da noi non stanno proprio come negli altri paesi, e che dunque non c’è da prendersela solo con lo spirito dei tempi e la caduta tendenziale del saggio di democrazia (o di moralità, o di tutte e due le cose). Proprio la clamorosa protesta del sindaco Domenici consente di mettere a fuoco almeno uno dei problemi che abbiamo. E di mettere sotto accusa la politica – attività che assicura sempre a chi la propugna un certo vento a favore – per ragioni però squisitamente politiche. Per ragioni che attengono cioè alla credibilità della politica e, poiché in politica le due cose non possono andar scisse, anche alla sua forza e al suo peso. Il sindaco Domenici è infatti anzitutto un sindaco, cioè uno dei protagonisti di quel nuovo assetto istituzionale che nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica avrebbe dovuto comportare un netto miglioramento dell’offerta politica del Paese, in ragione di un maggiore potere in capo alla figura del primo cittadino, che fece addirittura sognare a Mario Segni, per una breve stagione, l’avvento palingenetico del Sindaco d’Italia. Va da sé che un tale maggior potere doveva comportare la correlativa diminuzione di peso di tutte le altre istanze: dal Consiglio comunale alla Giunta ai partiti. I deprecabili partiti. Eccoci quindi al punto. Intervistato da Lucia Annunziata insieme al sindaco Iervolino, Domenici non ha auspicato che, come già accaduto sotto il fascismo, la stampa non diffondesse più notizie di nera; non ha chiesto di portare l’azione della cattiva magistratura sotto il controllo della politica e, nonostante l’incalzare dell’intervistatrice, non ha neppure inteso attribuire al gruppo editoriale contro cui protestava di prestarsi a qualche manovra occulta e inconfessabile. Ha espresso, molto più semplicemente, il suo voto: “Vorrei che il Pd diventasse finalmente un partito vero!”.
Un partito vero. Come dire: abbiamo provato i sindaci veri, liberi dall’impaccio di rispondere alle segreterie dei partiti, e li abbiamo lasciati alla mercé delle loro segreterie telefoniche, e di tutti quelli che possono farle squillare con qualche energia. Ovviamente, la colpa originale (colpa politica, beninteso) non sta nel fatto che il telefono squilli, e che qualcuno risponda, ma nell’aver allontanato troppo la voce di chi risponde dalla vera platea innanzi a cui si risponde, che in democrazia è formata dai cittadini. I partiti servono a questo. Le grandi organizzazioni collettive servono a questo. A non lasciare i sindaci nella posizione di utenti telefonici, e tutti i cittadini in quella di spettatori, poiché in tal caso è fatale che i giornali cerchino lo spettacolo, e quale spettacolo migliore di un’inchiesta giudiziaria condita da indiscrezioni, intercettazioni, e vociferazioni varie? E come meravigliarsi se anche un sindaco sia costretto a dare spettacolo, perché la sua voce faccia sufficiente clamore e non sia alla mercé di chi lo spettacolo lo organizza?
Tutto il resto ci vuole. Ci vuole la riforma della giustizia perché è evidente che qualcosa non funziona. E ci vogliono i codici etici e i codici deontologici e ogni altro codice piaccia all’umana fantasia di inventare. Ma senza una qualche idea del senso storico e politico della funzione dei partiti, l’interpretazione in chiave para-giudiziaria delle vicende del paese apparirà l’unica maniera di dare un senso alla lettura quotidiana dei giornali, e le questioni morali e le grane giudiziarie e persino le umane bassezze continueranno a tenere banco.

(Il Mattino)

De Monticelli

Quinta puntata di Europa Occidente, alle 21.30 su Red TV. Ospite Roberta De Monticelli  (che parla tra l’altro di Oxford e Michael Dummett, di arte e disciplina della percezione, e della linea politica della Chiesa)